IL VIAGGIO, UNDICESIMA PUNTATA

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

Lungo la valle del Tevere sino ad Otricoli

Ma in quel giorno il bel ponte era ancora in piedi, era un ponte importante, uno dei pochi che permettevano l’attraversamento del fiume non solo in quel tratto, ma anche a nord, dove i ponti di epoca romana di Gallese ed Orte erano crollati, e a sud, dove si doveva arrivare a ponte Milvio per trovarne un altro. Fu papa Sisto V nel XVI secolo che prese la decisione di costruire un nuovo ponte nella località di Borghetto. La leggenda narrava che lui, giovane francescano in viaggio da Loreto a Roma, arrivato lì, per attraversare il fiume, si rivolse ad un barcaiolo che svolgeva quella funzione.

Questi, vedendolo non particolarmente florido nell’aspetto e temendo che non l’avrebbe pagato, pretese il breviario come cauzione. All’arrivo sull’altra sponda il frate disse al barcaiolo che quando sarebbe diventato Papa avrebbe costruito lì un ponte, così gli avrebbe tolto prima il lavoro, poi lo avrebbe fatto impiccare sotto i piloni del ponte, una volta costruito. Ed ancora al tempo che stiamo raccontando sotto il ponte si vedevano dei ferri che si voleva segnassero il punto dove si era verificata l’esecuzione.

Lasciato il ponte, percorsero il tratto di strada che correva diritta per alcuni chilometri, sino a raggiungere l’altro lato della pianura, raggiunto il quale, la strada piegava a sinistra a ridosso dei rilievi collinari. Da che avevano lasciato Borghetto non avevano incontrato nessuno lungo la strada. In lontananza si vedevano contadini intenti ai lavori d’ottobre sulla campagna reduce dal riposo estivo. Aravano in alcuni tratti, iniziavano la semina in altri, già preparati e pronti a ricevere il prezioso seme. Stormi di uccelli vaganti nell’aria picchiavano sui campi per quel pasto a buon mercato, prima che la terra avesse tempo di nasconderlo alla vista. Altri uomini erano intenti a raccogliere dalle piante da frutto le primizie della stagione. Ogni tanto il silenzio era rotto dagli uomini che si davano alla voce con quelli distanti, per dirsi cose, per un bisogno di comunione, tra loro, con la terra che lavoravano, con gli alberi che accudivano. I tre si trovarono a rallentare il passo per la fatica che si andava accumulando ed anche per godere della quiete del paesaggio. Si avvicinarono ad una radura in riva al fiume che in quel tratto aveva frenato la sua corsa, sì che appariva a occhi non attenti, immobile. Si fermarono. Erano lontani dalla guerra che imperversava poco distante. Il cielo nuvoloso lasciava filtrare in qualche angolo raggi caldi di sole. Si tolsero le scarpe e immersero i piedi e le gambe nell’acqua del fiume. Un freddo discreto, refrigerante, benefico, su piedi abusati dal cammino. Lo sciabordio dell’acqua sulla pelle era piacevole, avrebbe spinto ad immergere tutto il corpo nel fiume sacro se fosse stata la stagione propizia. Dopo un tempo ripresero il cammino per dirigersi alla volta di Otricoli la romana Ocriculum. Da basso, in prossimità del Tevere sorgevano i resti della città romana. Resti imponenti di edifici pubblici: l’anfiteatro, le terme, un tempio. E poi edifici modesti, dirupati, diffusi in una ampia area, e in mezzo il selciato della via Flaminia che passava di lì.

Tutto a riconfermare l’opulenza della città posta sulla consolare e lungo il fiume sacro. Tito Livio racconta che dopo la battaglia di Mevania, l’attuale Bevagna, dove furono sconfitti gli Umbri, solo gli abitanti di Ocriculum, non avendo questi partecipato allo scontro contro i romani, da quelli ebbero il titolo di amici dei romani. Grazie anche a questo, oltre alla favorevole posizione, la città divenne con il tempo centro commerciale importante con un porto sul Tevere e una statio sulla Flaminia per la raccolta e la vendita dell’olio prodotto sulle colline circostanti. Divenne presto anche un centro per la villeggiatura dei ricchi romani. Vi aveva una villa Tito Annio amico di Cicerone, e Pompea Celerina, la suocera di Plinio il giovane. Donna ricchissima dai grandi possedimenti terrieri. Dunque città dedita all’agricoltura, al turismo, ed anche industriale con la fabbrica di coppe a rilievo dette coppe di Popilio, accanto a fabbriche di tegole e mattoni.

Nel suo territorio si svolse nel 412 d.C. la grande battaglia tra l’usurpatore Eracliano l’africano, e Marino, il generale dell’imperatore Onorio che uscì vincitore. Le cronache del tempo raccontano che sul terreno si contarono cinquanta mila morti. Ocriculum fu poi distrutta alla fine del 500 dai longobardi e la città fu abbandonata per essere ricostruita sul colle antistante dove è ancora oggi.

La strada che stavano percorrendo era in leggera salita, lasciava a destra i resti della città romana e a sinistra si intravedevano le case di Otricoli sulla collina. Per andarci bisognava prendere una deviazione che si distaccava dalla Flaminia e dopo un breve tratto arrivava al paese. I nostri continuarono lungo la consolare. Questa saliva lungo un profilo collinare, sospeso a sinistra sulla pianura dove sempre più lontano scorreva il Tevere, e a destra sopra un vasto territorio delimitato in lontananza dai rilievi pre-appenninici. Non case o paesi in quell’angolo di mondo, solo qualche raro casolare, boschi e in alcuni tratti terreno coltivato. Percorsero alcune decine di chilometri con passo regolare ma lento, data la strada in salita.

Fitte boscaglie di alberi a foglia caduca che avevano cominciato a mutare il loro colore dal verde verso i toni del marrone. Accanto, isolati o raccolti in gruppo, pini che in alcuni tratti delimitavano la strada, sempre lussureggianti nonostante il volgere delle stagioni. Qualcuno caduto rovinosamente a terra, quasi una punizione del loro essere cicale, in confronto alle querce che mostravano di non temere nulla, con i loro tronchi possenti, ma umili da accettare la spoliazione nella stagione fredda per poi rinascere più vigorosi all’arrivo della primavera. Forse per questa forza che esprimono, le querce e le loro foglie appaiono nelle decorazioni degli ufficiali di alto grado.

Arrivati in cima alla salita, la strada procedeva pianeggiante per alcuni chilometri sino ad arrivare ad un bivio. A destra riprendeva a salire in direzione di Narni, a sinistra scendeva per gettarsi in una vallata stretta, boscosa di sempreverdi soprattutto lecci. In fondo scorreva il fiume Nera che continuando la sua discesa si sarebbe gettato nel Tevere presso Orte. Da Otricoli la Flaminia era entrata in territorio umbro, e il terreno collinare e boscoso l’annunciava. Il distacco dagli spazi ampi delle pianure laziali era deciso, raccontava anche il carattere diverso della gente umbra che più ci si allontanava da Roma più diventava chiuso, a tratti scontroso. Chiusi nelle loro città di pietra, gli Umbri hanno visto fluire la storia lungo la consolare Flaminia che attraversa la regione da un capo all’altro. Se n’erano tenuti in disparte per quanto avevano potuto. Ma se molestati s’erano fatti sentire, come fu per Annibale ad opera degli spoletini.

Questi, reduce dal trionfo del Trasimeno, si fece sotto le mura di Spoleto, per proseguire alla volta di Roma, ma ne fu impedito dagli abitanti della città e costretto a cambiare itinerario. Quasi una vendetta degli spoletini per la strage da lui perpetrata sul console Flaminio ed i suoi legionari. Così con il Papa, quando, in anni più vicini a noi, i perugini si rifiutarono di pagare l’aumento della tassa sul sale che il Pontefice aveva deliberato. Ma l’atto di ribellione costò loro la distruzione dei quartieri occidentali della città dove sorgevano i palazzi dei Baglioni signori di Perugia, che finirono in quella occasione il loro dominio, e sulle rovine fu edificata la rocca paolina a vigilare e reprimere altre rivolte.

Superarono il bivio e presero per Narni, la strada diventò subito salita. Da quando avevano lasciato Sassacci all’alba, avevano percorso circa venti chilometri. C’era stata la breve sosta nelle acque del Tevere, ma escluso quel tempo, avevano camminato ininterrottamente per quasi quattro ore. I tratti in salita ne avevano rallentato la marcia. Decisero di fermarsi, spostandosi sotto un grande leccio discosto una cinquantina di metri dalla strada, un poco nascosti alla vista di coloro che transitavano, mentre da parte loro avevano un a sufficiente visuale. Silvio tirò fuori dallo zaino quanto avevano acquistato a Borghetto e, fatto della sua giacca una tovaglia, apparecchiò per lo spuntino mattutino: pane, formaggio, e fette di lonza.

Silvio sentiva su di sé la responsabilità di quel viaggio, nei confronti del nipote e ora anche di quel ragazzo che si era unito a loro. Non più giovane sentiva la fatica più degli altri ma non lo dava a vedere, anche se sulla salita il suo passo diventava più lento e gli altri erano costretti a rallentare. In più era gravato da pensieri che lo turbavano. Quella decisione di rientrare a Sigillo era sofferta, lo spingeva la preoccupazione della famiglia: in particolare della consorte con le due figlie. Queste avevano lasciato Roma da alcuni mesi e non sapeva come si fossero sistemate nel paese. C’erano il fratello Umberto e il padre Attilio che certamente avevano provveduto alle loro necessità, ma mancava la sua presenza. Poi c’era il grande cantiere nella campagna romana dove aveva portato anche il nipote Zeno. L’attività si era interrotta da tempo, da quando il progetto dell’Expo 42 o E42, come veniva chiamato, a causa della guerra, si era interrotto. Lui, capo cantiere, aveva avuto la responsabilità di controllare la vasta area dei lavori, pronto a riprendere l’attività se le cose fossero andate in un certo verso.

Le grandi statue, in attesa di essere collocate tra le colonne e le nicchie del Colosseo Quadrato e degli altri edifici completati, giacevano abbandonate per terra e queste e altro materiale erano soggette a continui saccheggi. Per quanto aveva potuto, aveva svolto l’incarico di vigilare, affidatogli dall’ingegnere Costanzi, il titolare dell’impresa che aveva avuto l’appalto di quell’enorme lavoro. Si trattava di costruire una nuova Roma nella campagna acquitrinosa in direzione del mare, aperta verso il Mediterraneo e oltre verso il mondo.

Desiderio di un nuovo e prestigioso ruolo della nazione italiana. Nostalgia di un passato imperiale e speranza di un futuro radioso. Non era stato cosi e l’interruzione dei lavori ne fu il simbolo. Ora anche Costanzi e le maestranze si erano dileguati e Silvio, a malincuore se ne tornava al paese, senza abbandonare l’idea di un ritorno, per riprendere in qualche modo il lavoro più entusiasmante della sua vita. Ricordava le albe dorate in sella alla bicicletta dal Quadraro, la nuova borgata romana dove aveva casa, sino alle mura aureliane. Lì aspettava Zeno che arrivava anche lui in bicicletta da via dei Pastini nei pressi del Pantheon, e insieme salivano su un camion dell’impresa accanto ad altri muratori prelevati prima. Percorrevano l’autostrada in costruzione che collegava Roma con il cantiere.

All’autostrada era già stato dato il nome di Via Trionfale. Ma ora era tutto finito, però forse non tutto era perduto, pervicacemente qualcosa glielo suggeriva. Sarà stato il fascino che Piacentini e gli altri architetti del progetto esercitavano su di lui, e che gli facevano pensare che in qualche modo avrebbero completato l’opera maestosa. D’altra parte tutti questi erano vicini al regime e per lui socialista la cosa creava qualche conflitto interiore. La stima e il rispetto che aveva per loro lo aveva portato ad una minore acredine nei confronti di tutto quello che era opera del governo. In particolare per le opere costruttive che realizzava. Lui non se ne rendeva conto, non l’avrebbe mai ammesso, ma chi gli stava vicino lo notava.

la via Flaminia ad Otriculum

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