I DOCUMENTI DI MUSSOLINI

Aprile 1945. La Repubblica Sociale Italiana, costituita da Benito Mussolini nelle regioni del centro nord della penisola occupate dai tedeschi , dopo la liberazione dalla prigionia sul Gran Sasso, sta vivendo i suoi ultimi giorni. Le truppe alleate, superate le linee di difesa tedesche, si avvicinano rapidamente a Milano, dove Mussolini si trova . Ha abbandonato Gargnano, sul lago di Garda, vicino a Salò, sede del suo governo, dove rischiava di restare isolato. Ma sembra ossessionato dai documenti.

Documenti, documenti, documenti: perché si preoccupa tanto dei documenti in un momento difficilissimo, quando si tratta di sottrarsi alla morsa che si sta stringendo inesorabile tra le truppe alleate e i partigiani? Quella dei documenti sembra una follia, ma per Mussolini è una necessità.

I tedeschi hanno allentato la pressione sui partigiani, alla ricerca di una via d’ uscita: la situazione sta precipitando ed è ormai fuori controllo. Occorre prendere rapidamente una decisione. Il 20 aprile Mussolini ha una riunione con alcuni ministri: è l’ultima e nessuno dei presenti mostra di farsi ancora illusioni. Solo Pavolini difende ancora la scelta del “ridotto alpino repubblicano” in Valtellina, il luogo scelto già nel settembre dell’anno precedente per l’ estrema difesa.

Mussolini non ha mai mostrato di dare molto credito all’attuazione del progetto: comunque è l’ unica strada realmente percorribile dopo che sono falliti i tentativi di una trattativa con gli alleati, che l’hanno respinta chiedendo una resa senza condizioni.

Le testimonianze in proposito sono tante e circostanziate, tanto da non lasciare dubbi su questi tentat ivi: alla possibilità di trattare le condizioni di una resa Mussolini continua tuttavia a credere, anche dopo il fallimento il 25 aprile del tentativo presso la sede dell’ arcivescovado , dove, mediatore il cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, si incontra con il generale Raffaele Cadorna, l’Avvocato Achille Marazza e l’ingegnere Riccardo Lombardi, rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia. All’arcivescovado

Mussolini respinge la richiesta di resa senza condizioni ma apprende che il generale Wolf sta già trattando la resa delle truppe tedesche. Probabilmente in quel momento si rende conto che l’unica possibilità di sopravvivenza è la fuga. Non può ignorare che nel caso venga catturato dalle formazioni partigiane ha poche possibilità di sopravvivenza: l’articolo 5 dell’ editto promulgato il 25 aprile dal CLNAI, che ripete una disposizione analoga promulgata il 6 aprile dal C.L.N. del Piemonte, prevede la pena di morte da parte di tribunali militari nominati dai CLN “per i membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo”.

Qualora invece sia catturato dagli alleati, la sua sorte è altrettanto certa: l’art. 29 del cosiddetto “armistizio lungo”, quello cioè che aveva stabilito le condizioni della resa italiana, l’8 settembre 1943 , prevede fra l’altro che tutte le personalità del regime fascista saranno consegnate agli alleati che li processeranno, come avverrà poi a Norimberga per i nazisti. Tra gli Alleati ha prevalso la tesi di Roosvelt, favorevole al processo, rispetto a quella di Churchill, che vorrebbe l’esecuzione immediata di Mussolini e di altri otto italiani, primo fra tutti Rodolfo Graziani, dichiarati ”criminali di guerra”.

Mussolini spera dunque di arrivare a sfuggire ai partigiani, di arrendersi agli alleati e di essere processato da loro, un processo nel quale ha – o ritiene di avere – molte probabilità di venire assolto. E’ probabile che gli italiani d’America faranno pressione a suo favore presso Truman, che è diventato Presidente dopo la morte di Roosevelt. Per quanto riguarda gli inglesi, ritiene di avere carte sufficienti per condizionare l’atteggiamento del Primo ministro Churchill: quello della vera (o pretesa) corrispondenza con colui che ha condotto l’Inghilterra alla vittoria è, come vedremo, uno dei tanti misteri sulla sorte dei documenti di Mussolini .

Mussolini in quei giorni sembra ossessionato dai documenti.

Il regime ne ha accumulato molti dal 1922 in poi: ci sono i documenti riservati dei Ministeri, quelli conservati presso la segreteria di Mussolini, quelli della polizia, compresi quelli dell’OVRA, la polizia politica segreta, quelli del tribunale speciale per la difesa dello Stato, quelli prodotti dalle mille emanazioni del regime , a cominciare dal Gran Consiglio del fascismo fino alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, al partito nazionale fascista, alla Gioventù italiana del littorio , alle Corporazioni.
E’ una massa sterminata, quintali e quintali di carte, trasferite dagli archivi romani sul lago di Garda se non sono stati frettolosamente distrutti all’indomani del 25 luglio 1943, quando l’approvazione dell’ordine del giorno di sfiducia a Mussolini presentato da Grandi al Gran Consiglio del fascismo aveva decretato la fine del regime.
Alla metà di aprile 1945 Mussolini ha ordinato un ulteriore trasferimento di quei documenti, o almeno di quelli ritenuti più importanti: dovranno seguire il Governo nell’ulteriore trasferimento in Valtellina o essere distrutti.
In meno di quindici giorni si dissolve, in modo spesso romanzesco, con molti misteri non ancora chiariti, la documentazione di ventitrè anni di vita pubblica italiana , una falla mai del tutto colmata nella corretta ricostruzione degli avvenimenti di quegli anni.

I documenti ritenuti superflui vengono distrutti, ma l’ ordine di Mussolini è eseguito solo in parte e quando esiste una convenienza degli interessati alla distruzione. E’ già accaduto per i documenti dell’OVRA, la polizia politica segreta. Nei suoi archivi c’è di tutto: compromettenti trascrizioni di comunicazioni telefoniche, denaro pagato ad insospettabili delatori, elenchi degli eroi del doppio e talvolta triplo gioco, il fascicolo personale di Hitler e quelli dei gerarchi fascisti, l’elenco delle spie tedesche in Italia. Ce n’ è abbastanza da far tremare il regime, qualunque regime.

I documenti della polizia segreta da Roma sono trasportati in parte a Valdagno, in locali appartenenti al conte Marzotto, l’ industriale tessile, ed in parte a Vobarno, un piccolo paese in provincia di Brescia, ed a Venezia , nelle cantine di Palazzo Labia. Presto i prelievi: i primi ad essere portati a Maderno, per ordine del prefetto La Pera, direttore dell’ufficio per la razza del Ministero dell’ Interno, sono i documenti sulla campagna contro gli ebrei, oltre ad una sessantina di fascicoli riguardanti personalità del regime, a cominciare da quello di Bocchini , già capo della polizia.

Nell’ottobre 1944 sono prelevati altri fascicoli, compreso quello riguardante Hitler. II colonnello Kappler, a sua volta, fa prelevare altri fascicoli sui gerarchi, oltre a quelli sullo spionaggio nazista in Italia . Che fine fecero?

Spariti nel nulla , senza lasciare traccia. Nel 1945 ne restavano ancora ben 400 casse, ognuna pesante circa un quintale: le presero in consegna i carabinieri, che presidiarono il deposito di Valdagno, quello più importante, sotto il controllo inglese: questa volta fu lo spionaggio britannico a prelevare i documenti ritenuti più importanti , per poi restituire i restanti al Governo italiano. Oggi i documenti sottratti si trovano nel P.R.O. a Londra, alla voce Ovra Agents, ma nessuno può naturalmente garantire che non ne sia scomparso nessuno.

L’archivio militare segreto, raccolto in dieci casse, che comprendeva anche il carteggio con Hitler relativo alla guerra dopo il 25 luglio vennero portati a Palazzo Vidoni, a Roma, per ordine del generale Castellano. Il duca di Acquarone, ministro della Real casa, prelevò, prima del trasferimento, i fascicoli personali del re e della famiglia reale , che da quel momento scomparvero. Gli altri documenti invece, dopo un fallito tentativo di farli giungere in Svizzera, vennero sequestrati alla stazione di Milano e trasferiti nell’archivio della segreteria personale di Mussolini: da quel momento la loro sorte sarà quella di tutti gli altri documenti conservati nell’ archivio . A Milano vennero anche sequestrati i documenti relativi all’ultima seduta, il 25 luglio 1943, del Gran Consiglio del Fascismo, annotati personalmente da Mussolini: finiranno, dopo molte vicende, all’archivio centrale dello Stato dove si trovano tuttora.

Questa enorme massa di documenti diventa ancora più cospicua se si tiene conto che una quantità non precisabile di essa fu duplicata in una o più copie. A questo proposito esistono prove difficilmente controvertibili. La prima è una telefonata tra Mussolini e Zerbino, ministro degli interni, avvenuta il 25 marzo 1945, intercettata dai tedeschi e trascritta e· pubblicata recentemente (Lazzero, Il sacco, pag. 88) in cui Zerbino comunica a Mussolini che “sono già pronte tre fotocopie” dei documenti ricevuti ed ha da lui l’ordine di inviare il materiale a Milano e di fargli avere le altre due copie con gli originali, aggiungendo che esse debbano essere conservate in posti diversi e che lui stesso terrà “poche carte” dato che “non si sa mai a che cosa si può andare incontro”. Nella telefonata non si fa alcun cenno al tipo di documenti o al loro contenuto: notevole è il fatto che Zerbino non mostri alcuno stupore per la richiesta avuta ed anzi precisi che sono “già” pronte due fotocopie, ciò che porta a ritenere che il numero di quelle richieste fosse maggiore.

È da tener presente che nel 1944 la tecnica di riproduzione di documenti era molto diversa dalla fotocopiatura di oggi: una soluzione era la fotografia del documento con appositi obbiettivi e la successiva stampa del negativo, ciò che richiedeva la disponibilità sia di strumenti idonei sia della carta da stampa (Zerbino, nella

telefonata con Mussolini tiene a sottolineare che “la carta per farlo (per le copie) non è ben flessibile e, se sforzata, rischia di essere danneggiata”).

Il contenuto della telefonata conferma implicitamente la testimonianza di Nino D’Aroma contenuta nel volume di memorie pubblicato nel 1962. D’Aroma, giornalista a “L’Idea nazionale” ed al “Corriere della Sera”, federale di Roma dal 1931 al 1932, direttore del quotidiano “Il Piccolo” di Roma dal 1939 al 1943, commentatore politico dell’E.I.A.R., alla fine dello stesso anno era stato nominato da Mussolini primo Commissario straordinario e poi Presidente dell’Istituto Nazionale Luce, trasferito da Roma a Venezia.

Nel febbraio 1945, circa un mese prima della telefonata Zerbino – Mussolini, D’Aroma, stando al suo racconto, è convocato insieme a Ferdinando Mezzasoma, Ministro per la cultura popolare nella R.S.I. e fucilato dai partigiani dopo il 25 aprile 1945. il Duce gli chiede di fotocopiare più di duecento documenti personali, aggiungendo che bisogna “farli fotografare da gente di assoluta discrezione” e che il lavoro deve “essere compiuto sotto un’estrema sorveglianza, solo di giorno, e nessuno (deve) saperne nulla”. Il “Luce” ha tutte le attrezzature

necessarie (e non sono molti in quel momento a disporne), suo Presidente è un fascista di provata fedeltà, altrettanto sono i dipendenti dell’Istituto, che per vent’anni è stato anche il “fotografo” del regime fascista. Nei mesi precedenti, secondo D’Aroma, era stato proprio il “Luce” a fotocopiare tutti i documenit. relativi al processo di Verona contro coloro che avevano il 25 luglio 1943 sottoscritto l’ordine. del giorno Grandi che aveva segnato la fine del regime fascista.

D’Aroma tentò di sottrarsi alla richiesta di Mussolini: se i documenti erano veramente delicati, non c’era nessuno di cui ci si potesse fidare per farli fotografare mantenendo il segreto sul loro contenuto. Mussolini chiese allora di disporre di un nucleo di specializzati a Salò per fotografare almeno una trentina di documenti, ma, dopo quattro giorni, anche questa richiesta ebbe esito negativo: D’Aroma comunicò a Mussolini che non disponeva di persone di cui fidarsi completamente.

La telefonata a Zerbino fa ritenere che Mussolini tentò altre strade per la fotocopiatura dei documenti: probabilmente – ma è solo un’ipotesi – decise di servirsi delle apparecchiature della polizia politica presso il Ministero degli interni. Non può nemmeno escludersi che la duplicazione di cui parla nella telefonata a Zerbino e quelle (eventualmente) successive siano avvenute in uno stabilimento che disponeva delle attrezzature adeguate sotto la sorveglianza della polizia politica o da essa provvisoriamente requisito.

L’esistenza di copie fotografiche dei documenti in questione può essere dunque ritenuta quanto meno possibile: ciò rende ancora più difficile dare una risposta convincente – finora mancata – ai numerosi problemi circa la sorte di tutti i documenti storicamente rilevanti conservati presso organi e persone della R.S.I.

Molti, e per motivi diversi, erano gli interessati ad entrarne in possesso. Già il 1° gennaio 1945, un piccolo gruppo di persone, su un “gippone e due automobili, al comando del tenente Leardi, un italo americano che faceva parte dell’O.S.S., iniziò a rastrellare, tra Bergamo, Gardone, Salò e Medesimo ciò che era restato degli archivi del Ministero degli interni e di quello degli esteri, oltre a dodici casse contenenti documenti sulla massoneria italiana. Di tutti quei documenti non si è trovata più alcuna traccia sicura. Documenti di vario genere furono sepolti nei giardini delle ville che ospitavano i gerarchi fascisti e le loro famiglie e successivamente in parte recuperati. Altri documenti, stando ad una testimonianza resa nel 1953 da Eugen Putz, agente del controspionaggio tedesco, furono affondati a più riprese nel lago di Garda, il modo ritenuto più semplice per distruggerli.

Il giornale per le forze armate americane “Stars and Strips” pubblicò il 1° maggio 1945 la notizia che la divisione di montagna della V Armata che aveva occupato la villa dove aveva abitato Mussolini aveva trovato “numerosi importanti documenti”: di essi si è perduta qualunque traccia sicura. Altrettanto è avvenuto per i documenti portati via dalla popolazione il 25 aprile dalle sede del Ministero dell’interno: nessuno ne ha mai saputo nulla.

Un’altra cassa di documenti fu abbandonata presso la prefettura di Milano. Ritrovata dopo alcuni anni, nel 1950 fu consegnata alla Presidenza del Consiglio ed i documenti successivamente trasferiti all’ archivio centrale dello Stato. Nella cassa di Milano erano contenuti autografi, telegrammi e lettere di Mussolini. Il materiale venne ritrovato in perfetto ordine, tanto da far ritenere difficile che sia stato sottratto qualche documento, che del resto, in base a quelli ritrovati, sarebbe stato di scarso valore storico – politico.

Carte probabilmente prive di impmtanza furono prelevate dallo studio di Mussolini, a Gargnano, per ordine del prefetto Luigi Gatti, segretario di Mussolini; alcune carte furono bruciate, di altre manca qualunque notizia.

Mistero anche sui diari autografi di Mussolini, di cui si è molto parlato , affidati, a quanto sembra, a Gina Ruberti, moglie del figlio Bruno, morto in un incidente aviatorio, e depositati con altri documenti e valori presso la legazione giapponese a Berna: a chi andò a richiederli dopo la fine della guerra fu risposto che, nell’imminenza della resa, era stato distrutto per ordine di Tokio qualunque documento potesse giovare ai vincitori. E’ così o i servizi segreti americani, che sorvegliavano notte e giorno l’ingresso della legazione e che quindi non potevano non sapere del deposito, pretesero, al momento della resa giapponese, la consegna di quei documenti?

Nessuno è finora riuscito a dare una risposta definitiva al quesito, così come non si è mai riusciti ad accertare quali e quanti . documenti furono consegnati a Rachele Mussolini dal marito, nel momento in cui si separò da lei a Villa Macherio, ultima sua residenza a Como. La moglie di Mussolini in un’intervista a “Tempo illustrato” del 1947 dichiarò che le carte in suo possesso erano scomparse.

Nella villa di documenti ce ne erano in realtà ben due casse, che furono trovate dai partigiani e depositate nella palestra della “Ginnastica comense”. Il 22 maggio 1945 un reparto del Fuld Security Service inglese le sequestrò e le trasportò a Villa Donegani a Moltrasio dove furono prese poi in consegna dal C.I.C. americano. Furono inventariate, microfilmate e restituite nel 1947 al governo italiano. Nessuno sa dire se furono sottratti documenti.

Secondo la testimonianza di Virgilio Bertinelli, nominato dal CLN prefetto di Como, tra i documenti sequestrati c’erano anche carte con i nomi di Churchill e di Eden, il ministro degli esteri inglese. Fu solo una coincidenza che nell’estate 1945 Churchill si recasse proprio sul lago di Garda, come “turista e pittore” con la sua falsa identità di colonnello Warden?

Esisteva un nucleo di documenti ai quali Mussolini teneva di più, in quanto Ii riteneva indispensabili per chiarire la sua politica nel processo che avrebbe subito – o almeno sperava di subire – da parte degli alleati.

Quelle carte erano molte: almeno tre casse, secondo alcuni, contrassegnate con i numeri 22, 23 e 24, una sola cassa, la 24 secondo altri, oltre a documenti ritenuti da Mussolini di estrema importanza e stipati in una delle due grandi borse che decise di tenere con sé a garanzia che nessuno potesse appropriarsene. In quelle borse c’erano forse anche le lettere scambiate con Churchill negli anni precedenti· e che, secondo alcune testimonianze, Mussolini riteneva essenziali per spiegare “al mondo le vere, ripeto le vere ragioni del nostro intervento a fianco della Germania”?

Sono quasi sessanta anni che gli storici tentano di dare una risposta definitiva alla domanda sulla esistenza o meno di quelle lettere. Secondo alcuni, se Mussolini ne fosse stato veramente in possesso, le avrebbe utilizzate negli anni e nei mesi precedenti per denunciare al mondo la vera o pretesa malafede inglese. Certo è che il carteggio – se è esistito – non è stato mai trovato. Fu consegnato da Mussolini alla moglie, come fu sostenuto, per essere scambiato con gli inglesi per un lasciapassare per la Svizzera, dove donna Rachele non riuscirà però a rifugiarsi? L’interessata lo ha sempre negato e non esistono prove che la smentiscano.

Più verosimile è che il carteggio riguardante i rapporti con Churchill – se è mai esistito, o, se è esistito, se non fu consegnato da Mussolini alla moglie per essere utilizzato come salvacondotto – fosse tra i documenti che l’ex duce ritenne opportuno portare con sé nell’ultimo viaggio. Erano forse nella cassa, la n. 24, caricata sul camioncino Balilla che seguì l’autocolonna in partenza il 27 aprile da Milano per la Valtellina con Mussolini ospitato in un automezzo tedesco.

La cassa non giunse mai a destinazione. Pietro Carradori, autista di Mussolini, ha raccontato che Vittorio Mussolini e Orio Ruperti, partiti dalla Prefettura di Milano dopo l’ormai ex Duce, videro il camioncino fermo sulla strada, appena fuori Milano, con il cofano aperto: il motore si rifiutava di andare oltre.

A bordo c’erano, oltre l’ autista, un tale Grasso, la moglie, Maria Righini, cameriera di Mussolini e l’agente di Pubblica sicurezza Emilio Borsotti. L’autista rifiutò l’aiuto che gli venne offerto e con il Borsotti spinse il camioncino nella cascina Pila di Roserio mentre la moglie riuscì a salire su un veicolo, a raggiungere Como ed a informare Mussolini di quanto era accaduto.
Sull’automezzo venne lasciata la cassa di zinco piena di documenti fino all’orlo, lunga 90 centimetri ed alta 70, oltre a otto valigie. Grasso e Borsotti aspettano che qualcuno arrivi per aiutarli, ma nessuno si fa vedere. Il giorno dopo partono: le valigie vengono portate all’interno della cascina e la cassa affidata alla signora Piera Mazzotti che la apre e vede che è piena di documenti fino all’orlo. Nel pomeriggio Luigi Tapparelli,

comandante di un reparto della brigata Libertas di Garbagnate, trasporta la cassa su un triciclo a Baranzate. Gli oggetti e i documenti contenuti nelle valigie sono stati prelevati dai contadini della zona. Il giorno dopo il comandante della brigata con alcuni partigiani trasporta la cassa al Municipio di Garbagnate. E’ ancora chiusa o è stata scardinata? Le testimonianze in proposito sono contrastanti. Certo è che il 30 aprile, quando viene effettuato un controllo da parte del parroco coadiutore di Garbagnate con altre due persone dalla cassa mancano circa trenta centimetri di documenti. Il 1° maggio la cassa viene consegnata all’avvocato Luigi Meda, che il giorno successivo, alla presenza di due testimoni effettua l’ inventario .

Meda toglie dai documenti quelli relativi al concordato, che consegna in Vaticano a monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, e tra la fine del 1945 e il febbraio 1946 consegna gli altri documenti al Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi.

A lui il 13 dicembre 1945 sono consegnate anche alcune vali gie di documenti di Mussolini che hanno seguito una strada del tutto diversa. Rachele Mussolini a Como ha alloggiato nella casa di un tale Giuseppe Corbella e, prima di partire per il campo di concentramento di Terni, gli ha consegnato alcune valigie contenenti fra l’ altro documenti privati del marito, il diario scritto durante la prigionia a La Maddalena, il dossier Ciano e quello Bufarini Guidi. Le carte vengono dal Corbella affidate all’avvocato Giannino Ferrari e da lui al questore di Como per essere poi messe a disposizione del Presidente del Consiglio.

Molto più complessa e difficile da ripercorrere è la strada dei documenti contenuti in una delle due borse sequestrate a Mussolini il 27 aprile a Musso al momento della cattura da parte dei partigiani.

I bagagli – cinque valigie oltre alle due borse – sono caricati su due camion; le borse su quello in cui viaggia Mussolini e le cinque valigie su un altro. Le valigie contengono il famoso tesoro e non si saprà più nulla di serio sul loro destino finale.

Quando arrivano a Dongo Mussolini scende dal camion portando con sé una sola borsa.

E’ una borsa grande, di cuoio scuro , attraversata da due cinghie. Un partigiano, Bill, nome di battaglia di Umberto Lazzaro, gliela toglie di mano. Mussolini raccomanda di fare attenzione: la borsa contiene documenti segreti che hanno grandissima importanza storica. Bill è il primo ad aprire la borsa: vede che è piena di documenti e decide di metterla al sicuro. Insieme con l’altra borsa che contiene denaro viene avvolta in carta da imballaggio ed il pacco, con tanto di sigillo ,

depositato alla Cassa di Risparmio di Domaso e chiuso in una cassaforte a doppia chiave. Una la prende con sé Bill, l’altra il cassiere della banca.

Il 2 maggio Pedro, un altro partigiano, e Bill ritirano le valigie e le affidano al parroco di Gera Lario, Don Franco Gusmaroli. Il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà, viene informato dal colonnello Malgeri della guardia di finanza dell’esistenza delle borse e le fa ritirare da Gera Lario tra il 13 e il 15 maggio (la data esatta è incerta) per essere portata al comando generale del Corpo volontari della libertà. Incaricato del trasferimento è il partigiano Scapi, il quale non porta però le borse a Milano ma, su consiglio di un altro partigiano, Michele Moretti, va a Como, dove il materiale viene preso in consegna il 16 maggio dal comandante partigiano Orazio Gementi. Le borse, ancora nel pacco sigillato, vengono aperte alla presenza di altri cinque partigiani. Contengono denaro e carte ritenute di poca importanza che, ad ogni buon conto, vengono microfilmate da due fotografi, sembra del giornale “L’Unità”. Gli originali dei documenti vengono poi inviati a Cadorna. Secondo Bill le carte sequestrate sono divise in cartelline. La prima contiene documenti sul fallito espatrio in Svizzera, sugli scioperi in Alta Italia, sulla responsabilità dei gerarchi della Repubblica sociale a proposito della catastrofe e sullo stato della città di Trieste.

La seconda cartellina è dedicata interamente a Umberto di Savoia. Nella terza sono collocati i documenti sulla esecuzione dei condannati al processo di Verona. Nell ‘ ultima caiiellina ci sono le lettere che Hitler e Mussolini si sono scambiati in tanti anni. Niente altro? Secondo il partigiano Bill niente altro. Forse alcuni documenti sono stati tolti prima dalla borsa; certo è che nemmeno quelli indicati nell’inventario riusciranno ad essere conservati integralmente.

Il 28 maggio Cadorna invia la borsa all’ambasciata inglese a Roma che consegna i documenti alla Psychological Warfare Branch, che a sua volta, dopo averli esaminati, li spedisce alla Divisione politica del quartier generale di Caserta. La Joint Allied Intelligence Agency dà un numero progressivo a tutti i documenti che gli sono consegnati, ne redige due inventari sommari, cura che siano tutti microfilmati: nel 1947 vengono restituiti al Governo italiano.

Al momento della consegna sono spariti però molti documenti, che non figurano nemmeno negli inventari fatti dagli alleati. Mancano le carte relative al processo di Verona, quelle relative al comportamento dei gerarchi della Repubblica sociale, quelle relative all’espatrio in Svizzera, manca l’intera cartellina che recava sulla copertina “Umberto di Savoia”. Chi ha sottratto quei documenti? Perché?

Forse a sottrarre il dossier riguardante il principe ereditario per consegnarlo a Vittorio Emanuele è stato Cadorna, ufficiale legato dal giuramento di fedeltà al Re. Forse sono stati gli anglo – americani, per fare un favore al Re.

Nessuno è mai stato in grado di chiarire il mistero, così come nessuno è riuscito a capire perché furono sottratti i documenti relativi al tentato espatrio in Svizzera. Una delle ipotesi è che siano stati prelevati dal servizio segreto svizzero che seguiva con attenzione gli spostamenti di Mussolini per eliminare le tracce di qualche imbarazzante impegno, ma è solo un’ipotesi non sostenuta da alcun documento o testimonianza.

Chi e perché sottrasse gli altri documenti? E’ passato più di mezzo secolo e nessuno è finora riuscito a chiarirlo. Nel 1947 gli alleati restituirono, dopo averli catalogati e microfilmati in un apposite ufficio in via Veneto a· Roma, nell’ex Ministero della Cultura popolare, o a Caserta, una gran massa di documenti sequestrati dalle forze armate o da formazioni partigiane e poi consegnate agli alleati. Alcuni di quei documenti provenivano dall’archivio personale di Mussolini.

Secondo la testimonianza del capitano Cifarelli, della sezione documenti della V Armata tra quei documenti c’erano anche quelli “caduti nelle mani dei partigiani al momento della cattura di Mussolini”. L’allusione è ai documenti mancanti dalla borsa? Sembrerebbe da escludersi perché, a quanto si sa, non vi fu materialmente la possibilità per le formazioni partigiane di entrare in possesso di quei documenti e di mantenerlo, salvo che un brevissimo periodo.

Comunque essi non risultano compresi fra quelli restituiti dagli alleati nel 1947 né nel primo nucleo di documenti della segreteria particolare di Mussolini, recuperati a Salò da un ufficiale dei servizi di informazione italiani e versati dal Presidente del Consiglio al Ministero degli esteri, tranne due fascicoli inviati al Ministero degli interni. Di quali documenti si trattava? Quelli trasferiti al Ministero degli interni riguardavano le maggiori personalità del regime e i fatti in cui erano stati implicati, compresi Finzi e De Bono.

Solo recentemente di quei dossier sono divenuti consultabili alcuni documenti riguardanti il delitto Matteotti: per il resto nulla.

Nessuno sa dunque con esattezza quale sorte hanno avuto moltissimi documenti della Repubblica Sociale italiana e in particolare tutti quelli conservati nell’archivio della segreteria particolare di Mussolini, recuperati solo in minima parte. Molti sono andati perduti, altri bruciati, altri conservati ancora oggi presso gli archivi segreti alleati, altri ancora distrutti dagli italiani, fascisti o antifascisti, prima e dopo la fine del regime, o dagli alleati. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 1945 intorno al lago di Garda e a quello di Como c’ erano almeno venti missioni segrete alleate, migliaia di partigiani, centinaia e centinaia di fascisti in fuga o nascosti con falsa identità : accadde di tutto, anche l’ assurdo .

Nel 1982 il Trinity College di Hartford nel Connecticut ha restituito all’Italia alcuni documenti della segreteria particolare di Mussolini: li aveva prelevati il 29 aprile 1945 a Gragnano, un ufficiale americano forse come ricordo personale.

Naturalmente c’è stato chi in questi anni ha approfittato della situazione cercando di spacciare per documenti provenienti dall’archivio di Mussolini volgari falsi, Tommaso David, sedicente agente segreto nazista e della Repubblica Sociale, affermò di essere in possesso di documenti segreti: si rivelò un imbroglio . Enrico De Torna,

ex ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, anche lui forse nei servizi segreti della R.S.I. affermò alla metà degli anni ’50 di essere in possesso di due buste di documenti provenienti dalla segreteria di Mussolini comprese lettere scritte nel 1944 da De Gasperi ad un colonnello inglese per sollecitare il bombardamento di Roma. “Candido”, settimanale di destra, pubblicò le lettere: il suo direttore, Giovanni Guareschi, nel 1956 fu condannato per diffamazione ad un anno di reclusione e 100.000 lire di multa ma continuò a sostenere fino all’ultimo l’autenticità delle lettere (in fotocopia). Una recente pubblicazione (M. Gioannini e Giulio Massobrio, “Bombardate l’Italia”, Rizzoli, 2007) indica I criteri usati dagli Alleati e dagli inglesi in particolare circa il bombardamento di alcune città italiane tra cui Roma, che non dovevano essere “in alcun modo bombardate senza autorizzazione” del quartier generale per le “ripercussioni politiche che “potevano” essere estremamente gravi”.

A tale decisione concorsero certamente gli interventi di papa Pio XlI (v. per tutti G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII)di cui De Gasperi, rifugiato in Vaticano ed in rapporto diretto con il Papa, non poteva non essere a conoscenza, per evitare il bombardamento di Roma. Quale senso avrebbe avuto in questo scenario rivolgersi ad un semplice colonnello perché venisse fatto il contrario di quanto richiesto (ed ottenuto: la periferia – e solo la periferia – di Roma fu bombardata dall’aeronautica U.S.A.) dal Pontefice?

A distanza di molti anni è la prova storica che i documenti esibiti da De Torna (almeno le lettere con la firma di De Gasperi) erano abili fotomontaggi: alle fotocopie mostrate la (quasi certa) fotocopiatura di altri documenti della R.S.I. dava la parvenza di autenticità.

Resta aperto il problema della sorte dei documenti – originali e fotocopie – scomparsi. Sono stati tutti distrutti? Giacciono in qualche archivio, ancora top secret, in Italia o all’estero?

Nel 1945 l’agenzia giornalistica ANSA, controllata in quel momento dagli alleati, comprò 375 documenti relativi alla guerra in Etiopia da un professore di Verona che affermò di averli avuti “da una personalità fascista” quando comandava una brigata partigiana. L’ANSA acquistò però le fotocopie: gli originali rimasero in mano al professore veronese che garantì le avrebbe consegnate alle autorità. Da allora non se ne è avuta più notizia.

Certo è che i documenti storicamente rilevanti riguardanti Mussolini o la R.S.I. continuano a scomparire: da ultimo è accaduto a proposito di 164 fogli delle carte di Claretta Petacci scomparse dai depositi dell’Archivio centrale dello Stato prima ancora di essere consultabili.

Per quanti altri documenti è accaduta la stessa cosa?


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