ROMANZO A PUNTATE
Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
QUINTA PUNTATA
Sul treno Roma-Viterbo
Attraversarono Labaro e Prima Porta, costeggiarono il grande cimitero sorto da poco tempo che raccoglieva i defunti non più tumulabili nel cimitero monumentale del Verano. Da quando avevano lasciato le mura aureliane, erano passati davanti a due case cantoniere. Erano queste, postazioni dell’Anas succedentesi qualche decina di chilometri l’una dall’altra che ospitavano un cantoniere con la sua famiglia, a guardia e manutenzione del tratto di strada affidata. Ricordavano le mansiones di duemila anni prima che con analoga e forse maggiore efficienza svolgevano lo stesso ruolo. Allora saranno stati schiavi invece di stipendiati dello Stato. Da un po’ la strada aveva abbandonato la rupe sotto la quale aveva corso in quei primi chilometri e si affacciava sulla campagna aperta circostante.
Un territorio pianeggiante mosso da bassi rilievi, non ancora colline, con casolari sparsi da cui i contadini muovevano per il lavoro nei campi. Non grandi paesi o città in quel territorio del Lazio che guardava a nord-est, come se la vicinanza con Roma avesse impedito nei millenni la costruzione di qualcosa che potesse competere o rivaleggiare con la metropoli. E se ci avevano provato mal gliene incolse. Bisognava arrivare a Civita Castellana parecchi chilometri più avanti, per incontrare un centro abitato con dignità di cittadina.
Per intanto Silvio e Zeno continuavano a camminare alacremente lungo la via e dopo meno di due ore arrivarono a Sacrofano-Malborghetto. Avevano percorso in tutto 20 chilometri dall’uscita da piazza del Popolo. Non avevano incontrato nessuno lungo la via, oltre a qualche carro agricolo trainato da buoi e sopra contadini che si recavano al lavoro nei campi. Quando sentivano a distanza il rumore di mezzi meccanici, camion o autovetture, lasciavano la strada prima del loro apparire. Ora, arrivati in località Malborghetto-Sacrofano decisero di fermarsi per riprendere fiato e pensare come proseguire. Di lato alla strada correva la linea ferroviaria, e oltre, un monumento antico dall’aspetto di un imponente casale.
Non era un casale ma una costruzione romana del IV secolo a.C., più esattamente un tetrapilo, un arco tetra fronte, come l’avevano battezzato gli archeologi. Un tempo al di sotto degli archi si incrociavano due strade: la Flaminia e la Veientana. Poi nel corso dei secoli, il monumento era diventato chiesa, poi residenza degli Orsini in alternanza con i Colonna. Ancora, stazione di posta, osteria, fino al suo recupero originario di pochi anni prima. Era mattino inoltrato, Zeno e Silvio si fermarono a ridosso del monumento per riposarsi un po’ e pensare a come proseguire il viaggio. A pochi metri c’era la stazione ferroviaria, i treni passavano sull’unico binario nei due sensi, alternandosi con brevi soste nelle stazioni.
Si avvicinarono alla stazione e studiarono la situazione. C’era poca gente in giro, non militari o chiunque altro avesse titolo per chiedere chi fossero e dove stessero andando. Non erano malfattori, ma Zeno formalmente era ancora un militare che indossava abiti civili. D’altra parte qual era in quel momento l’autorità cui far riferimento? Il re se n’era andato a Brindisi con tutto lo stato maggiore. Il Duce aveva proclamato la Repubblica al Nord, e in Italia scorrazzavano tedeschi e truppe alleate in guerra tra di loro.
Così quelli che avevano potuto, dismessi gli abiti militari, se ne stavano tornando alle loro case. Fortunati coloro che si trovavano nel territorio nazionale, questi potevano trovare il modo di tornarsene o almeno provarci. In quella generale confusione c’era il pericolo dei tedeschi che si sentivano traditi e in più occasioni avevano dimostrato di non essere teneri con i camerati di ieri, ora diventati traditori ai loro occhi. L’editto di Badoglio era suonato oscuro su come le nostre truppe si sarebbero dovute comportare. Era già arrivata qualche voce su rappresaglie in Iugoslavia e nelle isole greche a danno delle nostre truppe. E fresco era il ricordo di quanto era successo poche settimane prima a porta san Paolo, con il sacrificio di un distaccamento di nostri soldati con in testa i Granatieri di Sardegna.
C’erano anche in numero minore carabinieri, lanceri di Montebello, cavalieri del Genova cavalleria e soldati della Sassari, oltre a civili. Si erano opposti all’ingresso dei tedeschi in Roma. Alla fine, dopo una battaglia strenua dovettero soccombere. Per tutto questo i nostri erano guardinghi, e poi oltre i tedeschi, c’erano in giro sbandati e fuorilegge che in tempi perigliosi proliferano. Le armi che Zeno portava con sé davano loro un qualche conforto, un accenno di sicurezza, la possibilità di un’estrema difesa, in caso di pericolo. O anche per qualcosa di più importante che lui socialista intravedeva. Videro passare il treno diretto a Roma, portava poca gente nelle altrettante poche carrozze. Balenò nella loro mente un pensiero: poca gente sul treno….. era una linea ferroviaria secondaria….. locale…… Si comunicarono il pensiero con gli occhi prima che con le parole. Ci si poteva provare…… L’ora del mattino era tarda, chi doveva andare a Roma per lavoro o altro era già partito da tempo.
Aspettarono di vedere arrivare il treno proveniente da Roma diretto a Viterbo. Avrebbero dovuto aspettare perché il binario era unico e i treni sostavano nelle stazioni per alternarsi. Arrivò dopo circa un’ora. A quel punto Silvio e Zeno si avvicinarono. La stazione era piccola, un edificio basso con due aperture, una verso la strada, l’altra verso i binari. Nella stanza una panca per il riposo degli umani e su una parete un’apertura con davanzale, dietro stava il bigliettaio. Oltre loro, nella stazioncina c’erano altre tre persone, fecero con loro il biglietto dal casellante che fungeva da cassiere e controllore del traffico, coadiuvato da un assistente che si incaricava di abbassare le sbarre su una strada da presso che attraversava il binario.
Fatti i biglietti si sedettero sulla panca mentre gli altri uscirono all’esterno ad aspettare il treno arrivare. Dopo un po’ quello arrivò sferragliando, annunciato da una campanella elettrica posta sotto la pensilina, gentile riparo per i viaggiatori dal sole e dalle intemperie. Si aprirono le porte delle tre carrozze, Zeno e Silvio salirono su quella di mezzo. Nello scompartimento su un breve corridoio centrale si aprivano quattro settori, in ognuno quattro posti. Si sedettero, oltre loro due c’erano altre due persone, ognuno su uno scompartimento diverso. Uno con una valigetta tipo quelle che portano i rappresentanti di commercio e l’altro anonimo, dal volto tirato. Dopo alcuni minuti si sentì il fischio del casellante che si era avvicinato ai bordi del binario. Aveva indossato il cappello rosso segno di autorità e del ruolo che lo accomunava agli altri di tutta Italia che chiamiamo capistazione, e tutti si mettevano quel copricapo quando si trattava di far partire il treno.
Quasi che il berretto rosso avesse come un potere autonomo, il solo che poteva regolare il movimento dei treni e da esso discendesse la dignità e il prestigio per coloro che erano chiamati ad indossarlo. Semplici esecutori di una funzione stabilita altrove, di cui il berretto rosso era il demiurgo. Così quando il treno era partito e loro rientravano nella guardiola, si toglievano il capello e lo riponevano con cura, pronto ad essere ripreso per il nuovo treno in arrivo. Tutto era come la liturgia di una nuova religione che aveva costruito i treni, le ferrovie, le locomotive a vapore e poi elettriche: una religione laica della ragione, dello sviluppo, delle realizzazioni umane progressive e mai dome.
Ma siccome il sacro che buttiamo dalla finestra della ragione, deve rientrare perché radicato nell’anima dell’uomo, ecco che si ripresenta con il rito. E quello del capostazione era un rito, e lui un officiante, e quelli intorno, comunque coinvolti, i fedeli. E alla fine di tutto, il treno può partire come se avesse ricevuto una benedizione. Filarono via tra campi e boschi bagnati da una pioggerillina che cominciò a scendere da un cielo nuvoloso, con ampi squarci di sereno. Nella carrozza si stava bene, non faceva freddo, Zeno e Silvio posarono il pastrano sui sedili liberi e presero qualcosa da bere e mangiare dalla gavetta, poi fumarono sigarette. La ferrovia correva, per ampi tratti, accanto alla strada che avevano lasciato per salire sul treno.
Dal finestrino videro passare alcuni camion militari diretti a Roma: erano tedeschi! Dopo una decina di chilometri il treno si fermò in un posto chiamato “la rosta”. L’edificio della stazione era una costruzione massiccia tipo fattoria di quelle che si incontrano nella campagna romana, ingentilito da fiori sulle finestre, intorno non c’erano altre case. Sporgendosi dal finestrino videro che al di là della stazione, dalla strada si dipartiva un percorso secondario per un paese che non appariva alla vista: “Riano”. Non scese nessuno dal treno, e nessuno salì. Il treno riprese ad andare, non un gran correre, poco più di una passeggiata veloce. Era così, per le tante curve, per la motrice costruita per il passo del podista, per il tracciato che non sopportava velocità.
Così chi aveva fretta si innervosiva, altri no, contenti del trascorrere del tempo che li liberava dall’impegno: come una vacanza dall’assurdità del fare. Il territorio intorno era una “pianura mossa”, cioè non variava di molto l’altitudine del percorso, ma questo si svolgeva in un ambiente caratterizzato da continui rilievi collinari. Procedendo, sempre più vicino appariva il profilo del monte Soratte, imponente pur non essendo altissimo, perché intorno su quella pianura c’era solo quella montagna a svettare verso il cielo. Raccontavano che pochi mesi prima, Mussolini di ritorno da Feltre dove aveva incontrato Hitler per un esame delle sorti del conflitto, a bordo dell’aereo che dicevano guidato da lui, ma le malelingue aggiungevano “sotto lo sguardo attento di un asso dell’aviazione”, appena sorpassato il Soratte, ebbe la visione di un fumo in lontananza che saliva sul cielo di Roma.
Nella testa gli balenò un pensiero che divenne presto certezza: gli alleati avevano per la prima volta bombardato Roma, nonostante il Papa. Dissero poi che sbiancasse in volto, e forse fu allora che in cuor suo pensò di abbandonare il fardello di quella situazione insostenibile in cui si era cacciato. Di lì a poco avrebbe indetto la riunione del Gran Consiglio del Fascismo che lo avrebbe dimissionato, e lui non fece niente per evitarlo.
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