LA MEMORIA DEI GIUSTI E LA MEMORIA DELLA STORIA

Dottore di ricerca in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense
Docente specializzato in attività di Sostegno didattico per la scuola secondaria di secondo grado
Docente specializzato presso “IIS Green – Falcone e Borsellino” – 87064 Corigliano-Rossano 
Docente incaricato presso l’Istituto Teologico Cosentino “Redemptoris Custos” per le cattedre Filosofia della naturaEstetica ed Ermeneutica

Vorrei cominciare questo articolo introducendo ex abrupto tesi paradossale: la memoria dei giusti non coincide con la memoria della storia. Ciò vuol dire che ci sono giusti dimenticati dalla storia, giusti che hanno sofferto e non hanno trionfato (e la storia, quasi sempre, la scrivono i vincitori), giusti dei quali non ricordiamo il nome, ma che pure sono esistiti e si sono immolati per la causa della libertà. È sulla base di queste riflessioni, che fungono da premessa di un modo raro – purtroppo – di fare storia, che ad esempio ho presentato ai miei studenti di primo anno (la classe prima di un istituto tecnico) la storia di Treblinka. Le vicissitudini di questo campo di sterminio si realizzano in qualche modo su di un piano simbolico. I nazisti fecero di tutto per abbatterlo (dopo la sconfitta cocente subita a Stalingrado) ma i prigionieri fecero altrettanto per far sì che gli orrori commessi non venissero dimenticati. Una dialettica, questa, tra memoria e oblio che si colloca, però, in una dimensione che non è quella della storia (né potrà essere quello della storiografia di parte), né quella dei rispettivi schieramenti ideologici e militari. È una dialettica, al contrario, che si realizza all’interno della coscienza umana, a prescindere se questa coscienza sia appartenuta alla svastica o alla falce e martello.

È vero che lo storico non può guardare alla storia con sentimentalismi e compromissioni soggettive. Ma c’è forse una terza via, che non è né quella asettica dello “scienziato dei fatti”, che si limita a ricostruirli e a raccontarli, né quello “dell’amante delle ideologie”, che guarda al passato da un’unica prospettiva, a lui cara. La terza via di cui parlo, invece, è una storia su base antropologica, un approccio che cerca di sintetizzare al meglio le istanze dei due modi precedenti, in una sintesi imprescindibile tra empatia e conoscenza.

Con questo spirito mi è capitato di studiare, ad esempio, le ultime lettere da Stalingrado. Era il gennaio del 1943, mancava poco meno di un mese alla resa di Paulus, il comandante della sesta armata nazista trincerata nella «fortezza di Stalingrado», e sette sacchi di corrispondenza diretti in Germania vennero sequestrati per ordine diretto del quartier generale del Führer. Nessuno voleva che il popolo tedesco venisse a conoscenza del contenuto di queste lettere scritte dai valorosi soldati nazisti trincerati sul Volga, l’ultimo e più avanzato territorio del fronte orientale.

L’invincibile esercito nazista, nell’estate del 1942, riuscì ad arrivare fino al confine più avanzato della Russia europea, ma l’immagine trionfale della propaganda di partito, che vedeva nel soldato tedesco un guerriero invincibile, con sembianze ariane, fiero e pronto alla battaglia, non c’era più. Il motivo del sequestro delle lettere, infatti, era dato dal fatto che i soldati tedeschi trincerati a Stalingrado, lungi dall’essere quei guerrieri invincibili che la propaganda ossessivamente propinava, erano invece esseri umani dilaniati dal dolore, dalle ferite morali, dal rimorso, vittime di un sistema politico che nemmeno loro condividevano fino in fondo.

Difatti, le statistiche parlano chiaro: il 57,1% dei soldati tedeschi a Stalingrado era totalmente sfiduciato e contrariato dalla guerra, il 4, 4% era invece dubbioso, il 3,4% era totalmente contrario, mentre il 33% perso nell’indifferenza. Soltanto il 2,1% dei soldati era favorevole alla condotta della guerra. Si può discutere, certo, sull’interpretazione di queste statistiche ma è dalla lettura diretta delle lettere che emerge una sofferenza indicibile che ci fa capire che i giusti della storia non hanno bandiera, non hanno partito o schieramento, ma sono esseri umani, spogliati da ogni connotazione ideologica, politica, razziale e culturale. Nell’ambito della seconda guerra mondiale l’uomo giusto non ha bandiera: la carneficina di Hiroshima non è più grave della mattanza di Dresda, gli stupri condotti dai soldati dell’Armata Rossa a Berlino non sono meno gravi delle atrocità commesse dalle SS nelle retrovie del fronte orientale. C’è un’umanità ferita che, antropologicamente prima ancora che storicamente, ci suggerisce l’idea che la memoria dei giusti non è la memoria della storia. Ecco una testimonianza di un soldato tedesco che merita di essere letta: Martedì ho fatto fuori con il mio carro due T 34, che la curiosità aveva spinto oltre le nostre linee. Era un quadro meraviglioso e impressionante. Poi passai davanti ai rottami fumanti. Dallo sportello pendeva un corpo, la testa all’ingiù; i suoi piedi erano incastrati, e bruciavano fino al ginocchio. Il corpo era vivo, la bocca rantolava. Il dolore dev’essere stato spaventoso. E non c’era nessuna possibilità di liberarlo. Anche se fosse stato possibile, sarebbe morto lo stesso dopo poche ore fra dolori atroci. Gli ho sparato, mentre le lacrime mi colavano giù dalle guance. Ora piango già da tre notti per quel carrista russo morto assassinato da me. Mi commuovo per le croci davanti a Gumrak e per altro ancora che i miei camerati vedono senza scomporsi.

Temo di non poter più dormire quietamente, se ritornerò da voi, miei cari. La mia vita non è che una terribile contraddizione. Una mostruosità psicologica. Ora ho rilevato un grosso cannone anti­carro e ho addestrato otto uomini, quattro dei quali russi. In nove spingiamo il cannone da un punto all’altro. Ad ogni spostamento, rimane sul terreno un carro armato in fiamme. Sono già otto, e si dovrebbe raggiungere la dozzina. Comunque io dispongo soltanto di tre colpi ancora, e sparare ai carri armati non è come giocare a biliardo. Nella notte però piango senza ritegno, come un bambino. Che cosa avverrà ancora?

Chi crederebbe che questa testimonianza lacerante sia stata scritta da un soldato della Wermacht? Eppure è così, e tutto ciò testimonia un’umanità ferita di un uomo, prima ancora che di un soldato. È infatti l’uomo il giusto che soffre per l’ideologia folle di un partito, di un dittatore o di una condizione sulla quale non ha avuto potere alcuno di decisione. Non sono i russi di Leningrado, i nazisti a Stalingrado, gli ebrei di Treblinka o gli americani in Normandia a soffrire, ma sono gli uomini, cioè gli esseri umani considerati a prescindere dalle divise militari e dalle appartenenze.

Questo non vale certo per tutti, poiché vi sarà sempre quella percentuale di fanatici in linea con la follia delle ideologie di appartenenza. Ma tutto questo discorso vale sicuramente per quelle percentuali, invece, che hanno sofferto ingiustamente le disgrazie e le atrocità che la guerra ha comportato. Ecco dunque le parole di Grossman che ritornano con forza: che importa non ricordare i nomi di quei prigionieri di Treblinka che non si sono arresi alle atrocità naziste? L’essenziale è riconoscerli come uomini, e questo basta alla memoria dei giusti.


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