IL VIAGGIO – 18esima puntata

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

DICIOTTESIMA PUNTATA

In marcia verso Strettura

Lei corse ad aprire, allargò le braccia e strinse a sé il fratello. Si amavano, lui era il fratello maggiore, l’orgoglio della famiglia. Dopo i genitori, era un altro padre per tutti i fratelli e le sorelle, e lei era la più grande delle sorelle, dunque si sentiva di avere con lui un rapporto preferenziale. Quando Zeno tornava a casa dai lavori in giro per l’Italia, portava un regalo a tutti e quello per Caterina era il più bello. Era festa grande in casa e ora trovarselo davanti, inaspettato, era felicità assoluta. Salutò con una leggera soggezione lo zio Silvio, il giovane con loro e pregò tutti di entrare. Si raccontarono e mentre le parole muovevano l’aria, Caterina si mise a preparare da mangiare. Allo zio Silvio che le chiedeva del marito Andrea, lei disse che si trovava al lavoro. Sarebbe tornato tardi o per niente, impegnato a rimuovere le macerie delle case bombardate. Il giorno precedente. era tornato verso mezzanotte, poi all’alba era ripartito. Lei era preoccupata per quel lavoro pericoloso in specie durante una guerra, ma era meglio che andare al fronte. L’essere vigile del fuoco in quella città ricca di fabbriche e opifici vari nei settori dell’acciaio, della chimica, delle armi, lo aveva esentato dall’essere arruolato nell’esercito e mandato sul fronte russo. Come poi seppe che era accaduto per la divisione dove sarebbe stato inserito. Dunque era preoccupata per il suo lavoro di vigile, ma meglio cosi ed averlo con sé, piuttosto che saperlo lontano ed esposto a più gravi pericoli della guerra. Poi lei raccontava che Andrea era uomo prudente, si augurava, voleva essere certa che non gli sarebbe accaduto niente. Silvio e Davide si erano messi a sedere intorno alla tavola che Caterina aveva velocemente preparato, in un intervallo del lavoro ai fornelli, in compagnia di Zeno. Si raccontavano dei loro a Sigillo. Lei nominava poco Regina e Tarquinio, c’era una gelosia non manifesta, tenuta nascosta, ma comunque percepibile per chi conoscesse quella famiglia. C’era di mezzo la rarefazione delle visite del fratello nella casa paterna a causa del lavoro fuori, ma soprattutto del recente matrimonio occorso quattro anni prima. Così i rapporti di Caterina e delle sorelle con la Regina non erano, e non sarebbero mai stati limpidi. Covava sempre un malumore di fondo che la ragione non accettava, ma quello pervicace resisteva. Si misero a tavola anche loro due, una volta terminato di cucinare. Era riuscita a preparare un bel pranzo con quello che l’economia di guerra consentiva. Memore dei costumi materni, nel giardinetto avanti casa aveva seminato verdure e ortaggi e non mancava un pollaio per animali da cortile, così uova e ogni tanto carne non mancava, accanto a quello che lo stipendio di Andrea e la tessera annonaria consentivano. L’acquisto nei negozi, a causa della guerra erano spesso carenti. Alla fine tirò fuori anche un po’ di caffè buono macinato, con il quale riempì il passino di una caffettiera quasi intonsa, segno del privilegio che accordava loro. Fu un piacere incredibile per i tre ospiti, che non ricordavano più il sapore del caffè. E quel finale accanto al cibo consumato fu occasione di infiniti ringraziamenti. Venne il tempo di andare, tutti e tre si alzarono e si diressero alla porta, Caterina si accostò ad un orecchio di Zeno e gli confidò la felicità immensa che in quel tempo di guerra fugava tutte le amarezze, paure e difficoltà: stava aspettando un figlio, il primo. Non lo sapeva nessuno, lo aveva detto solo a lui, oltre naturalmente ad Andrea. Si salutarono con un arrivederci a Sigillo. “Speriamo presto” disse lei sulla porta, rivolta a loro già nella strada, incamminati in direzione di Spoleto.

La strada proseguiva diritta verso un varco che si vedeva in lontananza tra le montagne che chiudevano a nord-est la conca ternana. Nel lasciare la città il terreno iniziò a salire leggermente, annunciando un percorso che li avrebbe fatti salire a quota ottocento metri sul livello del mare. Rispetto ai 130 metri di Terni dove si trovavano era una discreta scarpinata. Abbandonate le case a schiera della periferia, passarono davanti a case singole che si fecero via via più rare e discoste dalla strada, sino a perdersi lontane nelle forre e nei rari tratti di campagna circostante. A destra sulle alture videro il paese di Papigno, subito sopra le acciaierie dalle quali gli abitanti traevano occasione di lavoro e malanni. Quest’ultimi contratti in fabbrica e potenziati durante il riposo a casa, per i fumi degli altoforni che arrivavano sin lì, a colpire tutti, loro e le famiglie. Ma di queste cose si sarebbe parlato solo molti anni dopo. Allora non si avevano queste attenzioni per la salute nei posti di lavoro, e in quel periodo, con la guerra in atto, ancor meno. L’attenzione ai bisogni della gente è pratica virtuosa e anche ruffiana per ottenere il consenso. Ma è dei tempi di floridezza e di pace, non dei tempi di trasformazione e di avventura, come furono quelli del regime fascista, che alla fine avevano significato la guerra scellerata. Arrivarono alla frazione di San Carlo. Si trattava di poche case a ridosso della Flaminia.

La località segnava il confine tra la conca ternana e l’inizio della stretta gola che avrebbe portato al valico della Somma. Così si chiamava il passo che delimitava da un lato il territorio ternano e dall’altro l’ampia pianura umbra che da Spoleto si estende sino a Perugia e dove sorge Foligno, Assisi e tutte le altre località sparse nella pianura e sulle colline che la circondano. Il valico era anche il confine tra due province: Terni e Perugia. Era di quegli anni l’istituzione della provincia di Terni. Si disse che Mussolini per dare ai romani una loro montagna dove sciare, tolse il Terminillo e il territorio circostante all’Umbria a favore del Lazio, creando due nuove province: Rieti nel Lazio e Terni in Umbria.

La strada era stretta, una carreggiata striminzita, sulla quale l’incrocio di due mezzi era possibile solo nei tratti lineari, non in curva. Accanto alla strada correva un viottolo, forse antico tratturo, lì da prima che il console Flaminio costruisse la via. Questo tratturo nei tratti meno rocciosi del percorso si allontanava un pò, immergendosi nel verde circostante. Per tale motivo presero a percorrerlo: una precauzione che giudicarono opportuna. La natura intorno era scarsamente antropizzata, nei tratti boscosi, lussureggiante. Pini, querce, lecci, carpini, ornelli, coprivano i fianchi delle montagne che si affacciavano sulla vallata, questa, forse prodotta da un corso d’acqua di cui non c’era più traccia. Il tempo era bello, splendeva il sole in un cielo privo di nuvole. In alto volteggiava una coppia di poiane, cercavano sui fianchi della montagna l’aria calda che i raggi del sole in un ultimo bagliore riscaldava. Dall’alto avrebbero scommesso di trovare qualcosa per chi nel nido, con i becchi aperti, aspettava del cibo per sopravvivere un altro giorno ancora, nell’attesa del volo per il quale si stavano preparando e che li avrebbe affrancati dalla tutela genitoriale. Il sole sarebbe scomparso a breve dietro le montagne ad occidente, per intanto l’aria serena sapeva di un autunno tenace che rimpiangeva l’estate trascorsa e si ritraeva dalla inevitabile metamorfosi nell’inverno incombente. Nessuno in giro, non c’era campagna coltivabile intorno, erano scomparsi i casolari dei contadini della pianura. Rare case lungo i contrafforti probabilmente di boscaioli. Un po’ di gente l’avrebbero trovata una volta arrivati al paese di Strettura, l’unico paesello di quel tratto della Flaminia da dove sarebbe cominciata la salita più aspra. Strettura, che già nel nome annunciava che da lì in poi il percorso sarebbe stato più angusto, con la strada che dal fondo valle si sarebbe scavata una fenditura sul fianco occidentale della montagna. E in quel secondo tratto la strada sarebbe salita di molto sino ad arrivare al valico. Per intanto camminavano di buon passo spesso appaiati dove la strada lo consentiva. Erano partiti il mattino dalla stazione di Narni scalo, dopo circa 15 chilometri, compresa la sosta a san Lorenzo erano arrivati a Terni a casa della Caterina. Partiti di lì, dopo altri quindici chilometri una volta arrivati a Strettura, in totale avrebbero percorso dal mattino trenta chilometri. Era pomeriggio, se il tempo si fosse mantenuto bello forse ce l’avrebbero fatta a percorrere l’ultimo tratto di salita sino al Valico.

Non sentivano ancora la stanchezza delle membra, la mente era tutta volta a coordinare l’attività dei muscoli e del cuore, lasciava poco spazio a ragionamenti o programmi, come se la sua parte nobile si fosse addormentata a favore della parte vegetativa, quella più profonda, ancestrale che aveva a che fare con la fisiologia degli organi e di quelli locomotori in particolare. Il corpo era chiamato a camminare e finché non fosse sopraggiunta la stanchezza, godeva dell’armonioso movimento delle ossa, dei muscoli, del fluire accelerato del sangue nei vasi, dell’aria aspirata da polmoni dilatati. La specie uomo ci aveva messo qualche milione di anni per arrivare a quella perfezione, da quando era riuscito ad alzarsi dal suolo e ad ergersi eretto sul circostante. Allora cominciò a camminare e non si fermò più, sino a colonizzare il mondo. Ma da qualche parte, nelle pieghe dei muscoli, delle ossa, o degli altri organi era custodita la memoria di quel processo straordinario di cui la mente era inconsapevole, arrivata dopo, per ultima, relegata in un’impenetrabile calotta ossea, quasi a non voler mischiarsi con il sottostante, separata, se pur collegata a tutto il resto attraverso emissari con pretesa di dominio. No, tutto quello che era accaduto, era scritto in una lingua non decifrabile dalla mente, aveva a che fare con qualcosa di diverso, complementare alla ragione che albergava in luoghi sconosciuti. Un mistero di cui rimaneva traccia, come di cosa buona con quel senso di soddisfazione e piacevolezza che veniva dallo svolgersi di quelle funzioni del corpo. Era un ringraziamento all’artefice sconosciuto di quel miracolo. Era percorrere i territori del divino. La mente c’entrava solo come starter, come nel loro caso, quando aveva impresso l’ordine di muoversi. Bisognava portare quell’ammasso di cellule, e funzioni, lontano da Terni e sempre più vicino al loro paese, per raggiungere il quale si erano messi in viaggio. Il corpo sapeva che questo era il suo compito, le altre funzioni come quelle nobili del cervello erano un di più. Ma il di più c’è sempre, magari inespresso e sotterraneo e in quel momento per loro erano pensieri e parole in libertà che uscivano rivolte agli altri e al mondo intorno, ma senza attendersi risposte, come un motore acceso al minimo, non in marcia. Parole dall’uno all’altro e dall’altro al circostante costruite e rese alate da ricordi, sensazioni corporali, figlie di un corticalità a riposo, in attesa di altri più impegnativi cimenti.

Io non sono stanco e voi? disse Silvio, poi qui l’aria è buona non è quella malsana che abbiamo respirato a Terni e questo aiuta, aggiunse. Non vi pare? Assentirono gli altri e a ciascuno quel richiamare la salubrità dell’aria fece venire in mente ricordi: Zeno risentì l’aria di montagna di quando da ragazzi si andava a fare legna sul monte sopra il paese, così anche per Davide la mente andava alle scarpinate sull’alta montagna che si erge sopra la marina e al sapore di mare che si mescolava a quello del monte. Silvio riprese sullo stesso argomento e raccontava l’aria pesante, malata, della campagna romana quando avevano cominciato a porre il cantiere dell’Expo 42. Gli altri aggiunsero altre cose che non centravamo più con l’aria. Da una cosa all’altra, parole in libertà scambiate l’un l’altro, suggello del loro star insieme, del vincolo di comunione che li univa, anche con il nuovo, l’aggiunto, sconosciuto sino a due giorni prima. Le loro voci avevano rotto il silenzio di quell’ora del pomeriggio. La temperatura quasi da tarda estate aveva chetato la vita arborea e animale circostante. Solo il volo discreto degli uccelli migratori, in alto sopra le cime dei monti, aveva fatto da contrappunto alle parole degli umani in basso. Lungo la strada da quando erano entrati nella gola tra i monti non avevano incontrato nessuno: se n’erano meravigliati. Quando ormai, intenti a camminare e presi da altri pensieri, la meraviglia del mancato traffico era scomparsa, d’improvviso udirono il rumore di un camion in lontananza che, provenendo dalla parte di Spoleto, si stava avvicinando. Arrivò veloce ma la strada in quel tratto presentava un avvallamento che costrinse il guidatore a rallentare il passo, così dal tendone posteriore scompigliato dal vento della corsa, affiorarono visi di ragazzi seduti sulle due panche laterali, stretti l’uno all’altro, con gli occhi a guardare il compagno di fronte. Qualcuno indossava la camicia nera, i più in abiti civili, alcuni con un moschetto in mano, come da esercitazione premilitare frettolosamente interrotta. Pochi di loro dal volto deciso, come di chi avviato verso qualcosa che aspettava con impazienza da tempo, da sempre. Gli altri con qualche piega sul bel volto della giovinezza che raccontava preoccupazione e indecisione. Li videro bene i nostri, loro visibili parzialmente coperti com’erano dalla vegetazione che nascondeva il tratturo. Ma uno dei destinati a triste sorte li vide, loro si accorsero e ne ebbero paura. Ma quello non disse niente e quando il camion riprese la sua andatura, veloce, con una mano, non visto dagli altri, li salutò. Loro risposero. I cuori di padri di Silvio e Zeno si riempirono di commozione. Incontri nei giorni della vita. Destini di gente sconosciuta che si incrociano. Il bisogno di una comunione, una mano che si protende, mossa da antiche virtù. Un attimo e poi via, ognuno per strade diverse. Incontri come grani di un rosario. Danno un senso e un ristoro al lungo andare della vita.


Commenti

Una risposta a “IL VIAGGIO – 18esima puntata”

  1. Avatar Soragni Barbara
    Soragni Barbara

    Sempre più coinvolgente
    Splendide le descrizioni storiche in mezzo ad un racconto vivace e scorrevole.