IL VIAGGIO, DODICESIMA PUNTATA

ROMANZO A PUNTATE DI

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

NARNI

Guardò con affetto i compagni di viaggio, per primo Zeno, quasi un figlio per lui. Gli aveva insegnato il mestiere, aveva limitato al massimo, per quanto aveva potuto, il periodo di fatica brutale della manovalanza: a caricare sacchi sulle spalle e caldarelle colme di cemento, o a picconare, e spalare. Ora lo aveva fatto assistente ai lavori accanto a sé. E un sentimento provava anche per quel giovanotto, unitosi dal mattino a loro, che aveva l’aspetto di un ragazzo poco più che imberbe. Lontano com’era dalla famiglia e dal suo mondo, diretto ad Ancona verso un futuro oscuro. Ebbe un moto di commozione misto a rabbia. Le cose per la sua famiglia e in generale per tutti non erano così male, se pensava a tutti quelli che in anni precedenti se n’erano dovuti andare in America a cercare fortuna. C’era il regime si, per lui socialista non andava bene, ma erano stati fatti progressi in molti campi, soprattutto si stavano rimarginando le ferite dell’immane disastro della grande guerra. E poi le cose sarebbero cambiate anche in politica. C’era un movimento operaio internazionale che guardava alla Russia con grandi speranze, qualcosa sarebbe successo. Malauguratamente successe qualcosa, ma non quello che si sarebbe sperato! Scoppiò la guerra! All’improvviso il disastro, quell’altro nipote morto in Grecia, Zeno richiamato in Albania, il lavoro compromesso, il futuro incerto.

Si scosse e invitò gli altri ad alzarsi e riprendere il cammino. Davide si mise davanti a fare l’andatura sulla salita, che a tratti diventava impegnativa. Camminava e pensava, ed alcuni dei suoi pensieri li comunicava ai compagni di viaggio. Gli accadeva raramente di essere così loquace. Per di più, per tutto il viaggio da Rodi a quel tratto di Umbria che stavano percorrendo si era astenuto da ricercare compagnie occasionali con cui condividere timori o sostegno. Aveva evitato persone e luoghi affollati, anche sulla nave che lo aveva portato a Civitavecchia.

Da lì, a piedi e con qualche mezzo di fortuna era arrivato sino a Sassacci. In quella locanda, la bonomia dei due aveva da subito sciolto la sua naturale diffidenza ed ora si trovava a raccontare loro di sé. Nelle parole e nelle espressioni del viso rappresentava Il timore della partenza, il dolore di lasciare i suoi, la preoccupazione per il domani. Non c’era traccia del brivido fascinoso che accompagna l’avventura del giovane che si apre al mondo, per quanto funesto questo possa apparire. Raccontava la sua vita a Rodi, il rapporto con la madre un po’ ossessiva, che vigilava da vicino sui suoi progressi scolastici ed anche sulle avventure amorose. Se lei trovava quest’ultime inadatte per condizione sociale e per il futuro che immaginava per il figlio, riusciva sempre ad intervenire, in maniera occulta ma con successo.

Lui non si angustiava troppo, perché quelle storie erano transeunti e l’intervento materno non faceva altro che aiutarlo a liberarsene e dunque renderlo disponibile per una nuova. Gli piacevano le ragazze locali, brune, non alte, formose, e allegre soprattutto. Le vedeva e ammirava in giro per le strade della città o al mare dove scoprivano i loro corpi sinuosi e invitanti. Lui non propriamente bello, e timido il giusto, riusciva a farsi valere dopo il primo contatto difficile. Era un narratore e le storie che raccontava, tratte dai film visti o dai libri letti o semplicemente da sue fantasie, affascinavano le ragazze. La fascinazione che accendeva gli animi di chi ascoltava, quando funzionava, era per lui già una conquista, non finalizzata necessariamente a qualcosa di più.

Bastava a rafforzare la sua autostima. Poi il di più, quando accadeva, gli toglieva serenità, come di cosa non controllabile che lo prendeva, al di sopra di sentimenti, pensieri, educazione. Alla fine diventava schiavo del desiderio, ed era sensazione sgradevole da cui liberarsi. Zeno e Silvio lo ascoltavano sorridendo, e guardandosi comunicavano l’un l’altro il pensiero che Davide era un giovanotto fortunato. Loro non avevano avuto tutto quel tempo per gli svaghi e le cose dell’amore. Queste si erano risolte più semplicemente in una cosa che si chiamava famiglia.

Dopo alcuni chilometri di salita arrivarono in località Testaccio, un gruppo di case che segnavano il termine della salita e l’inizio di una discesa che oltrepassata Narni sarebbe terminata nella pianura di Terni. La strada in quel tratto era circondata da boschi di lecci e mano a mano che scendeva si incuneava in una gola tra due alti rilievi che percorreva addossata alla montagna, quasi sospesa sul ciglio della roccia sotto la quale sprofondava il burrone. In fondo correva il fiume Nera e la gola era la parte terminale della Val Nerina, disegnata dal fiume omonimo che nasceva in alto e in lontananza sugli Appennini e scavava la roccia sino a questa gola finale, prima di gettarsi nel Tevere poco oltre, all’altezza di Orte. Percorsa la discesa per sette-otto chilometri, cominciarono ad intravedere Narni, che da un lato si affacciava con le case a precipizio, sulla gola del Nera, e davanti sulla vasta pianura dove si intravedeva in lontananza Terni. Traversarono la porta che dava accesso alla città.

Attorno alla Flaminia, diventata Corso cittadino si ammassavano due file ininterrotte di edifici in pietra, quelli posti a sinistra che si affacciavano pericolosamente sul burrone sottostante. Fu Davide che, fresco di studi, raccontò loro che si trattava di città nobile e antica, esistente sin prima della conquista romana, quando gli fu cambiato il nome in Narnia, termine che evocava il fiume Nera sottostante.

La città era diventata florida dopo la costruzione della via consolare e si ricordavano personaggi illustri, cui Narni aveva dato i natali. Tra tutti l’imperatore Nerva, ultimo imperatore italiano e nel Medioevo il condottiero e capitano di ventura conosciuto con il nome di Gattamelata. La città attuale era d’impianto medioevale ed aveva subito il dominio dei longobardi di Spoleto. Infine additò loro l’imponente rocca dell’Albornoz che dominava dall’alto l’abitato.

Questi nel XIV secolo aveva costruito nei centri maggiori attraversati dalla Flaminia, rocche di difesa e controllo sul territorio. Quella di Narni venendo da Roma era la prima che si incontrava. Grande personaggio l’Albornoz. Era stato militare al servizio del re di Spagna nelle guerre contro gli arabi. Poi si era conquistato benemerenze anche presso la Chiesa, tanto da meritare la porpora cardinalizia al tempo dei Papi Avignonesi. In quegli anni il potere temporale pontificio sulle terre appartenenti alla Chiesa si era andato perdendo per effetto dell’usurpazione da parte di signorotti locali, nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Romagna.

L’Albornoz ebbe l’incarico dal Papa di tornare in Italia e riconquistare le terre sottratte. Lo fece nel corso di anni. Fu una lotta dura e difficile che vide anche la sua lungimiranza politica nel dare riconoscimenti formali agli sconfitti per consolidare le conquiste fatte, nonostante la perplessità dei pontefici. La sua operazione militare si concluse con l’edificazione di una serie di rocche lungo i territori conquistati e posti di nuovo sotto l’autorità della Chiesa, che a buon diritto ancora oggi vengono denominate rocche albornoziane. Silvio e Zeno lo ascoltavano con piacere perché Davide raccontava con passione, dava vita alle cose che raccontava, come se partecipasse agli eventi descritti. Era un modo di essere della sua natura che tendeva a ripiegarsi sul passato. Il profondo interesse per i fatti della storia era come una ricerca di conforto, di protezione, un riconquistare un’identità sempre in bilico nel fluire del vivere, un’ancora, certezze cui appoggiarsi. L’immobilità degli avvenimenti passati, consegnati all’accaduto, erano immutabili. La sua anima sentiva il bisogno di avvolgerli, quasi proteggerli, addirittura plasmarsi su di quelli, per prendere forza, e con quella gettarsi nella mischia del presente, del fluire tumultuoso della vita.

Procedettero con passo tranquillo lungo la via. C’era gente in giro, in quell’ora di tarda mattina quando le persone cominciano a rientrare nelle case per il desinare. Camminavano un po’ discosti l’uno dall’altro, come mossi dal desiderio di mimetizzarsi meglio, di dare meno nell’occhio. In prossimità della piazza che era semplicemente uno slargo della via, gli edifici diventavano più alti rispetto ai circostanti. Pietra scura, che dava un senso di tetro, di oscuro, di Medioevo duro, con le viuzze strette che si dipartivano e salivano e scendevano come rivoli nel ventre dell’abitato. In un lato della piazza una grande fontana, e in cima ad una gradinata si ergeva la chiesa. S. Giovenale c’era scritto su un’insegna, doveva trattarsi del patrono di Narni. La gente in giro aveva cominciato a diradare. La strada lasciata la piazza girava sulla destra e poco oltre si intravedeva la porta di uscita della città.

Quando la via svoltò del tutto, in prossimità della porta, videro quattro uomini armati. Gli sembrarono fascisti, dalla divisa e dal copricapo. Ricordarono di aver sentito alcuni giorni prima, che si stava ricostituendo la Guardia Nazionale nell’ambito della Repubblica di Salò, sorta dopo l’otto settembre con Mussolini liberato dalla prigione del Gran Sasso. E l’Umbria, con gli anglo-americani ancora lontani, faceva parte della Repubblica. Videro i militi cento metri più avanti a guardia della porta, e quelli videro loro. Non c’era altro da fare che procedere tranquilli senza far trasparire il loro timore.
Forse potevano fuggire? Ma dove? Dove altro potevano andare? Si vedeva che erano forestieri in viaggio.

E poi sarebbe stata un’ammissione di colpe da nascondere. Non rimaneva che andar all’incontro e in quei cento metri prepararsi a cosa dire. Silvio avrebbe parlato per tutti: avvertì gli altri con uno sguardo. Pensò che per loro due, ci stava il dichiararsi lavoratori del grande cantiere dell’EXPO 42.

Un ritorno a casa temporaneo, in attesa di una nuova chiamata, appena il cantiere avesse ripreso i lavori. Lui aveva un’età non compatibile con il servizio militare.

Più problematica la cosa per Zeno che aveva 31 anni, ma con sé aveva la licenza di quando era stato richiamato in patria dall’Albania per la morte del fratello al fonte. Quelli non potevano sapere che poi era stato di nuovo arruolato e si trovava sino a pochi giorni prima in una caserma a Civitavecchia. La preoccupazione era per Davide, giovane, in età di militare. Che ci faceva lì da Rodi come attestavano i documenti che portava con sé?