IN VIAGGIO ALLA VOLTA DI TERNI, 15esima Puntata

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

QUINDICESIMA PUNTATA

Porta d’accesso a Carsulae

Porto romano a Mevania

Quel pensiero gli mise un brivido addosso, che sentì percorrergli tutto il corpo. Cercò di allontanarlo e la mente si rifugiò altrove. Ma pervicacemente tornavano immagini del paese: Si rivide in piazza con il negozio dei suoi vicino. Dallo stradone accanto, giungeva la voce dei Toccaceli, quelli dell’altro negozio di alimentari. Rivali, ma con bonomia, le due famiglie di esercenti, anche perché il negozio dei Toccaceli era qualcosa di diverso da quello della famiglia, come da quello dei Cappelloni, da quello della Corinna, e da quello dei Biscontini: gli altri negozi di alimentari posti più distanti dalla piazza. Diversi i Toccaceli perché oltre gli alimentari vendevano di tutto un pò: merceria, bigiotteria, arnesi vari. Quasi un supermercato ante litteram gestito dai tre fratelli e le mogli dei due più grandi. C’era anche il padre Settimio e la moglie di questi che morì prima di tutti. Analfabeta che si curava dei conti della clientela meglio di un computer. Allora esisteva un libretto dove si annotava la spesa e che veniva pagato alla fine del mese. Ma senza rigidità se i soldi non c’erano e allora l’indigenza era tanta, e i Toccaceli aspettavano il mese successivo. Mondo, Ivo, il vecchio Settimio, il povero Elio: questi i nomi degli uomini di casa Toccaceli. Quest’ultimo si sarebbe poi sfracellato contro una quercia sbandando sulla curva della Madonnella a bordo della Jaguar di un emigrante, che quell’estate era tornato in paese dopo tanti anni di lavoro e fortuna. Era tornato con quella macchina a testimoniare il benessere raggiunto, a riscattare la povertà passata, a suscitare la meraviglia e perché no l’invidia dei compaesani. Elio era un giovane galletto. Vent’anni, il figlio viziato e coccolato della famiglia Toccaceli, un po’ gigolò e simpaticamente carogna in virtù dei suoi successi femminili. Elio chiese di guidare quel sogno di vettura e l’amico l’accontentò, sedendosi sul posto accanto. Rombando affrontarono la curva stretta della Madonnella a tutta velocità. Non si poteva fare diversamente con tutti gli sfaccendati del paese accalcati sulla strada che li stavano guardando. L’emigrante non tornò in Inghilterra. Li seppellirono insieme con grande concorso di gente. Ivo e Mondo erano straordinariamente gentili e professionali, avevano una parola per tutti e le parole erano diverse, come pure l’atteggiamento del viso, in relazione a chi avevano davanti. Ossequiosi con le persone importanti, dolci con i bambini, familiari con le persone normali, ammiccanti con le donne, con quelle che si aspettavano la battuta. Con le altre, con quelle che non avrebbero gradito, precisi, gentili, professionali, quasi distaccati. Ma poi e soprattutto, accadeva che prendevano ad affettare il prosciutto, le coup de theatre di ogni visita al negozio dei Tocaceli. Iniziava con l’affilamento della lama del lungo coltello. Afferrato un altro coltello con mosse ritmate e alternanti sfregavano le due lame ma con diversa pressione, sì che l’affilamento fosse maggiore sul coltello da usare, l’altro fungendo solo da supporto per l’operazione. Poi la mano guidata da un braccio, impostato nella giusta inclinazione, affettava il grande prosciutto da una estremità all’altra in fette sottili sempre dello stesso spessore e previa asportazione dei bordi indurirti e poi dell’eccesso di grasso. Alla fine della corsa, l’altra mano prendeva tra due dita, ma solo un minimo contatto, quasi etereo, quella cosa sospesa nell’aria e attaccata ancora con un ultimo tralcio al tendine. Liberata anche da questo, veleggiava per alcuni istanti nell’aria per essere poi deposta leggiadramente, come un ginnasta che si lancia dal cavallo o dagli anelli o come una ballerina che atterra dopo un salto mortale, sulla carta appositamente stesa di lato. Carta bianca trasparente, sottile, distesa a sua volta su una più spessa, tipo carta paglia. Infine il tutto veniva piegato in entrambi i lati e depositato sulla pesa. Non meno affascinante era l’affettamento della mortadella, il grande salsicciotto veniva depositato sul piano della affettatrice, una meravigliosa Berkel rossa. Con un braccio dentellato si solidarizzava la mortadella al piano, poi si afferrava e si faceva girare il manico della lama che metteva in movimento il piano avvicinando alla lama il grosso salsicciotto che veniva affettato. Il tonno, le aringhe e altro pesce affumicato veniva conservato in grandi bidoni dai quali era estratta la porzione da vendere.

Pensava Emilio….. E gli venne in mente il viso della Maria, l’aveva salutata il giorno prima di partire. Non c’era ancora niente tra di loro, ma con gli occhi si erano detti parole che chiedevano conferme. Non c’era stato il tempo e quel giorno quando l’aveva incontrata non ebbe il coraggio di dire nulla, se non che sarebbe partito il giorno dopo per fare il soldato. Lei non chiese altro, solo negli occhi scese subitaneo un dolore che non trovò parole per raccontarsi. Il nome tradiva l’origine contadina. In paese alle bambine si dava nome Maria o Assunta il più spesso, ed il nome richiamava anche le feste religiose che coincidevano con i lavori della campagna. Maria era piccola, ben fatta, grandi occhi neri e neri capelli che cadevano su quelli. Si illuminava di sorriso quando salutava, un sorriso buono di bambina, se non fosse espressione di un corpo ormai maturo di giovane donna.

E questo contrasto la rendeva più attraente, come una malizia, che diventava tormento per i sensi di Emilio. Pensava a lei, sognava di dirle i sentimenti e la passione che lei gli ispirava. Non era ancora riuscito, aveva aspettato una condizione propizia, ora non c’era più tempo. Parlavano Emilio e Zeno in un angolo della sala d’ingresso, vicino la biglietteria. Già i soldati stavano dirigendosi verso il treno per salire, Emilio si avvide che anche per lui era tempo di salutarli e andare con gli altri. La realtà del momento si portava via pensieri e sentimenti, era più forte dei desideri che potrebbero aver voluto mutare quella realtà. Ma inevitabilmente essa si impone pervasiva e fa giustizia di tentennamenti o propositi diversi. I sensi entrano in assonanza con il circostante e rispondono con archi riflessi che si svolgono al disotto del tratto di corteccia cerebrale dove risiede la volontà. Ecco perché i soldati vengono abituati ad una dura disciplina.

Serve ad annientare la fantasia, le idee, la volontà. Servono a creare un meccanismo perfetto che reagisce immediato all’ordine, senza pensare, o pensare solamente per svolgere al meglio l’ordine. Emilio salutò e salì sul treno, solo una volta salito, si volse a guardarli e salutò con la mano. Di lui non si sarebbe saputo più nulla in paese, solo a guerra finita le incessanti ricerche della famiglia avrebbero condotto alla scoperta della sua fine. Fucilato insieme ad altri camerati del suo battaglione dai partigiani in Emilia, nei primi giorni di maggio del quarantacinque. I giorni successivi alla morte di Mussolini, e l’inizio del regolamento dei conti. La stazione in breve si vuotò, partito il treno militare, era rimasta poca gente.

Ora si trattava di decidere se aspettare per vedere di prendere il treno delle nove o incamminarsi a piedi. Decisero per la seconda ipotesi. L’aver visto tutti quei soldati scesi a Narni-scalo per il bombardamento della linea ferrata poco più a valle, e ricordando l’incursione aerea su Terni del giorno precedente li determinò nella scelta. Oltre agli altri quello era un motivo in più per evitare quanto meno la ferrovia. Così, invece di riattraversare il ponte e riprendere la strada per Terni come avevano pensato la sera precedente, pensarono che, oltre il treno, fosse prudente evitare, ancora per un po’, di percorrere la strada più battuta. Presero la strada che andava verso San Gemini, ovvero la via Flaminia primitiva.

Camminavano alacremente lungo il ciglio della strada, Il cielo era coperto, un vento di scirocco portava da sud nuvole nere che annunciavano pioggia, ma non ancora. La minaccia della pioggia si accompagnava ad una temperatura gradevole, mite, che sempre accompagna i venti da sud. E oltre la pianura e le colline si vedevano ad est le alte montagne dell’Appennino.

Di recente, meta invernale della stagione sciistica in località Terminillo, si diceva voluta da Mussolini. Raccontavano anche il motivo: sottrarre i romani agli ozi della loro natura, nel tentativo di fortificare la razza. Continuavano il cammino in una campagna di terra buona, irrigata dal fiume Nera che scendeva giù dalla zona di Norcia. Sino alla confluenza con il Tevere nei pressi di Orte il fiume dava forma ad una vallata incantata che prendeva il suo nome, val Nerina appunto. Lungo il suo corso, paesi antichi, conventi, torri, pietra mirabilmente assembrata a cristallizzare un tratto di Medioevo nei giorni della modernità. Percorsi circa un paio di chilometri, era tempo di abbandonare la strada che li avrebbe portati a Massa Martana e a Bevagna, e invece riprendere quella che da Narni andava a Terni, ovvero la Flaminia moderna. Trovarono una strada di campagna che ce li avrebbe riportati. Si inoltrava tra campi coltivati e casolari isolati, meno imponenti di quelli in tufo delle campagne romane.

Tirati su a pietra, come tutte le case in Umbria. Casolari a due piani, a terra le stalle, una scala esterna che dava ai piani alti, dov’era la cucina e la camera per dormire, nell’aia rimesse per gli attrezzi, stazzi per gli animali da cortile, il palo intorno al quale si raccoglieva la paglia. Passare per Terni era obbligatorio per il loro itinerario, la strada per andare a Sigillo passava di lì. Ma Terni era anche la città dove viveva da alcuni mesi Caterina, la sorella di Zeno e nipote di Silvio. Si sarebbero fermati da lei per un riposo, per mangiare, per chiedere notizie di casa. Procedevano tra campi arati di recente, alcuni con le grandi zolle rivoltate, altri già preparati per la semina con lo sminuzzamento delle zolle e il livellamento del terreno per evitare il ristagno dell’acqua. Grandi cumuli di concime organico giacevano ai lati dei campi pronti ad essere sparsi sul terreno, preziosa sostanza organica azotata, che avrebbe arricchito il terreno di sostanze nutrienti, sì che le colture crescessero più rigogliose.

Lavoro duro quello dei contadini che erano tutt’uno con le terre che coltivavano. Nascevano lì, nei casali dei poderi padronali, e morivano lì, o in altro casale se così comandava il caso o la volontà del padrone, con il breve intervallo del servizio militare, occasione per conoscere un mondo oltre il loro, e la breve vacanza poteva essere senza ritorno se i governanti si inventavano una guerra per la grandezza della patria e per i loro interessi. Comunque per logiche e teoremi al di sopra ed estranei alla gente di campagna.

La loro era una vita di sopravvivenza, legata ai frutti della terra che lavoravano come destino. L’Italia era allora contadina per gran parte, il processo di inurbamento con il lavoro nelle fabbriche era iniziato da poco, non aveva ancora sovvertito i ritmi di una quotidianità che guardava ancora in alto, alla trascendenza, perché quella storia di dolore e povertà avesse una giustificazione ed un premio. E per i contadini questo si esprimeva in una religiosità primitiva che il cristianesimo aveva ricoperto senza occultarla completamente.

Un paganesimo cristiano che sovraintendeva alla vita degli uomini e dei campi, con divinità agresti santificate e accolte nella toponomastica cristiana. E così le bambine avevano il nome di Maria e di Assunta e di altri attributi della Vergine e dei santi, e sui campi si mettevano cannucce a creare il segno della croce per impetrare la protezione divina sul raccolto, come prima si era sacrificato alla dea Cere o Ghea.