UNA STORIA DI PICCOLI MIGRANTI A SANTA MARIA MAGGIORE

UNA STORIA CHE CONTINUA

Santa Maria Maggiore è un borgo della valle Vigezzo che, tra pascoli, boschi, pareti rocciose, si estende tra il lago Maggiore, il massiccio del monte Rosa, il Parco nazionale della Val Grande, le Alpi svizzere. Una superstrada panoramica attraversa la piana fluviale del Toce, tra borghi, il castello visconteo di Vogogna, agglomerati di baite che, come isole di pietra grigia, interrompono ampi pianori verdeggianti, ai piedi di immense distese di boschi.

I segni lasciati dalla storia raccontano di invasioni, di pestilenze e di ex voto, ma anche del millenario rapporto di proficua reciprocità tra l’uomo e il suo ambiente, quando la pastorizia, l’allevamento del bestiame, lo sfruttamento delle cave di pietra, il legname fornito dai boschi avevano consentito la sopravvivenza.

Oggi questo territorio ha visto modificare radicalmente le condizioni di vita della sua popolazione soprattutto grazie al turismo che ha portato ricchezza e promosso lo sviluppo in tutti i settori economici.

A Santa Maria Maggiore, villette costruite nel periodo del boom economico, tra giardini e spazi ricreativi, strutture alberghiere, negozi, percorsi che accompagnano gli escursionisti alle pendici dei monti, circondano il nucleo antico del borgo che si rivela immediatamente attraverso i segni della sua secolare e austera storia montana: suggestive viuzze si snodano tra case squadrate; tetti spioventi di pietra con numerosi comignoli in terracotta di varie fogge e dimensioni raccontano di ceppi che bruciano nei camini anneriti, mentre anguste finestre si oppongono alle temperature invernali spesso polari; facciate talvolta colorate o ingentilite da fregi dipinti richiamano l’estro artistico della gente della “Valle dei pittori”, come viene anche chiamata la valle Vigezzo.

Attraverso le stradinedel paesesi raggiunge il “Museo degli spazzacamini”, ospitatonella settecentesca villa Antonia, inserita in un parco di faggi rossi e ispirata agli edifici transalpini con tetto spiovente e tasselli sottogronda decorati, con affreschi e vetri piombati dipinti con motivi naturalistici.

Il museo, unico a livello nazionale, che accoglie ogni anno 10.000 visitatori provenienti da tutto il mondo, è nato nel 1983 ed è stato completamente rinnovato nel 2005, per ricordare che da questa valle alpina al confine con la Svizzera intere generazioni di migranti spazzacamini vigezzini, fin dal XVII secolo, partivano non solo verso le grandi città del nord Italia, ma anche e soprattutto verso la Francia, la Germania, l’Austria e i Baesi Bassi.

La povertà diffusa nelle zone alpine, che si faceva miseria assoluta nei mesi invernali, fece dell’emigrazione degli spazzacamini, insieme a quella degli arrotini e degli ombrellai, l’unica via di fuga per sopravvivere, anche se a costo di enormi sacrifici: dal 1800 migliaia di bambini, dopo aver abbandonato la famiglia e gli amici, iniziarono a girare il mondo per praticare il mestiere dello spazzacamino. Talvolta, nei casi di miseria estrema, venivano venduti al “padrone”, che prendeva con sé i bambini più piccoli e minuti, perché entrassero facilmente all’interno delle canne fumarie, che venivano pulite dalla fuliggine a mano grattando con un ferro ricurvo.

Le condizioni generali erano al limite della sopravvivenza: sporchi, affamati e impauriti saltuariamente i bambini ricevevano un pò di cibo o dei vestiti vecchi dai clienti impietositi; dormivano in giacigli di fortuna.

A ricordare la sorte drammatica di molti piccoli fumaioli c’è un monumento simbolo, quello dello spazzacamino di Malesco, che, a sei anni, terminata la pulizia di un camino, secondo la consuetudine, alzò le mani per avvisare il mastro “rüsca” di aver terminato il lavoro e, sfiorando i fili dell’alta tensione, morì fulminato.

Il Museo dello spazzacamino di Santa Maria Maggiore occupa uno spazio relativamente piccolo articolato su due piani, nella parte posteriore di villa Antonia, sede del Municipio. In realtà la povertà di questo mestiere, che nei tempi moderni si è riqualificato con moderne tecnologie e nuove professionalità, fino a metà del Novecento, richiedeva pochissimi semplici attrezzi rudimentali, qualche straccio scuro destinato a ricoprirsi di cenere; il mezzo più comune, la bicicletta, per spostarsi da una città all’altra durante il continuo peregrinare.

Al pian terreno del piccolo museo, addossate alle pareti, si susseguono scale, scope, il “riccio” e la “raspa”, biciclette sgangherate a volte munite di carretto pieno di attrezzi; abiti e cappucci neri da calare sugli occhi; anche mantelli e giacche con doppia fila di bottoni, con stemma corrispondente alle zone della città accaparrate, da esibire per rivalsa insieme a un pretenzioso cappello a cilindro.

Immagini di vita quotidiana degli spazzacamini, ritratte in fotografie e in disegni che ricostruiscono un passato non molto lontano, consentono di calarsi emotivamente in una realtà dolorosa da non dimenticare.

Alcune fotografie, in particolare, riprendono i bambini, veri ometti in miniatura, con il viso sporco di fuliggine, profonde occhiaie e un volto privato del sorriso dell’infanzia.

Al piano superiore del museo, un percorso multisensoriale, unico nel suo genere, permette al visitatore una partecipazione in prima persona. Questi, con un paio di cuffie, si immedesimano in quella che era la vita degli spazzacamini: entra in una canna fumaria orizzontale, ascolta il rumore del “riccio” e della “raspa”, infila la testa in un camino, ascolta i mesti canti dei “rüsca”, i bambini-spazzacamino.Durante questo percorso si oscura l’immagine, rimasta nell’immaginario collettivo, di Mery Poppins che balla sui tetti di Londra con la figura romantica di Bert, il simpatico spazzacamino che vive la vita giorno per giorno, senza preoccuparsi del guadagno della giornata, appagato di stare in compagnia degli amici.

Una grande vetrina del museo raccoglie i doni che gli spazzacamini ogni anno portanoda tutto il mondo in occasione dei loro raduni: comignoli in terracotta di varie fogge e misure, stufe d’epoca, vetrate e insegne di vecchie botteghe aperte dagli spazzacamini vigezzini in Olanda o in Germania, fotografie in bianco e nero dei primi anni del Novecento.

A Santa Maria Maggiore, il primo fine settimana di settembre, si è svolto puntualmente il quarantesimo “Raduno internazionale degli spazzacamini”.

Con cortei festosi, canti, musiche, visi di bambini sorridenti ricoperti di cenere, viene esorcizzato il ricordo di tempi in cui l’infanzia era un costo per le famiglie.

Da sempre e ancor oggi, in tutte le società in cui si lotta per la sopravvivenza, non esiste il diritto di essere bambini. Lo ricordava già Charles Dickens che nei suoi romanzi descrisse ciò che aveva vissuto in prima persona tra il ‘700 e l’800: anche i piccoli dovevano lavorare perché le loro famiglie in miseria profonda potessero sopravvivere. Già a tre anni, maschietti e femminucce affollavano le strade e i marciapiedi della città, dandosi da fare nei modi più ingegnosi per tirar su qualche spicciolo. Lustravano scarpe, vendevano giornali, uccidevano topi, raccoglievano stracci e immondizia, spazzavano le strade per liberarle dal fango e dal letame dei cavalli che trainavano le carrozze. Nelle miniere, grazie alla loro minuta corporatura, si infilavano nei cunicoli per spingere i carrelli carichi di carbone, necessario per il funzionamento delle macchine a vapore.

Anche in tutta Italia ai bambini poveri toccava la stessa sorte.

Il Museo dell’ombrello di Gignese, paese sulle pendici del Mottarone, a poche decine di chilometri dalla valle Vigezzo, ricorda i bambini che in tempi non lontani venivano affidati a un ombrellaio, il “lusciat”, migrante verso il nord Europa e l’America, perché imparassero un lavoro che li avrebbe sottratti alla povertà.

Giovanni Verga, in “Rosso Malpelo”, racconta come il giovane protagonista fosse morto entrando nel lungo cunicolo di una cava di rena rossa.

Ancor oggi, nonostante il 20 novembre di ogni anno si celebri la “Giornata dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, alle coscienze di tutto il mondo si ripropone il tragico destino di minori affidati dai propri genitori a barconi su cui si mette a rischio la loro vita in cambio di un futuro lontano da guerre, da carestie, da fame, forse da una morte ancora più certa nella propria terra.

Vorremmo poter non ricordare la deportazione di bambini ucraini in Russia, i bambini scomparsi per il criminale commercio di organi; i minori vittime del turismo sessuale diffuso in molti paesi del mondo; i bambini e ragazzi italiani reclutati dalla criminalità organizzata, presi dalla strada, dopo che hanno abbandonato anzitempo la scuola, destinandosi alla povertà morale e alla perdita di libertà. Vorremmo non ricordare la mattanza di bambini israeliani che ha sconvolto il mondo il 7 ottobre scorso e l’analoga sorte di migliaia di bimbi palestinesi in una fuga disperata per sottrarsi alla inesorabile e disumana vendetta.


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Commenti

2 risposte a “UNA STORIA DI PICCOLI MIGRANTI A SANTA MARIA MAGGIORE”

  1. Avatar Pierenzo Vella
    Pierenzo Vella

    I testi della scrittrice Valeria Biraghi mi fanno viaggiare con l’immaginazione fra le bellezze del lago Maggiore.La leggerezza dello stile rende affascinanti anche le ricostruzioni storiche. Complimenti!!!

  2. Avatar Pierenzo Vella
    Pierenzo Vella

    I testi della scrittrice Valeria Biraghi mi fanno viaggiare con l’immaginazione fra le bellezze del lago Maggiore. La leggerezza dello stile rende affascinanti anche le ricostruzioni storiche. Complimenti!!!