SOLDI IN PARADISO E COME TROVARLI

Era il 2015 quando scoppiò uno degli scandali finanziari più eclatanti del decennio, i “Panama Papers”. Oltre 2,6 Terabyte di dati raccolti su 214 mila società offshore assistite dallo studio panamense Mossack Fonseca. La mole di informazione raccolta era tale che furono coinvolti ben 400 giornalisti, inclusi vari analisti di supporto provenienti da 80 paesi diversi per sviscerarne il contenuto.
Il caso ci ha insegnato quanto la trasparenza dei dati finanziari sui flussi di capitali sia qualcosa di tutt’altro che scontato, e di come la fuga di capitale sia un male ancora molto presente nei sistemi economici, occidentali e non solo.

La fuga di capitali, può presentarsi per diverse ragioni, principalmente ne inquadriamo due: Politiche ed economiche. Politiche quando sono presenti delle situazioni di instabilità istituzionale, crisi di governo et simili o è presente un governo ideologicamente non avvezzo agli interessi di chi detiene tali somme di denaro. Economiche, quando per i più disparati motivi, un governo si vede costretto a dichiarare fallimento, per via della sua incapacità a ripagare gli interessi sul debito sovrano.

Quest’ultima in realtà rappresenta solo una extrema ratio, prima del fallimento effettivo sussistono diverse variabili che influenzano la scelta degli investitori di mettere o meno capitale su uno stock statale, rendimenti in primis e capacità di ripagare l’investimento di pari importanza. Le famose agenzie di rating, come Standard&Poors o Moody’s si occupano proprio di questo, valutare la solidità e la solvibilità di una agenzia emettente titoli sul mercato finanziario. Fattori che influenzano in modo deciso la fiducia degli investitori.

Tra i motivi politico/finanziari che influenzano questo flusso di capitale verso l’esterno di un paese, abbiamo senza dubbio la tassazione, sulla persona e in maggior misura sul patrimonio/capitale. È Notizia di quest’anno l’importante fuga di capitali che sta investendo la Norvegia a seguito della decisione del governo di centrosinistra di aumentare la tassa patrimoniale all’1.1% precedentemente allo 0,7%.

Un aumento tutto sommato contenuto e allo stesso tempo così essenziale per mantenere in equilibrio il sistema di welfare norvegese, tra i migliori al mondo insieme a quelli degli altri paesi nord europei, vedasi “nordic model”. Nel caso norvegese, la Norwegian Business School, afferma di stimare che coloro che hanno lasciato il paese abbiano un patrimonio complessivo di almeno 600 miliardi di corone norvegesi. Parliamo di circa 30 miliardari e le cose potrebbero peggiorare.

Anche in Francia alcuni anni fa (1998) iniziò un’importante fuga di capitali che continuò fino al 2006 e si stima che abbia drenato dalle casse pubbliche francesi, circa 126 miliardi di dollari. Nei paesi in via di sviluppo, la situazione è ancora più grave, Un documento del 2008 pubblicato da “Global Financial Integrity“ stimava che la fuga di capitali, chiamata anche flusso finanziario illecito , “dai paesi in via di sviluppo ammontasse a circa 850 trilioni di dollari all’anno”.

Il “peccato originale” se così possiamo chiamarlo, di questa situazione, è il mancato adeguamento delle norme finanziare in un contesto di estrema mobilità dei capitali frutto della globalizzazione. In un contesto del genere, sappiamo che si originano effetti secondari non trascurabili, come le struggenti delocalizzazioni, che oltre a trasferire capitali altrove, hanno anche l’effetto di drenare competenze regalandole a competitors. L’obbiettivo primario degli investitori è quello di massimizzare i profitti cercando forza lavoro a basso costo, la competitività risulta la bussola principale di queste decisioni.
Ma è chiaro che in un contesto globalizzato, competitività di prezzo significa essere disposti a deprezzare la forza lavoro europea al pari di quella indiana o cinese, non proprio il massimo per il nostro stile di vita.

La liberalizzazione dei flussi di capitali, potrebbe non essere stata la scelta giusta per affrontare le sfide del nostro tempo, anzi se non altro possiamo dire con abbastanza certezza che tende ad inasprire e problematizzarne alcune, tra cui l’aumento delle diseguaglianze economiche e il diritto al lavoro. Un fenomeno che alimenta anche pericolose derive sovraniste autoritarie, che regala argomentazioni a chi vorrebbe erigere muri e lanciare accuse nei confronti degli ultimi della terra, di star compiendo uno scippo nei nostri confronti.

Il cambiamento, nel nostro caso, dovrebbe partire dalla comunità europea, che fonda il suo essere sulla liberalizzazione dei capitali, come ribadito a più riprese nello statuto fondante della Comunità Economica Europea(CEE). Il problema non dovrebbe essere risolto partendo dai singoli stati nazionali, di per se impotenti di fronte alla liquidità del mercato globale, ma dalla stessa comunità economica, cercando di attuare politiche di contenimento dei flussi e rindirizzarle all’interno dei confini Europei. Altro punto sarebbe quello di rafforzare un meccanismo di tassazione comune europea al fine di creare pari condizioni e rendere inutile uno spostamento di capitale da un paese all’altro dell’eurozona.

Nei confronti dei paradisi fiscali, l’OCSE e in modo analogo negli Stati Uniti e nell’UE, sono state prese delle misure per migliorare la trasparenza sui dati finanziari relativi allo spostamento di capitali, nel caso dell’OCSE i CRS e degli Stati Uniti i FACTA. I CRS, Common Reporting Standard, sono uno standard informativo per lo scambio automatico di informazioni fiscali e finanziarie a livello globale (che sarebbe già necessario al FATCA per elaborare i dati). Dal 2017 in poi partecipano al CRS Australia, Bahamas, Bahrein, Bermuda, Brasile, Isole Vergini britanniche, Brunei Darussalam, Canada, Isole Cayman, Cile, Cina, Isole Cook, Guernsey, Hong Kong, Indonesia, Israele, Giappone, Jersey, Kuwait, Libano, Macao, Malesia, Mauritius, Monaco, Nuova Zelanda, Panama, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Singapore, Svizzera, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Uruguay.

Mentre il FACTA, Foreign Account Tax Compliance Act, richiede alle istituzioni finanziarie straniere di ampio respiro – banche, agenti di borsa, hedge fund, fondi pensione, compagnie assicurative, trust – di riferire direttamente al Ministero dell’interno degli Stati Uniti . Revenue Service (IRS) tutti i clienti che sono cittadini statunitensi. A partire da gennaio 2014, il FATCA richiede alle Istituzione finanziarie straniere di fornire rapporti annuali all’IRS sul nome e l’indirizzo di ciascun cliente statunitense, nonché sul saldo del conto più grande dell’anno e sui debiti e crediti totali di qualsiasi conto posseduto da un soggetto statunitense. Inoltre, il FATCA impone a qualsiasi società straniera non quotata in borsa o a qualsiasi partnership straniera che detenga il 10% di proprietà statunitense di segnalare all’IRS i nomi e il numero di identificazione fiscale (TIN) di qualsiasi proprietario statunitense. La FATCA richiede inoltre ai cittadini statunitensi e ai titolari di carta verde che detengono attività finanziarie estere superiori a 50.000 dollari di compilare un nuovo modulo da presentare con la dichiarazione dei redditi , a partire dall’anno fiscale 2010.

Infine, il meccanismo delle Liste Nere. Cioè la schedatura di tutti quei paesi classificati come paradisi fiscali che si rifiutano di collaborare con l’OCSE al fine di ridurre l’evasione offshore. Il meccanismo comprende quattro livelli di schedatura, dai più ai meno cooperativi e sono:

1) Quelli che hanno sostanzialmente implementato lo standard (include la maggior parte dei paesi ma la Cina esclude ancora Hong Kong e Macao).

2) Paradisi fiscali che si sono impegnati a rispettare lo standard, ma non lo hanno ancora pienamente implementato (include Montserrat, Nauru, Niue, Panama e Vanuatu)

3) Centri finanziari che si sono impegnati a rispettare lo standard, ma non lo hanno ancora pienamente implementato (inclusi Guatemala, Costa Rica e Uruguay).

4) Quelli che non si sono impegnati a rispettare lo standard (categoria vuota)

Analogamente all’OCSE anche l’UE si è procurata un sistema di lista nera, affiancato da una lista grigia che emula il sistema di classificazione sopracitato, nella lista grigia sono inserite una quarantina di istituzioni finanziarie che applicano un regime cooperativo con le norme dell’Unione.

C’è ancora molto lavoro da fare, non c’è dubbio che aldilà di queste misure di contenimento, si potranno effettuare anche dei cambiamenti a livello giuridico altrettanto efficaci. La trasparenza è il primo passo per affrontare tutta l’economia finanziaria “sommersa” che altrimenti sarebbe ancora più facilitata a non dichiararsi alle autorità come nel caso dei panama papers. Il secondo passo sarebbe pensare a delle sanzioni e ad un allargamento anche ad altri paesi. Tempo fa, infatti, il presidente del Lussemburgo, chiaramente infastidito da un sistema di trasparenza che andava a ledere i propri interessi, criticò la misura in quanto non includesse anche gli Stati Uniti, che rispetto all’Ue offre degli sgravi fiscali non indifferenti a chi possiede grandi capitali.

Ci sarebbe poi la proposta di una aliquota fiscale minima, che preveda una forbice dal 15 al 20%, il problema di questa norma è la sua complessità di attuazione, che richiederebbe una coesione internazionale attualmente poco presente. Sempre l’OCSE qualche anno fa propose un’aliquota leggermente più bassa dei valori citati, circa del 12,5% il problema rimane il medesimo, per la sua approvazione serve l’unanimità di tutti i membri dell’organizzazione, e quindi torna il problema della coesione che indubbiamente verrà affrontato più avanti.

La nuova proposta dell’OCSE introdurrebbe una novità importante: i Paesi di origine delle società multinazionali possono applicare una tassa simile quando le affiliate prevedono un’aliquota inferiore a quella globale. Se, per esempio, Facebook versa il 12,5% a Dublino, la restante parte dovrà essere versata a Washington.

L’aliquota media per le imprese dei Paesi OCSE era del 32,2% nel 2000, mentre nel 2020 è scesa al 21,4% per effetto della “corsa al ribasso” che molti Paesi stanno adottando per attrarre gli investimenti delle società multinazionali. Andando ancora più indietro nel tempo si evidenzia un divario ancora più netto: nel 1980 l’aliquota era pari al 45%. Se non altro le politiche “neoliberiste” di quel periodo hanno sortito l’effetto sperato. Introdurre un’aliquota minima globale non soltanto aiuterebbe a combattere l’evasione fiscale, ma permetterebbe di ricavare un gettito di circa 100 miliardi di dollari in tutto il mondo, secondo un’analisi dell’Ocse che prevedeva l’introduzione di un’aliquota minima del 12,5%.

Per l’Italia la perdita attuale vale 9 miliardi di dollari l’anno, mentre per gli Stati Uniti si parla di almeno 49 miliardi di dollari (secondo i dati di Tax Justice Network) che finiscono principalmente nelle isole Cayman, in Gran Bretagna o in Giappone. Anche se per essere precisi a scanso di equivoci andrebbe fatta una differenziazione, i capitali che fuggono dagli Stati Uniti e dall’Italia, per esempio, riguardano cifre inferiori ai 10 milioni di euro, oltre questa cifra diventa economicamente sconveniente delocalizzarli. Infatti, almeno nel caso dell’Italia si è difronte ad un paradosso, ovvero la perdita di decine di miliardi di capitali l’anno, ma allo stesso tempo l’importazione di grosse cifre, per via della convenienza della tassazione oltre una certa soglia.

Per quanto riguarda l’Europa, l’introduzione di un’aliquota minima globale porterebbe meno ricavi ai più piccoli Paesi dell’Unione, mentre “contribuirebbe a riportare le entrate imponibili ai tre paesi dell’Unione che vantano un onere fiscale più elevato: la Francia, con un’imposta del 32%, la Germania, con un’imposta di circa il 30%, e l’Italia, quasi il 28%”, come ha spiegato Andreas Rees, chief German economist di Unicredit.

In attesa di un accordo OCSE, l’Italia (così come altri Paesi europei come la Francia e il Regno Unito) ha introdotto una web tax unilaterale, cioè un’imposta sui servizi digitali, le cui scadenze sono state prorogate dal DL Sostegni.

Alcune fonti:

  1. https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0022199611001176
  2. https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0960077923000838

Ndt.: l’immagine in evidenza è un fotogramma del film 007 Spectre.


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