L’INTERAZIONE TRA FORZA E SICUREZZA

PER COSTRUIRE UN VARCO TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO VERSO UNA “PACE GIUSTA E STABILE”

Le tragiche vicende del conflitto israelo-palestinese domandano ancora una volta come forza e sicurezza interagiscono e con quali effetti, reali, virtuali o solo percepiti? E’ la seconda ancora funzione della prima come avvenuto per millenni? Come sono cambiate l’esercizio della forza e la domanda di sicurezza negli ultimi 150 anni o solo negli ultimi 50 anni e – soprattutto – con quali interazioni per provare ad esplorare spiragli di soluzione in bilico tra il pogrom del 7 ottobre e il rischio affiorante di “genocidio” con oltre 10mila morti (quanti i civili, i militari o i bambini)?

Queste le domande critiche di questo momento buio di una umanità impaurita e smarrita che oscilla pericolosamente tra nuovi antisemitismi, islamofobia e spinte all’annientamento ricorsivo. Le risposte sono lasciate – per ora – a strateghi militari, generali ed esperti di tattiche tecnologiche offensive e troppo poco alla diplomazia e al dialogo, ossia all’interazione tra i “contendenti” che non dimentichiamo sono essenzialmente due popoli alla ricerca di nuovi equilibri di convivenza ma che coinvolgono ora gli equilibri dell’intera regione medio-orientale e del pianeta.

Va infatti detto che la forza ha sempre contato – come noto – in “mondi chiusi” che ritroviamo – semplificando – già nelle lotte secolari tra Atene e Sparta, e poi nelle Guerre Puniche o nelle Crociate così come avremo nelle guerre di secessione americane del 800′ per la fine della schiavitù fino al 900′ delle due guerre mondiali e la fine dei colonialismi. Innescandosi da qui un altro tipo di conflitto come la Guerra Fredda che ridisegna i confini tra forza e sicurezza al mutare dei mezzi offensivi – tra deterrenza, guerra batteriologica e guerra nucleare – per arrivare alle guerre “ibride “ dell’oggi tra Ucraina e Palestina iniettate dall’odio diffuso tra “vincenti e perdenti”, tra democrazie e autocrazie, tra diritti umani e teocrazie di un Pianeta in bilico a partire dal tremendo spartiacque dell’11-9 e agli “errori” che – secondo Biden – ne sono seguiti nella risposta al terrorismo per “esportare democrazia”. Ma già nel conflitto originario tra Davide e Golia cominciamo a intravedere le fragilità dell’esercizio della pura “forza muscolare” rispetto al ruolo della conoscenza e della leggerezza, della flessibilità (Intifada 1 e 2, ma anche Yom Kippur del 1973?). Sono proprio gli “errori” segnalati da Biden a Netanyahu alcuni giorni fa sulle risposte USA succedute al terribile 11 settembre 2001 segnalando che ormai viviamo – nonostante tutto – in “sistemi aperti” che ci fanno riflettere sulle ferite mai rimarginate del Vietnam, dell’Afghanistan o del Kossovo, oppure – nel caso italiano – sulla devastazione dell’avventura abissina di un insensato “sogno imperiale” neo-coloniale o sulla terribile sconfitta di Caporetto, con il riaffermarsi ancora una volta della forza sulla sicurezza. Nei “sistemi aperti” infatti la situazione mostra cambiamenti e la forza non sempre domina ineluttabilmente, perché co-agisce con intelligenza e conoscenza, con la cultura soprattutto in contesti differenziati e articolati che vanno adeguatamente compresi perché possano partorire condizioni di pace giuste e stabili. Contesti che – peraltro – essendo sempre più ampi e globalizzati impongono alleanze in una geometria variabile guidata da “principi forti” (come per es. lo Stato di Diritto o le Regole del Diritto Internazionale) anche – e soprattutto – nella conduzione della guerra. Perché non basta più “eliminare il nemico” come nelle “Crociate”, perché c’è un prima e un dopo che va considerato di un “contesto complesso” sempre più sistemico dove la forza è solo uno degli elementi e non necessariamente quello decisivo o risolutivo, insegnandoci che la democrazia (forse) non si esporta quasi mai, ma certo non con la guerra che spesso lascia tracce indelebili per generazioni nelle carni vive di popoli e storie, di territori. Perché nei “sistemi aperti” dove la forza si ricompone e intreccia con intelligenza, conoscenza e informazione – ibridandosi e contaminandosi – agisce un altro fattore interconnesso con “opinioni pubbliche” sempre più istruite e (dis)informate che “pressano” sui contendenti e sulle elites politiche condizionandone le scelte e confrontandosi nelle piazze, come in queste settimane dall’America all’Europa, purtroppo anche con pericolosissimi rigurgiti antisemiti. Come evidente nella Guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia con strumenti “proibiti” (armi a grappolo, gas nervini, ecc.) e con armi della “propaganda” e sempre più ibridi per “spostare” il consenso da parte di partner potenziali influenzando fonti di finanziamento, armamenti o uso di reti satellitari con spionaggio asimmetrico e uso distorsivo dei media (cfr. vicenda dell’intervista telefonica alla Presidente Meloni da parte di due comici russi di fatto “agenti di dis-informazia” dei servizi russi). Ecco che allora la forza mutante trasforma la stessa categoria di sicurezza rendendola evolutiva e connettiva: non è più semplice funzione diretta della forza come nella equazione di causa ed effetto, perché entrambe – tra mutazione ed evoluzione – divengono sempre più indissolubilmente legate e interconnesse, intricate e contaminate da molteplici altri fattori di confronto-scontro (tra Civiltà, tra regimi economici, tra statuti di libertà e di diritto?). Ed in questa chiave vanno comprese in tutte le loro conseguenze dirette e indirette che ne derivano da un dato esercizio della forza e che per questo va “modellato” anche per non renderlo puro ostaggio di “reazioni vendicative” che potrebbero rivelarsi controproducenti se riflesse nel dopo: perché una guerra per quanto “giusta” ha sempre un “dopo” del quale dobbiamo tener conto per preformare un contesto di “pace possibile e giusta” proprio “mitigando la forza” che non è quasi mai neutrale nei suoi effetti. Questo l’enorme dilemma di Israele dell’oggi, ossia quanto e come esercitare la forza senza compromettere la sicurezza di domani che è interconnessa alla sicurezza del Popolo Palestinese e alla sua autonomia statuale ormai necessaria a riempire uno Stato Riflessivo di Sicurezza. Cioè l’esistenza stessa di Israele non potrà essere “disgiunta” dalla sopravvivenza del Popolo Palestinese e delle loro istituzioni “oltre” l’emergenza umanitaria permanente che non può che incubare rivolte e incendi continui e ricorrenti se non risolta alla radice fino al rafforzamento di strutture terroristiche come Hamas. Dunque, da qui la necessaria (e vitale) attenzione agli esiti e agli impatti sui civili (oltre 4000 bambini palestinesi morti) dell’entrata a Gaza che spostano e deviano parte del consenso verso i Palestinesi come se fossero esclusivamente rappresentati da Hamas, ipotecando possibili accordi futuri sotto il controllo dell’ANP e che Blinken ha offerto ad Abu Mazen sotto l’ombrello della Lega Araba e dell’Egitto proiettati dentro gli Accordi di Abramo.

E’ infatti del tutto evidente che gli USA non possono più essere garanti unici di un processo di pace nemmeno con ONU e Europa se non sarà coinvolta l’intera Regione Medio-Orientale ripartendo dalla centralità di Egitto, Lega Araba e dell’Arabia Saudita con il Piano di Pace del 2002 incardinato sui “Due Stati” per ricostruire i confini sostenibili e giusti di una trattativa possibile. E tutto questo è legato strettamente alle ferite che lascerà nelle carni vive di civili e ostaggi dei due popoli di Palestina per l’attacco brutale del 7 ottobre e per il futuro di entrambi nel crogiuolo Medio-Orientale (e della sua modernizzazione) oltre che dell’umanità intera. Intanto, attivando a breve una forza di interposizione “regionale” guidata dalla Lega Araba che disinneschi la forza distruttiva della sola “opzione militare” con una “opzione politica”. Questi esiti ri-compositivi possibili tra uso della forza e stato della sicurezza di una intera Regione impongono tuttavia un ruolo più attivo dell’Europa come “Culla della Civiltà” e che ci potrà rivelare quanto è ricostruibile il “mito biblico della Speranza” che già con Esiodo troviamo nei doni contenuti nel vaso di Pandora.

Quel “mito della speranza” che la forza ha solo momentaneamente adombrato ma al quale dobbiamo tornare come indica – inesausto – anche Francesco perché incorpora la sicurezza autentica dell’umano come “Pace con Sè e con l’Altro da Sè”. Forza e sicurezza sono sempre più intrecciate allora in forme non gerarchicamente ordinate ma ne vanno definite le forme statuali entro le quali dare loro su entrambi i lati del conflitto una stabilità riflessiva ragionevolmente sostenibile, accettata e condivisa senza la quale quel “mito biblico della Speranza” non potrà riaccendersi nella virtuosa fiamma di fusione tra le due parti di Antico e Nuovo Testamento che hanno guidato fin qui la civilizzazione plurale dell’Uomo Moderno nel lungo e faticoso cammino tra Politeismo e Monoteismo, tra fede e laicità, tra totalitarismo e democrazia, tra l’Io e il Noi.


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