IL PIANO “SOLO” FU UN TENTATIVO DI COLPO DI STATO?

La vicenda, ormai dimenticata, del “Piano Solo”, e di un (presunto) colpo di Stato, oggetto di numerosi dibattiti parlamentari, di tre Commissioni di inchiesta (una del Ministero della difesa, una dell’Arma dei Carabinieri ed una del Parlamento) e di vari procedimenti giudizia ri, toccando i vertici dello Stato e delle Forze armate si svolse negli anni ’60 del secolo scorso in una Italia molto diversa da quella attual e.

A partire dalle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946 la Democrazia Cristiana, partito di maggioranza relativa, era il perno delle istituzioni repubblicane Presidente del Consiglio, ministri importanti, a partire dal 1955 Presidenti della Repubb lica, Presidenti della Camera dei deputati e del Senato, persone a capo di istituzioni economiche pubbliche come l’I.R.I. (Istituto per la ricostruzione industriale) ed E. N.I. (Ente nazionale idrocarburi) via via fino agli incarichi pubblici di minore rilevanza: tutti democristiani con qualche venatura di liberale, socialdemocratici e repubblicani relegati sugli strapuntini del potere pubblico.

In nome della lotta al comunismo, della fedeltà all’alleanza dei Paesi del Nord Atlantico (il Patto atlantico), ma nella sostanza in conseguenza della assegnazione dell’Italia alla sfera di influenza statunitense sanata negli accordi di Yalta (1945) tra le quattro grandi potenze vincitrici del Il conflitto mondiale (U.S.A., U.R.S.S., Gran Bretagna e Francia) era esclusa qualunque alternativa politica e di Governo: comunisti e socialisti a sinistra, monarchici ed ex fascisti a destra erano confinati ai margini del sistema politico.

Nel 1953 con una legge elettorale di tipo maggioritario si tentò la conquista da parte della coalizione di governo dei due terzi dei seggi in Parlamento, in modo da poter modificare la Costituzione approvata solo cinque anni prima con la segreta intenzione di mettere fuori legge i partiti dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, ma il tentativo non riuscì in quanto non furono raggiunti alle elezioni politiche i voti necessari (più del 50 per cento) per far scattare il premio di maggioranza.

Nella D.C., partito tutt’altro che monolitico, con cor renti che al suo interno si combattevano duramente per conquistare un primato di partito che poi sarebbe divenuto tale nelle istituzioni, c’era chi avvertiva la precarietà di una situazione del genere ora descritto, da Fanfani a Moro, e chi invece era arroccato, come Pella, Scelba e lo stesso De Gasperi, su posizioni nettamente conservatrici, talora con qualche apertura alle riforme, come nel caso di Segni.

A Napoli, nel V congresso del partito (1994) le correnti innovatrici riuscirono vincitrici: fu l’inizio di una battaglia destinata a durare più di dieci anni tra chi tra i democristiani avrebbe voluto integrare la maggioranza parlamentare e di Governo con la partecipazione dei socialisti e chi era nettamente contrario ritenendo che essa equivalesse ad indebolire il fronte anticomunista dato gli stretti rapporti (fino a quel momento esistenti) tra socialisti e comunisti. Giovanni Gronchi, eletto nel 1955 Presidente della Repubblica, dopo la crisi del Il Governo presieduto da Segni (1960) una timida apertura a sinistra affidando a Ferdinando Tambroni, appartenente alla corrente di partito che faceva capo a Fanfani, di formare un nuovo Governo che avrebbe dovuto, secondo i progetti originari, trovare il consenso del partito socialist a: finì, come hanno scritto correttamente Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone (1960, Milano, 2020) che l’Italia precipitò verso l’orlo della guerra civile. Fu un Governo che durò pochi mesi ma che incise più di quanto possa ritenersi a prima vista, sugli avvenimenti successivi.

L’ex centurione della milizia fascista divenuto Presidente del Consiglio già dagli anni in cui era stato Ministro degli interni (1955-1959) aveva elevato a prassi costante la schedatura dei nemici politici attuali o solo potenziali, senza stare a fare troppe distinzioni tra partiti, con una organizzazione politica parallela, al di fuori della legalità e l’ufficio affari riservati, diretto da uomini di sua fiducia. Per schedare adeguatamente le persone cogliendone tutti gli aspetti della vita pubblica e privata ci vuole tempo: per fare presto furono richieste schede già pronte al S.I.F. A.R., (Servizio informazioni forze armate) che secondo le norme vigenti si sarebbe dovuto occupare solo di contrastare lo spionaggio straniero in Italia e curare quello italiano all’estero.

Nella pratica le cose stavano un po’ diversamente: da qualche anno, presumibilmente a partire dal 1955, quando il Presidente della Repubblica Gronchi aveva rinunciato, in quanto comandante supremo delle forze armate in diretto rapporto con il capo del S.I.F.A.R. ed il potere di dare ad esso istruzioni e direttive.

Può destare meraviglia il rivolgersi ai servizi segreti militari destinati ad operare più all’estero che all’interno del Paese e solo in funzione della difesa contro pericoli esterni. In quegli anni però la distinzione non era così netta: l’internazionalità dell’idea comunista ed i legami, mai negati, dei partiti comunisti nazionali con la nazione – la Russia – in cui il comunismo aveva vinto, rendevano molto labile, quando i partiti comunisti nazionali venivano chiamati in causa, la distinzione tra azione di contrasto svolta all’esterno o all’interno dei confini nazionali.

D’altra parte si trattava di una scelta necessitata dagli obblighi assunti con la parte segreta del trattato di adesione al Patto Atlantico che obbligava l’Italia ad una stretta collaborazione con i servizi segreti degli altri Paesi aderenti (Stati Uniti in primo luogo) in funzione anche della lotta al Comunismo.

Non a caso a guidare i servizi segreti militari nel dopoguerra fu preposto il Generale Ettore Musco, fondatore dell’Armata italiana della libertà, una organizzazione finanziata dalla C.I.A. in funzione anticomunista. Molto legato a Badoglio, non era estraneo alla politica, nel 1953 fu candidato (non eletto) nelle liste della o.e.

In questo contesto va vista la predisposizione da parte del servizio di schede riguardanti personaggi del mondo politico e sindacale, più o meno noti e spesso anche dei loro congiunti, originariamente limitata solo agli appartenenti o simpatizzanti per i partiti della sinistra.

La schedatura sistematica degli avversari politici fu un virus dall’Italia fascista a quella democratica: l’eredità dell’OVRA, la polizia politica segreta del regime, incardinata nel Ministero degli interni, proseguì non solo ad opera dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno e dei servizi segreti militari ma anche per iniziativa di soggetti privati come al FIAT (V. B. Guidetti Serra, Le schedature Fiat; Milano, 1984) o nell’immediato dopoguerra l’Opera Cardinal Ferrari a Milano (v. in proposito – Camera dei deputati, X Legislatura, Doc. XXIII, n. 36 – Prerelazione Commissione parlamentare di una inchiesta sul terrorismo).
La scelta operata da Gronchi produsse più danni di quanto forse lo stesso Presidente della Repubblica pensasse: il SIFAR prese ad agire indipendentemente qualunque altra autorità politica (il Ministro della difesa) o militare (il Capo di Stato maggiore dell’Esercito, il Capo di Stato maggiore generale). L’invio di rapporti quindicinali al Ministro dell’interno, ed al Presidente del Consiglio (oltre che al Presidente della Repubblica) non valeva certamente ai fini di un controllo sull’attività svolta in quanto c’era la possibilità che essa rispondesse ad una richiesta presidenziale.

Le richieste di informazioni su questo o quel personaggio iniziarono a pervenire al Servizio da personaggi politici, e perfino da soggetti privati (v.il caso dell’Avvocato Carnelutti) sempre con la copertura (talora molto labile) della necessità di tutelare interessi nazionali come il caso limite di una richiesta di intervento per scoprire gli autori di un furto di denaro alla camera dei deputati come se non fossero esistite in Italia forze di polizia per la repressione dei reati. A quanto sembra, lo stesso Capo del SIFAR, a sua volta fu oggetto di particolare attenzione da parte del ministro Tambroni.

Una circolare datata 26 febbraiov1959 della prima sezione dell’Ufficio D – quello competente per la difesa interna ed esterna -chiese a tutti i capi degli uffici periferici note biografiche e notizie dettagliate su “attività comunque svolte” da deputati e senatori. Non ci voleva altro: ebbero il loro dossier uomini politici di tutti i partiti, da Giovanni Leone a Saragat, da La Pira a Fanfani, da Tremelloni a Gava, da Togni a Nenni, da Carlo Bo a Ferra ri Aggradi.

Non mancarono gli ecclesiastici, da Fiorenzo Angelini a Dell’Acqua, gli industriali, da Giorgio Valerio a Carlo Faina, gli esponenti delle forze armate, dal gen. GiuseppeAloia allo stesso De Lorenzo (per via di un diverbio avuto con un dimostrante nel Veneto).

I dossier assumevano spesso dimensioni enormi : una volta che fosse stato iniziato, era successivamente arricchito da tutte le informazioni (spesso contrastanti) riguardanti la vita privata non solo del personaggio “attenzionato” ma anche dei componenti della sua famiglia, come accadde, ad esempio, per Saragat .

Alcuni episodi, tratti dalla relazione della Commissione presieduta dal gen. Beolchini, sembrano tratti direttamente da un romanzo di Le Carré, dal recupero di tre lettere di Papa Pio Xli nella Guiana francese attraverso un ufficiale che si recò per comprarle da chi le deteneva e riconsegnarle a mons. Dell’Acqua, al trafugamento di un documento conservato dal P.C.I. nella sede di Via delle Botteghe Oscure a Roma da un personaggio insospettabile e poi cedute ai servizi segreti statunitensi a dimostrazione dell’efficienza dei servizi segreti italiani.

Nel 1968 la Commissione Biolchini accerterà la esistenza di ben 157.000 fascicoli: con gli anni era caduto qualunque criterio di demarcazione tra indagini legittimate dai fini istituzionali del Servizio segreto milit are. Aveva una indubbia legittimità, negli anni della guerra fredda, la struttura segreta costituita presso la Stazione Termini di Roma – nome in codice Terminill- per controllare la corrispondenza in partenza e in arrivo dai paesi dell’Europa orientale se non fosse stato che la motivazione vera del controllo era l’acquisire notizie sulle lettere inviate o ricevute dalla Bulgaria da parte del Presidente del Senato Cesare Merzagora. Più difficile, anzi impossibile, trovare una qualunque valida motivazione per una registrazione effettuata, su sollecitazione dell’avv. Francesco Carnelutti, nel contesto del processo contro Fenaroli e Ghiani per l’omicidio di Maria Martirano, moglie di Fenaroli, o l’indagine sugli affari di Silvio Gava, o quella sulla famiglia di Saragat, o i rapporti con il medico Spallone a proposito di un progetto segreto statunitense, o il sondaggio elettorale effettuato su richiesta dell’allora Ministro Togni, tutte attività svolte negli anni dal S.I.F.A.R.

Il servizio segreto militare divenne di fatto uno strumento che con i suoi collaudati strumenti consentiva ad un personaggio politico di procacciarsi notizie utili alla sua lotta contro un altro personaggio del suo stesso partito o di un partito avversario.

Sarà questo un tema centrale dell’inchiesta amministrativa e di quella parlamentare negli anni successivi. I responsabili dei servizi, ed in particolare il generale Giovanni Allavena, a capo del S.I.F.A.R. dal 1965 al 1967, negli interrogatori dinanzi alla Commissione presieduta dal gen. Beolchini, tra molti “non ricordo” e altrettanti “non sapevo”, insistettero sulla piena legittimità di quelle indagini, definite “ulteriori” rispetto ai compiti istituzionali del Servizio, ma non illegittime, in considerazione della discrezionalità del Servizio stesso a proposito degli strumenti da utilizzare per la difesa, anche solo preventiva, della sicurezza nazionale.

Sotto il profilo giuridico-formale la tesi ha un indubbio fondamento: il fatto è che i fascicoli spesso scomparivano senza lasciare tracce, salvo poi ricomparire all’improvviso in altre mani come arma di pressione polit ica. In questi casi tracciare una netta linea di demarcazione tra legittimo e illegittimo diventa molto difficile, così come dare una coloritura politica a questo o a quel responsabile: solo parecchi anni più tardi, ad esempio, si seppe da una lettera di Aldo Moro, prigioniero delle Brigate rosse, dell’aiuto che gli dette nel 1960 De Lorenzo, indicato come sodale di “golpisti” nel determinare la fine del Governo presieduto da Tambroni, che è quantomeno difficile includere tra i “bardi della democrazia” ….

La stessa considerazione vale per il generale Viggiani, ritenuto legato a Fanfani, il personaggio politico con il dossier forse più rilevante (tre faldoni, ciascuno del formato di due dizionari).

Altra questione ancora, totalmente diversa, è quella dei finanziamenti occulti ai partiti politici o loro esponenti: anche a questo proposito non mancano esempi; dai venti milioni di lire per cercare nel 1961 di spostare la maggioranza nel partito repubblicano della corrente di Randolfo Pacciardi a quella di Ugo La Malta, al denaro versato a esponenti socialisti schierati sul fronte della collaborazione con la D.C., finanziamenti peraltro sempre smentiti dai chiamati in causa ed almeno in un caso ammessi espressamente dal gen. De Lorenzo per motivi “segreti” (v. camera dei deputati, atti parlamentari, V legislatura, seduta del 4 maggio 1971).

E’ certo che, in base a quanto emerge dagli atti della Commissione Beolchini, la trasparenza amministrativa non poteva essere un vanto del S. I.F . A.R., tra registri andati distrutti, esigenze di segretezza e necessaria estraneità alla contabilità istituzionale delle somme versate dagli industriali italiani per la lotta contro il comunismo e riversate da uomini del Servizio, guidati dal col. Rocca, a soggetti schierati contro il “pericolo rosso”: solo con molta buona volontà si potrebbe, in questi casi, fare riferimento alla sicurezza nazionale, a meno di non ritenere che essa fosse minacciata dalla esistenza stessa del P.C.I….

E’ stato talora affermato (v. ad esempio la relazione di minoranza presentata dal sen. Mattioli a conclusione dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2) che il S.I.F.A.R. preparò surrettiziamente e favorì il passaggio dalla maggioranza centrata a quella di centrosinistra, così come la P2 tendeva a sostituire quest’ultima con una forma di governo di centrodestra.

L’affermazione si rivela quanto meno semplicistica quando si riflette sul fatto che alcuni dei fascicoli predisposti dal S.I.F. A.R. furono poi rinvenuti tra le carte della P2. In realtà a tracciare una linea di continuità tra diversi è non già un disegno politico,anche se profondamente diverso, ma di essere entrambi legati a comportamenti profondamente in contrasto con quelli richiesti in una democrazia parlamentare a persone titolari di cariche pubbliche e che alla Costituzione repubblicana giurano fedeltà al momento di assumere quelle cariche.

Non ci può essere una motivazione politica per la predisposizione di strumenti di ricatto politico che falsano la normale dialettica democratica: almeno fino agli anni ’80 ci sono stati tentativi diversi, alcuni che prevedevano la utilizzazione di metodi violenti, come nel caso di quelli riconducibili a Juno Valerio Borghese ed a Edgardo Sogno, altri fondati sullo svuotamento dall’interno delle istituzioni, come nel caso della P2 (e forse anche di Tambroni, quanto meno di una interpretazione in senso autoritario).

Sono stati tutti tentativi falliti non per volontà divina, ma in quanto talune tentazioni avventuristiche di origine statunitense riguardanti l’Italia furono bloccate da più ponderate riflessioni provenienti dalla stessa parte: un esempio in questo senso si avrà nel 1961, come a proposito della nuova maggioranza politica di centrosinistra.

Per almeno trenta anni a partire dalla nascita della Repubblica, è esistita una realtà politica formale, fatta di dibattiti in Parlamento, di scontri politici, e di alleanze tra partiti, di Governi con maggioranze parlamentari diverse e di partiti caratterizzati da contrasti interni tanto forti da portare talvolta a scissioni, in particolare nel Partito socialista, dal quale nacquero il P.S.D.I. (1947) ed il P.5.1.U.P. (196 4). Nelle stanze dei palazzi, romani e non, si svolgevano intanto vicende solo a tratti ed a distanza di anni venute almeno in parte alla luce fatte di denaro, di ricatti, di patti segreti, di interventi diretti stranieri nella vita politica del Paese: quanto nel 1967 emergerà a proposito del S.I.F.A.R., nel 19 a proposito della P2 e negli anni ’90 circa il finanziamento dei partiti politici hanno consentito l’emergere della storia sconosciuta della vita politica italiana.

Come era logico che avvenisse data la segretezza istituzionale della sua attività, largamente coperta dal segreto di Stato, il S.I.F.A.R. era un punto di riferimento obbligato di quella storia nascosta.

Nel 1953 il generale Musco fu sostituito nel comando del S.I.F.A.R. La ragione dell’allontanamento di Musco viene da taluno (M .Tedeschi, La guerra dei generali, Milano, 1968) indicata nella consegna alla C.I.A. di un dossier su Granchi nel momento in cui era candidato alla Presidenza della Repubb lica. Sembra che un altro fascicolo fosse stato intestato dal S.I.F.A.R . al suo successore De Lorenzo, e poi mostrato da Musco, irritato per la destituzione, al gen. Mancinelli, capo di Stato Maggiore della difesa, che affermò di non ricordare la circostanza.

La scelta del nuovo comandante diede luogo a vivaci contrasti anche all’interno delle Forze armate. Prevalse alla fine la candidatura di De Lorenzo, sostenuta dal Capo di Stato maggiore dell’esercito Liuzzi, accettata dal gen. Mancinelli, Capo di Stato maggiore della difesa e (sembra) sorretta dal Presidente della Repubblica Granchi.

L’allora Presidente della Repubblica fu chiamato spesso in gioco negli anni successivi a proposito dei rapporti con il S.I.F.A.R .. Offeso dall’affermazione allora diffusa dalla stampa che l’inizio delle operazioni del S.I.F.A.R. avesse coinciso con la sua elezione alla Presidenza della Repubblica, negò di aver mai chiesto al S.I.F.A.R. informazioni, né di aver mai avuto occasione di constatare l’esistenza dei controversi fascicoli. La risposta dell’ex Capo del S. I.F.A.R. Musco fu brusca: mai il servizio si era interessato sotto la sua direzione, di politica, ed i fascicoli erano allora solo circa diecimila e tutti rigorosamente legati ad operazioni di controspionaggio.

Quando ebbe il comando del S.I.F .A.R. De Lorenzo aveva 45 anni.

Giovanissimo, aveva aderito al partito nazionalista di Federzoni e aveva partecipato alla Marcia su Roma. Nel 1930 era divenuto sottotenente di artiglieria; negli anni successivi aveva prestato servizio in Libia e sul fronte russo. Rimpatriato per congelamento, dopo 1’8 settembre 1943 fece parte della formazione partigiana “Centro informazioni R” in Romagna e a Roma con la qualifica di Vice comandante. Nel 1947 fu promosso a colonnello e nel 1954 generale di brigat a. Aveva ricevuto una medaglia d’argento, tre croci al merito di guerra e il distintivo dei volontari della libertà .

La promozione a colonnello per gli stessi fatti per i quali aveva ottenuto la medaglia d’argento fu successivamente annullat a. Nel 1957 divenne generale di divisione.

De Lorenzo aveva vasti consensi ed amicizie nei partiti di sinistra, anche per la sua partecipazione alla Resistenza. Al tempo stesso aveva la fiducia degli U.S.A.: la sua candidatura al S.I.F.A.R. fu accolta favorevolmente da Carmel Offie, consigliere politico del dipartimento di Stato e collaboratore del Capo della C.I.A., Allen Dulles. L’assenso americano era indispensabile per chi, come il capo del S.I.F.A.R . era destinato a conoscere i piani più segreti della N.A.T.O..

Monarchico, era iscritto alla loggia massonica coperta dalla Gran Loggia d’Italia, di cui facevano parte anche noti uomini politici come Luigi Preti, Giuseppe Caradonna, Cesare Merzagora, Gianni Cerquetti, magistrati come Carmelo Spagnolo (testimone a Roma ed a New York a favore di Michele Sindona) industriali come Eugenio Cefis finanzieri come Enrico Cuccia, Michele Sindona il direttore generale della RAI Ettore Bernabei ed il cardinale Konig. Forse la più esatta definizione della sua personalità l’ha data Ilari (v. Ilari, Il generale col monocolo, Ancona, 1994) che lo definisce (pag. 359) uomo che “condivideva senza dubbi e riserve l’ideologia della sua classe sociale , quella medio borghese Ed in funzione di ciò modellava i suoi valori, che credeva insidiati dall’invidia proletaria, dalla perfidia consumista e dall’opportunismo democristiano”.

In un momento politico tanto difficile quale era quello della metà degli anni ’50 quando la maggioranza parlamentare centrista (D.C., P.L.I., P.S.D.I. e P.R.1.) iniziava a mostrare segni di usura, la nomina ad un incarico così delicato come la direzione dei servizi militari, che erano poi militari e civili ad un tempo per le ragioni precedentemente indicate, era quanto meno inopportuno: sarebbe stata necessaria la scelta di un estraneo alle vicende politiche che non protendesse per nessun gruppo di potere e si scelse invece un ufficiale che nella dinamica politica era inserito attraverso il suo legame con il Presidente della Repubblica Granchi che lo aveva conosciuto casualmente in occasione di una visita di Stato a Bari.

Giocò indubbiamente a favore di De Lorenzo il suo convinto e profondo anticomunismo, una caratteristica che il capo del S.I.F. A.R. non poteva non avere.

Nel 1956 infatti, come risulta da un documento statunitense (v. De Lutiis, Storia dei servizi segreti in italia, Roma, 1984) l’Italia era stata chiamata a dare attuazione al piano “Demagnetize” (smagnetizzare le menti ipnotizzate dalla propaganda comunista), stipulato nel maggio 1952 con i servizi segreti italiano e francese. Il piano fu tenuto rigorosamente segreto anche ai Governi dei due Paesi in quanto fu ritenuto che costituisse un’ingerenza nei fatti interni italiani e francesi.

Gli americani, erano particolarmente allarmati dalla confusa situazione politica in Italia. All’inizio degli anni ’60 erano molti i segnali che lasciavano intravedere un mutamento della formula politica di governo, con la fine dei governi centristi e l’inizio di una collaborazione tra democrazia cristiana e partito socialista, fino alla presidenza Kennedy tenacemente avversata.

Nel novembre J. F. Kennedy fu eletto Presidente degli Stati Uniti: la decisione della Casa Bianca fu di favorire in Italia l’apertura a sinistra, a condizione che non mutasse la politica estera del Paese. 115 giugno 1962 si svolse un incontro che ebbe esito positivo tra Nenni, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Richard Gardner e Robert Komer, assistente politico di Kennedy ed ex analista della C.I.A..

La strada sembrava ormai spianata: le difficoltà erano invece molte. Ampi settori della D.C. erano contrari: al congresso del partito del 1962 il progetto d’intesa con i socialisti sostenuto da Moro ottenne una larga maggioranza, ma importanti settori della D.C. restavano contrari ad una maggioranza parlamentare di cui i socialisti facessero parte organica.

Nello stesso anno divenne Presidente della Repubblica Antonio Segni, un conservatore proveniente dal vecchio partito popolare, professore di diritto processuale civile all’Università di Roma Segni non era uomo di grandi capacità politiche: tratto duro, scarsa capacità di comunicazione, visione schematica della politica con i buoni da una parte ed i cattivi dall’altra. Le manifestazioni di piazza erano ricorrenti: c’era chi riteneva che i comunisti, dopo il fallimento del (preteso) tentativo insurrezionale all’epoca del Governo Tambroni, sarebbero in qualche modo tornati alla carica. Il Presidente della Repubblica, con le stanze del Quirinale piene di microfoni per la registrazione dei colloqui tra Segni e le personalità politiche che incontrava, ebbe timore che si ripetessero i disordini del 1960. La situazione politica peggiorò rapidamente.

li IV Governo Fanfani fu costretto (1962) a dimettersi per dissensi con i socialisti (che facevano parte della maggioranza ma non del Governo) a proposito di una nuova legge urbanistica. Le forze, talora trasversali ai partiti, ancorate alla difesa ad oltranza della rendita fondiaria, che nell’Italia delle grandi migrazioni urbane e del boom edilizio, aveva un peso economico rilevantissimo, eressero una barriera contro una nuova disciplina delle aree fabbricabili. La situazione politica divenne molto tesa. Venne formato un Governo monocolore democristiano, presieduto dal Presidente della Camera Giovanni Leone.

La sinistra del P.S.I. uscì dal partito e diede vita al P.D.I.U.P., mentre all’interno della D.C. Moro continuava a lavorare per un nuovo governo organico di centro sinistra con Nenni Vice presidente del Consiglio e Saragat Ministro degli esteri. La destra democristiana, che aveva Scelba come suo esponente, dichiarò che avrebbe votato contro un tale governo, ma alla fine, anche per l’atteggiamento non ostile della Chiesa cattolica, mutò orientamento.

Il primo Governo Moro ottenne così la fiducia, ma la sua vita fu molto breve, dal 4 dicembre 1962 al luglio 1963, quando fu costretto a dimettersi dal voto contrario della Camera dei deputati ad un disegno di legge sul finanziamento della scuola privata.

A questo punto però non si tratta più solo di una crisi di Governo, ma era l’intero meccanismo istituzionale che minaccia di andare in crisi. Le forze politiche in campo sostanzialmente si equivalevano, mentre nessuna sembrava avere la chiave per risolvere la crisi politica in corso già da alcuni anni.

Sulla soluzione della crisi gravava pesantemente l’ombra dei servizi statunitensi, costantemente preoccupati della possibilità che il partito comunista acquistasse, magari attraverso la partecipazione dei socialisti al Governo, spazi politici che, tra l’altro, avrebbero consentito loro di conoscere i segreti dell’Alleanza atlantica, compresa la esistenza della struttura segreta “Gladio”.

Secondo una versione attendibile per la mole dei documenti consultati della vicenda (Ilari, op. cit., pag. 224) non sarebbe esatto, come sostenuto da Faenza (R. Faenza, M. Fini, Gli americani in Italia, Milano, 1976, pag. 315) che nel giugno 1962 era stato stabilito in un incontro (nel novembre 1961) tra il gen. De Lorenzo e Vernon Walters, addetto militare presso l’ambasciata americana a Roma, un accordo per programmare interventi in situazioni di emergenza: in realtà Walters in quella occasione avrebbe solo fatto rilevare il pericolo che attraverso la partecipazione al Governo i comunisti sarebbero venuti a conoscenza della dislocazione in Puglia di basi militari con armi nucleari.

Il 14 ottobre 1962, dopo la fine della Presidenza di Granchi, De Lorenzo, promosso il 2 febbraio 1961 Generale di corpo d’armata, divenne Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri ed il suo posto al S.I.F.A.R. fu preso dall’allora colonnello e poi generale Egidio Viggiani, un “fedelissimo” di De Lorenzo, che fece trasferire presso il comando generale dell’Arma un gruppo di ufficiali che erano stati suoi diretti collaboratori negli anni trascorsi al comando del Capo dell’ufficio D divenne il col. Giovanni Allavena, anche lui legato a De Lorenzo. Perché avvenne la sostituzione del capo del S.I.F.A.R.? Perché De Lorenzo ebbe il comando dell’Arma dei Carabinieri? Chi sostenne la sua candidatura, che di fatto significava una notevole espansione del suo potere? Le indicazioni in proposito sono molto vaghe. Dinanzi alla Commissione

Beolchini Andreotti, Ministro della difesa, si limitò ad illustrare le ragioni di efficienza che avevano indotto il Governo a sostituire il Comandante generale dei Carabinieri. Certo è che De Lorenzo aveva ormai acquisito grande dimestichezza con molti uomini politici di primo piano dei partiti del centro sinistra, come del resto non sarebbe potuto non avvenire per chi era a capo di una organizzazione militare al centro del potere statale, referente esclusivo per gli impegni segreti dell’Alleanza atlantica ed i rapporti con la C.I.A. al di là dello stesso Governo: i suoi membri ignoravano perfino, salvo rarissime eccezioni, l’esistenza stessa dell’organizzazione Gladio, per la quale esisteva addirittura presso il S.I.F.A.R. un apposito ufficio.

Nel luglio 1964 la gravecrisi politica fece intravedere nei poteri di cui era titolare De Lorenzo il peso capace di spostare l’ago della bilancia a favore dell’una o dell’altra parte, tra i fautori del centro sinistra e coloro che premevano invece per una soluzione autoritaria. Non era più sufficiente la guerra dei dossier, abilmente manovrati: era necessario qualcosa di più, anche per il vuoto di potere politico che si andava di fatto determinando.

Il 14 luglio Segni convocò De Lorenzo al Quirinale per un colloquio, di cui, fatto assolutamente inusitato, venne data notizia alla stampa con un comunicato ufficiale della Presidenza della Repubblica. Quale fu il contenuto del colloquio resta ancora oggi incerto. Nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta successivamente istituita, si afferma che Segni chiese a De Lorenzo ragguagli sulla possibilità di mantenere il controllo dell’ordine pubblico: la risposta di De Lorenzo fu che, allo stato dei fatti, non esistevano ragioni di particolare preoccupazione.

Tra mille difficoltà continuavano intanto le trattative di Moro che il 7 luglio era stato incaricato di formare un nuovo governo con i partiti di centro sinistra. La situazione dell’ordine pubblico continuava a destare preoccupazioni.

I centri di azione agraria, una organizzazione di estrema destra, minacciavano pesanti manifestazioni di piazza. Altre minacce venivano da Pacciardi che aveva fondato nel 1962 l’Unione popolare democratica per una nuova Repubblica per “fermare il comunismo”: secondo “fonti attendibili” l’anziano uomo politico andava preparando una sorta di marcia su Roma (Ilari, op., cit., pag. 203) o addirittura il rapimento e l’eventuale uccisione di Moro (Nuovo mondo d’oggi, 19 novembre 1967).

Il 16 luglio si svolse una riunione, indetta a quanto sembra da Rumor, segretario della D.C., a casa del democristiano Tommaso Merlino, alla quale parteciparono, oltre Rumore Moro, i presidenti dei gruppi parlamentari democristiani della Camera dei deputati e del Senato, che erano rispettivamente Zaccagnini e Gava . Alla riunione fu invitato e partecipò De Lorenzo, al quale furono richiesti ragguagli sull’ordine pubblico e sulle preannunciate manifestazioni di piazza De Lorenzo fornì, secondo quanto risulta dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, risposte rassicuranti.

A questo punto il Comandante dell’Arma dei Carabinieri aveva due possibili strade da percorrere: trincerarsi dietro una interpretazione in senso restrittivo delle sue funzioni o continuare a discutere con gli uomini politici e di Governo sulle possibili conseguenze della crisi politica in atto: scelse la seconda via, probabilmente per dimostrare di essere all’altezza di qualunque situazione.

Esisteva nel 1963 presso l’Arma dei Carabinieri un piano di difesa degli obiettivi considerati vitali, alternativo sia ai piani APAM (Assunzione Poteri Autorità Militari) predisposti dal Ministro della difesa, sia ai piani di emergenza predisposti nel 1961 dai prefetti in base a una direttiva del Capo della Polizia Angelo Vicari nella eventualità di una emergenza in cui non si potesse far conto delle forze di polizia dei carabinieri e dell’esercito.

De Lorenzo ritenne il piano di “emergenza speciale” dei carabinieri insufficiente: diede perciò ordine di redigere un nuovo piano operativo escludendo dalla pianificazione i reparti della I brigata meccanizzata, che avrebbero dovuto restare a disposizione del Comando Generale. li piano doveva prescindere dal

concorso nelle operazioni da svolgere della Polizia e dell’Esercito, pur dovendosi prendere accordi con i comandi per reperire le caserme destinate ai carabinieri richiamati. 1113 aprile 1964 il Comandante del S.I.F.A.R. (ge n. Viggiani) dispose la predisposizione di una lista di 731nominativi tratti dai fascicoli dei Servizi di persone pericolose per la sicurezza dello Stato e tutti comunisti e socialisti in quanto i fascicoli erano stati redatti in un periodo in cui il P.S.I. era ancora alleato del P.C.I.. La lista fu successivamente integrata con un’altra quarantina di nomi.

In aperto contrasto con la Costituzione era previsto che le persone indicate nelle liste in caso di pericolo avrebbero dovuto essere trasferite con mezzi aerei e navali in Sardegna (Capo Marrargiu).

li progetto, diviso in quattro parti, una per ciascuna delle zone di competenze della I, li e Ili divisione dell’Arma dei Carabinieri (Milano, centro e Napoli) ed alla città di Roma, redatta ciascuna dai Capi di Stato maggiore delle tre divisioni, per la parte di sua competenza, fu inviato al Comando generale e successivamente coordinato secondo uno schema predisposto dal te. Col. Luigi Tuccari, Capo del li reparto dello Stato maggiore dell’Arma.

li 10 maggio 1964 il piano, denominato “Solo” per motivi restati sconosciuti (l’ipotesi più probabile è che fu così definito perché doveva essere attuato solo dall’Arma dei carabinieri) finì nella cassaforte del Comando Generale. Un piano speciale – il piano DK-fu predisposto per la difesa del Quirinale ed una copia di esso fu consegnata al Presidente della Repubblica Segni, anche per tranquillizzarlo a proposito di un eventuale attacco al Quirinale.

Importante per comprendere il senso degli avvenimenti sono due testimonianze degli anni successivi di Nenni e di Moro, entrambi protagonisti di primissimo piano della vicenda .

Il 17 maggio 1967 ricordando i fatti di tre anni prima, Nenni annotò nel suo diario che “ci fu un tentativo di scavalcamento a destra del Parlamento, ma a mia conoscenza non ci furono colpi di Stato e non si fece in nessuno momento pesare sudi noi una tale minaccia”.

Nell’aprile 1978, ricordando quegli avvenimenti, Moro, prigioniero delle Brigate Rosse, scrisse nel suo memoriale che “Segni, uomo di scrupolo, ma anche fortemente ansioso, fra l’altro, per la malattia che avrebbe dovuto colpirlo di lì a poco, era fortemente preoccupato …11 Con “scarsa fiducia in Moro” … era terrorizzato dai consiglieri economici che gli agitavano lo spettro di un milione di disoccupati di lì a quattro mesi …” .
Annotò ancora Moro, riferendosi all’incontro che De Lorenzo ebbe con Segni, che “il gen. De Lorenzo evocò uno dei piani di contingenza … con l’intento soprattutto di rassicurare il Capo dello Stato e di pervenire alla soluzione della crisi” . Aggiunse Moro che “il tentativo di colpo di Stato nel ’64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare … ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente dimensionare la politica di centro sinistra. Questo obiettivo politico era perseguito d all’ on.

Segni, che questa politica aveva timidamente accettato”. Secondo Moro “il piano, su disposizione del Capo dello Stato, fu messo a punto nelle sue parti operative … che avevano preminente riferimento alla Sinistra, secondo lo spirito del tempo”.

De Lorenzo presentò al Presidente della Repubblica il piano predisposto su suo incarico mentre Segni faceva trapelare la sua intenzione di affidare ad una personalità politica “neutrale”, quale avrebbe potuto essere il Presidente del Senato Merzagora, di formare un governo tecnico per fare fronte alla grave situazione economica, denunciata in una lettera inviatagli dal Ministro del Tesoro Emilio Colombo e pubblicata sul quotidiano “Il Messaggero”. Le trattative per la formazione di un nuovo Governo subirono un arresto: il 14 luglio 1964 si arrivò a un passo dalla rottura delle trattative tra le delegazioni di D.C., P.S.D.I. e

P.S.I. . Sembra che Moro avesse affermato che il Presidente della repubblica non avrebbe mai firmato una legge che comportasse l’esproprio generalizzato dei suoli edificabili, come richiesto dai socialisti. Saragat ricordò che in un caso analogo il Presidente della Repubblica francese, Millerand, nel 1924 fu costretto alle dimissioni. Era una minaccia a Segni, per nulla velata, alla quale il Capo dello Stato rispose il giorno seguente convocando De Lorenzo al Quirinale.

Segni comunicò la visita con una nota ufficiale, un segnale forte, visto che mai i tanti incontri tra il comandante dell’Arma e Segni erano stati ufficializzati. Tuttavia il fatto ancora più inusuale avvenne il giorno seguente, il 16 luglio 1964. A casa di Tommaso Morlino, amico di Moro e politico D.C. (sarebbe diventato presidente del Senato), si incontrarono De Lorenzo, Moro, il segretario della D.C. Rumore i presidenti dei gruppi parlamentari scudocrociati, Zaccagnini e Gava.

Non si sa cosa accadde in quella riunione che De Lorenzo negò successivamente esservi stata. Sta di fatto che nella notte tra il 17 e il 18 luglio, la trattativa con i socialisti si bloccò. Nenni avvertì lo Stato maggiore del partito di aver “sentito un tintinnio di sciabole” e accettò un programma annacquato. Giolitti lasciò il ministero del Bilancio e Lombardi la direzione dell”‘Avanti”.

A fine luglio Nenni fece scrivere dal giornale del suo partito che si trattava di una scelta obbligata, perché l’alternativa “sarebbe stata un governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito”

Le indagini compiute negli anni successivi dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul S.I.F.A.R. e da quelle sulle stragi e sul terrorismo, che ha pubblicato tra l’ alt ro, per la prima volta e molti documenti sui quali era stato posto inizialmente il segreto (Camera dei deputati, Atti parlamentari, X legisl. Doc. XXIII, n.

25) consentono di fare maggiore chiarezza su taluni aspetti della questione del piano, primo fra tutti il ruolo giocato nella vicenda da Segni.

Secondo la deposizione resa dall’allora Ministro dell’interno Taviani, pretese da De Lorenzo un piano di emergenza per il mantenimento dell’ordine pubblico in caso di una svolta a destra, un pericolo che l’esperienza fatta nel 1960 con il Governo Tambroni faceva ritenere allora attuale.

E’ probabile che anche Moro fosse al corrente del piano, come si legge tra le righe del suo memoriale, e che anzi proprio la consapevolezza della gravità della situazione indusse sia Moro che Nenni, che parlò di un “tintinnare di sciabole” alludendo alla partecipazioni di militari al disegno, a trovare rapidamente un accordo. Il programma di Governo ne fu influenzato e sotto questo profilo un colpo di stato, solo fatto balenare, dal punto di vista della destra poté dirsi riuscito.

Questione del tutto diversa è se gli Stati Uniti, ed in particolare la e.I.A., fossero informati di quanto stava avvenendo . Non esiste alcun documento che consenta di fornire una prova in questo senso. Qualche dubbio può esserci circa la conoscenza del piano da parte degli uomini della C.I.A. come Angleton, legato alle organizzazione italiane di destra, che premevano per una soluzione autoritaria di tipo gollista della crisi: anche a proposito di questa conoscenza non esistono però documenti inconfutabilmente probatori.

Negli anni immediatamente successivi tutto sembrò rientrato nella normalità. Il 22 dicembre 1965, su proposta del Ministro della difesa Andreotti, De Lorenzo fu nominato capo di Stato maggiore dell’Esercito. Capo del S.I.F.A.R. sei mesi prima, dopo la morte di Viggiani, fu nominato Giuseppe Allavena, molto legato a De Lorenzo, Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri divenne il gen. Carlo Ciglieri.
Nel Consiglio dei ministri che decise la nomina di De Lorenzo non ci furono opposizioni alla candidatura. Anni dopo Ferruccio Pani testimoniò di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul S.I.F.A.R. di essere stato contrario alla nomina di De Lorenzo perché “al S.I.F.A.R. aveva servito tutte le parti, senza eccezione. Quindi era coperto a destra e a sinistra”: la nomina era stata però ineludibile in quanto era “il risultato di una trattativa tra i partiti”.

A questo punto iniziò quella che fu poi definita “la guerra dei generali”, con il Capo di Stato maggiore della difesa Giuseppe Aloia e quello dell’Esercito De Lorenzo schierati su fronti opposti, con feroci scambi di accuse riguardanti anche l’integrità personale.

Nel 1967 arrivò il momento della resa dei conti: era inevitabile che dovesse avvenire. L’attività del S.I.F.A.R . negli anni precedenti era stata quanto meno abnorme quanto al rispetto dei fini istituzionali ed il cosiddetto Piano Solo prevedeva interventi (la “enucleazione2 di persone non colpevoli di specifici reati) al di fuori di ogni specifica norma ed in aperta violazione con l’art. della Costituzione che garantisce la libertà personale .

Tutto ciò aveva indubbiamente favorito le forze politiche che per tanti anni avevano sorretto i governi centristi: era del tutto naturale che dopo la cosiddetta “apertura a sinistra” con la partecipazione dei socialisti alla maggioranza parlamentare ed al Governo del Paese, vi fosse nelle forze politiche di sinistra la preoccupazione di evitare il perpetrarsi di una situazione per esse oggettivamente svantaggiosa dal punto di vista politico.

A completare il quadro stava il fatto che non solo nella Polizia di Stato ma anche nell’Arma dei Carabinieri vi erano probabili crepe nella compattezza del personale a proposito della adesione ai partiti di centro e di destra, certamente anche per motivi del tutto personali, ma forse anche per motivazioni politiche ed ideologiche. Altro elemento da tenere presente è la esistenza nel Partito comunista di un apparato di informazione e contro informazione ed il ruolo giocato in tutta la vicenda da Ferruccio Parri, ex comandante del C.L.N. ed ex Presidente del Consiglio, una persona con molte conoscenze.

Il terremoto politico e giudiziario che seguì le prime notizie a proposito della esistenza del “piano Solo” non può essere ricondotto ad un meschino conflitto tra generali o a rancori all’interno del S.I.F.A.R. o del!’Arma dei Carabinieri: un mondo stava cambiando: si profilavano gli anni terribile delle Brigate rosse, degli attentati che costarono tante vite umane, della fine di un’epoca e dell’inizio di un lungo periodo di transizione al termine del quale ci sarà con l’inizio degli anni ’90 la fine della prima Repubblica.

Pochi dubbi dunque possono sull’origine delle notizie sui certo non encomiabili episodi venuti alla luce dell’attività del S.I.F.A.R. negli anni ’50 e ’60 ed a proposito del “piano Solo” le informazioni pervennero a giornalisti e parlamentari dall’interno del sistema ad opera di “non integrati”, qualunque ne fosse la ragione.

E’ invece da escludersi una qualche iniziativa in proposito dei servizi segreti russi: l’intervista di Lino Jannuzzi (La Repubblica, 19 giugno 2003) in cui dichiara che fu un agente dei servizi segreti sovietici a consegnargli in un bar di Roma il materiale per i suoi articoli sul S.I.F.A.R. è da ritenersi, a distanza di trentacinque anni, una provocazione.

Il Parlamento si occupò della vicenda a partire dal 31 luglio 1967, quando al Senato furono discusse ben undici interrogazioni presentate dalle opposizioni di destra e di sinistra a proposito dell’attività del S.I.F.A.R..

Il Ministro della difesa Tremelloni rispose agli interrogativi dando notizia che una Commissione di tre persone (i generali di Capo d’armata Aldo Beolchini, Presidente, ed Umberto Turrini, ed il presidente di sezione del Consiglio di Stato Andrea Lugo) avevano svolto una indagine, che restava coperta dal segreto di Stato, sull’attività svolta dal S.I.F.A .R..

Il 15 aprile successivo De Lorenzo, nominato consigliere di Stato, fu sostituito nella carica di Capo di Stato maggiore dell’Eserrcito dal gen. Guido Vedovato.

Il 2 maggio 1967 furono discusse alla Camera dei deputati altre dieci interrogazioni da parte delle opposizi oni: intervenne nel dibattito {3 maggio) Luigi Anderlini, un indipendente di sinistra, il quale affermò di aver ricevuto informazioni dirette a proposito di attività illegittime del S.I.F.A.R. di un piano per “strangolare” la democrazia.

Nelle settimane successive furono pubblicati sull’Espresso settimanale altri articoli {sette in tutto) a firma del suo direttore Eugenio Scalfari e del giornalista Lino Jannuzzi con un racconto di avvenimenti di tre anni prima, la notizia della esistenza presso il S. I.F.A .R. di liste di possibili eversori dell’ordine costituzionale da cui era stato tratto un elenco degli “enucleandi” in caso di disordini e di un piano per presidiare il Quirinale ed occupare le sedi della RAI oltre ad altre misure di sicurezza, tutte notizie fino a quel momento restate segrete.

Degno di nota è il fatto che i nomi della lista degli enucleandi è restato ignoto; originariamente la lista fu coperta dal segreto di Stato: quando sarà richiesta molti anni dopo {1990) dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, la risposta ufficiale fu che essa era andata perduta.
Molto probabilmente essa fu distrutta per un accordo intervenuto tra D.C. e P.C.I. ai tempi dell’inchiesta parlamentare sul S.I.F.A .R. per non rendere pubblici gli elementi di cui il S.I.F.A .R. disponeva a proposito della rete informativa comunista che faceva capo direttamente ad un ufficio presso la direzione del Partito: ad un accordo tra i due partiti per non andare oltre certi limiti nell’inchiesta parlamentare ha accennato in una intervista il deputato Pietro Buffone, che fu relatore di maggioranza per la D.C. al termine dell’ inchi esta.

Ad essere pesantemente chiamato in causa fu dal primo articolo apparso sull’Espresso l’allora Presidente della Repubblica Segni, al quale era succeduto {1964) Giuseppe Saragat. Segni era espressamente accusato di aver ordito un colpo di Stato: Saragat e la Presidenza del Consiglio dei Ministri il 10 maggio 1967 smentirono quelle accuse: nello stesso senso fu il giorno successivo l’intervento alla Camera dei deputati del Ministro per la riforma della pubblica amministrazione, Bertinelli.

Il 15 maggio arrivò anche la smentita del gen. De Lorenzo della riunione che si sarebbe svolta il 14 luglio 1964 con la partecipazione dello stesso De Lorenzo e degli alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri per dare attuazione al “piano Solo”.

Sorte non diversa da quella del gen. De Lorenzo ebbe il gen. Giovanni Allavena, che nel 1965 era succeduto al gen. Viggiani, defunto, nel comando del S.I.F .A.R.. Allavena, fedelissimo di De Lorenzo, il 3 giugno 1967 fu nominato Consigliere di Stato e lasciò pertanto di necessità le forze armate: fu costituito dall’ammiraglio Eugenio Henke, che Moro definisce in una lettera dal carcere brigatista a Zaccagnini “uomo di Taviani”, ma di fatto legato al P.S.D.I..

Il pretesto della sostituzione furono alcune scritte inneggianti ai corsi di ordinamento e ai “paras” apparse nella notte tra il 1° e il 2 giugno sul Lungotevere dove sarebbero passate all’alba le truppe che avrebbero partecipato alla sfilata per la festa della Repubblica .

Il 25 giugno il S.I.F .A.R. fu posto alle dirette dipendenze del Ministro della difesa e il suo nome mutato in S.I.D. (Servizio informazioni difesa).

Restava la grande incognita dei fascicoli, alcuni contenenti notizie, definite “porcherie” dalla Commissione Beolchini che li esaminò, su uomini politici di primo piano. Allavena, oltre a quelli relativi a Saragat e La Pira, si era fatto consegnare i fascicoli riguardanti Aloia, Roberto Tremelloni, Ministro della difesa, il gen. Guido Vedovato, l’ex ministro Giuseppe Romita, tre funzionari del Quirinale (l’ambasciatore Francesco Malfatti, i consiglieri Filippo Spinelli e Costantino Belluscio) la signorina Liliana Martinetti e il comandante del nucleo presidenziale carabinieri Bruno Tassoni.

Ad un esame più approfondito risultano scomparsi 25 fascicoli ordinari e 76 pratiche, oltre a 36 dei 40 fascicoli con la copertina gialla che Allavena aveva fatto predisporre in quanto di particolare importanza.

Allavena sostenne di aver distrutto tutti i fascicoli mancanti in quanto contenenti indagini estranee ai fini istituzionali dell’ex S.I.F.A.R.

A smentire la distruzione dei fascicoli il settimanale “L’Europeo” pubblicò quattro stralci del fascicolo riguardante Saragat. L’atmosfera si fece più arroventata. L’11 marzo il Ministro della difesa Tremelloni diede disposizione a De Lorenzo di recarsi nell’ufficio di Beolchini per fornire le informazioni che gli fossero richieste. Fu un colloquio che durò due giorni. Fu lasciata intravedere a De Lorenzo la possibilità di un alto incarico in cambio delle sue dimissioni: rifiutò.

De Lorenzo presentò ricorso al Consiglio di Stato contro il provvedimento di esonero peraltro con poche speranze di successo. Rientrato in servizio il 15 dicembre 1967, dopo un periodo di aspettativa, il 21 dicembre fu collocato “a disposizione”, cioè praticamente messo in pensione. li gen. Allavena, intravedendo forse all’orizzonte un provvedimento di rimozione, si dimise da Consigliere di Stato.

Il 21 maggio il settimanale “Espresso” con un articolo del direttore Scalfari insisté con un articolo intitolato “I fatti del luglio 1964- Ecco le prove”, insisté sulle responsabilità di Segni e De Lorenzo citando alcune interviste, tra le quali una del senatore Parri pubblicata nei giorni precedenti su “Astrolabio”.

li 31 luglio 1967 partì la prima querela presentata dal colonnello Filippiche si ritenne diffamato da quanto pubblicato sul settimanale a proposito della parte da lui avuta nella vicenda. li 12 ottobre successivo fu De Lorenzo a querelare Scalfari e Jannuzzi a proposito degli affermati “intrighi e complotti dell’ex comandante del S. I.F.A .R. 11 • Le due querele furono riunite per connessione. E’ da sottolineare che De Lorenzo specificò di volere tutelare la sua onorabilità e non il S.I.F.A.R.: era il segno più evidente della volontà del generale di non condividere le responsabilità di tutti gli atti del S.I.F.A.R ..

L’11 novembre 1967 iniziò il processo presso la quarta sezione del Tribunale di Roma. Sfilarono davanti ai giudici in qualità di testimoni uomini politici e generali, ma con scarsi risultati quanto all’accertamento di fatti. li tribunale decise anche di dare lettura di un rapporto inviato il 15 giugno 1967 dal gen. Giorgio Manes incaricato dal gen. Carlo Ciglieri, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, di individuare i responsabili della fuga di notizie riguardanti l’attività del S.I.F.A.R., con gli omissis apposti a garanzia del segreto di Stato, ciò che lo rendeva documento assai poco utilizzabile da parte della difesa.

li 2 febbraio 1968 il tribunale condannò Scalfari ad un anno e cinque mesi di reclusione e duecentomila lire di multa e Jannuzzi ad un anno e quattro mesi di reclusione ed alla stessa multa. Contro la sentenza gli imputati ricorsero in appello. Per evitare che fossero arrestati furono entrambi inclusi nelle liste del P.S.I. per la elezione alla Camera dei deputati ed eletti (1968).

Fu una prova in più, seppure ve ne fosse stato bisogno, del carattere politico delle accuse, dei comportamenti, delle attività svolte in quel 1964, legittime o illegittime che fossero: la polemica e le accuse dell’Espresso miravano non a colpire il S.I.F.A.R. e gli appartenenti alle Forze armate ma la destra democristiana e l’ex Presidente Segni, suo esponente.

Il 12 gennaio 1968 il Ministro della difesa Tremelloni istituì una nuova Commissione d’indagine, a proposito dei rapporti tra Arma dei Carabinieri e S.I.F . A.R.. La Commissione era presieduta dal gen. Luigi Lombardi, ex comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e composta dal generale di squadra aerea Carlo Unia e dall’ammiraglio Enrico Mirti della Valle . La Commissione il 21 giugno 1968 consegnò al ministro la propria relazione, che fu trasmessa al Parlamento senza gli allegati, pubblicati solo molti anni più tardi (v.

Commissione stragi, cit.). A De Lorenzo si faceva carico di aver mantenuto “una notevole ingerenza sul funzionamento del S.I.F.A.R.” dal 1962 al 1965, ciò che era un punto chiave dell’intera questione: era infatti dalla contiguità del S.I.F.A.R. -Arma dei Carabinieri che poteva trovare una base qualunque piano eversivo.

Era chiaro che le inchieste amministrative ed i processi non potevano fornire ulteriori elementi, specie a proposito della sorte dei fascicoli predisposti dal Servizio e soprattutto delle responsabilità politiche circa la loro utilizzazione e la predisposizione del “piano Solo”. Nel 1969 fu pertanto istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta che fu presieduta dal deputato democristiano Giuseppe Alessie che presentò la sua relazione il 15 dicembre 1970, quando erano accaduti due fatti nuovi di grande rilevanza: De Lorenzo era stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste del Partito nazionale monarchico e “L’Espresso” aveva pubblicato (9 marzo 1969) un nuovo articolo di Carlo Gregoretti che riportava la denuncia sporta dal Gen. Gaspari, ex Capo di Stato maggiore dell’Esercito, contro dodici generali, quattro colonnelli, due magistrati militari ed un Consigliere di Stato, tutti comunque coinvolti nella vicenda S.I.F.A.R. quali protagonisti o componenti delle commissioni di indagine o quali testimoni. De Lorenzo aveva querelato sia Bruno Corbi, direttore del settimanale, e Gregoretti, sia Gaspari.

Il 19 febbraio 1969 De Lorenzo, in uno dei rari discorsi pronunciati alla Camera dei deputati, durante la discussione della legge istituita dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, aveva lanciato una sfida al potere politico: ricercare la verità sui fatti che gli venivano contestati, con ciò chiamando chiaramente in causa le responsabilità della classe politica per quei fatti e più in generale per tutti i componenti del

S.I.F.A.R. dal 1949, anno della sua costituzione, in poi.

Il processo contro Gregoretti, Corbi e Gaspari si concluse nel giugno 1970 con l’assoluzione (12 maggio) degli imputati e un severo giudizio sul comportamento di De Lorenzo e sulle irregolarità nelle attività del S.I.F.A.R. .

De Lorenzo ricorse in appello contro la sentenza.

I due giudizi, quello contro Scalfari e Jannuzzi e quello contro Gregoretti, Corbi e Gaspari, furono riuniti, ma il 18 dicembre 1972, prima che il processo d’appello iniziasse, De Lorenzo, malato, ritirò la querela e la remissione fu accettata dai giornalisti e dal generale Gaspari: probabilmente si era reso conto che sarebbe prevalso il giudizio politico sulla decisione giudiziaria.

La salute di De Lorenzo, che nel 1972 era stato rieletto alla Camera dei deputati nelle liste del M.S.I., andò rapidamente peggiorando. Morì a Roma il 26 aprile 1972 e fu commemorato alla Camera dei deputati dal Presidente Sandro Pertini, che non fece alcun cenno né alle vicende del S.I.F.A.R. né a quelle del luglio 1964.

Restava la questione dei fascicoli: la Commissione d’inchiesta aveva accertato che decine di migliaia di essi non avevano alcuna attinenza con i fini istituzionali del S.I.F . A.R.. 114 maggio 1971 il Parlamento, dopo il dibattito sulla relazione della Commissione, deliberò la distruzione di quei fascicoli, ciò che però non avvenne, come rivelò la rivista “O.P.” di Mino Pecorelli nel 1974, e confermò il Ministro della difesa Andreotti il 5 luglio dello stesso anno. 119 e 10 agosto successivi 33.092 fascicoli vennero distrutti nell’inceneritore dell’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma.

Ma quelli distrutti erano effettivamente tutti i fascicoli raccolti dal S.I.F.A.R.? La Commissione Beolchini aveva accertato l’esistenza di almeno 157.000 fascicoli, ma De Lorenzo aveva dichiarato che erano di più: erano corse notizie che fossero almeno 300.000, di cui sembra ne fossero stati distrutti solo 17.000 .

L’ultimo numero di “O.P.”, uscito il giorno stesso in cui Pecorelli fu ucciso, conteneva un minuzioso rapporto in proposito di colonnello Nicola Falde, capo di un importante ufficio del S.I.F.A.R. fino al marzo 1969: certo è che fascicoli del S.I.F.A.R. continuarono a circolare, talora in fotocopia. Quelli su Saragat e Leone vennero ritrovati nella villa di Licio Gelli a Montevideo nel 1982, ma Gelli, su “Il Giornale” del 12 febbraio 1986, affermò che il suo archivio era “ancora in perfetto stato”. Nell’aprile dello stesso anno una Commissione ministeriale presieduta dal sottosegretario Gargani dispose la distruzione di altri 497 fascicoli in quanto “non pertinenti”.

Certamente vi furono deviazioni del S.I.F.A.R. dai suoi fini istituzionali. Tuttavia, al di là dei singoli episodi, la Commissione Beolchini escluse che vi fossero state deviazioni costituenti illegali, stante la indeterminatezza dei compiti affidati al S.I.F.A.R. dalle norme allora vigenti: di diverso avviso è il sen. Pellegrino nella sua relazione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi (Camera dei deputati, X legisl. Doc. XXIII).

Quanto alla utilizzazione dei fascicoli contenenti notizie personali nella polemica politica e provenienti dal

S.I.F.A.R., una decisione della procura generale presso la Corte d’appello di Roma del 1967 ha escluso il dolo nella raccolta di notizie di carattere politico, addebitata ad un eccesso di zelo in una situazione politica difficile, una decisione questa di cui è difficile la condivisione se si riflette al contorto ed incerto percorso di taluni fascicoli ed al fatto che certamente molte cose sulla utilizzazione delle notizie raccolte sono ovviamente destinate a restare avvolte nel mistero della lotta politica.

Altra e parzialmente diversa questione è quella del “piano Solo”.

In quei giorni burrascosi ci fu qualcuno che pensò di dare vita ad un colpo di Stato, da realizzarsi in modo violento, utilizzando lo schema degli interventi delle Forze armate (ed in particolare dell’Arma dei Carabinieri) delineati nel “piano Solo”, così come era stato scelto di denominare il piano predisposto dal S.I.F.A.R.? La questione è ancora oggi oggetto di vivaci dibattiti (v. da ultimo M. Segni, Il colpo di Stato del 1964, Soveria Mannelli, 2021) anche se che vi sia stata la seria minaccia di un “golpe” è stata esclusa sia dalla magistratura, che dalle inchieste parlamentari che si occuparono sotto diversi profili di quanto accadde in quei mesi.

In un Paese dove la Chiesa cattolica ha sempre esercitato grande influenza nelle determinazioni politiche, ed oggetto costante di grande attenzione da parte statunitense per la sua posizione nel bacino del mediterraneo, è difficile (se non impossibile) pensare di realizzare un colpo di Stato senza avere avuto un segnale di via libera da parte dei due grandi “supervisori” (v. in questo senso P. Mieli, Piano ” Solo” : le origini di un golpe impossibile, Nuova rivista storica, 2016).

E’ da aggiungere che ben difficilmente sarebbe stato non coinvolgere nel progetto il Ministro degli interni Paolo Emilio Taviani e Giulio Andreotti, Ministro della difesa, che nessuno ha mai affermato essere stati informati nemmeno dalla eventualità lontana di un colpo di Stato. Più probabile è che Segni, d’accordo con una parte significativa della D.C., abbia incoraggiato ed utilizzato il piano di De Lorenzo contro un alleato scomodo. Fu una intimidazione, una forzatura al dibattito politico: grazie al “tintinnio di sciabole” si convinsero i socialisti a rinunciare alle grandi riforme.

Certamente non vi fu un tentativo di colpo di Stato ma altrettanto certamente il comportamento istituzionale di Segni difficilmente potrebbe definirsi esemplare: è probabile che, se non fosse stato colpito dal male, qualcuno avrebbe chiesto la sua incriminazione per attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.)

Con la Morte di Allavena, l’ultimo capo del S.I.F.A.R., il 25 settembre 1991, non rimase più nessuno dei protagonisti della vicenda S.I.F.A.R. a raccontare la sua verità: certo è che quella vicenda si fece potentemente sentire nella storia dell’Italia degli anni successivi. Almeno da parte della figlia sono restati dubbi sulla morte del gen. Ciglieri in seguito ad un incidente st radale: fu una disgrazia o qualcosa di diverso?

In un convegno a Roma Leonid Kosolov, ex colonnello del K.g.b., il servizio segreto sovietico, ha sostenuto che il “piano Solo” fu il frutto di un’operazione di disinformazione del G.r.u., il servizio segreto militare sovietico per mettere in crisi il S.I.F.A.R. e De Lorenzo, tesi questa decisamente smentita sia da Jannuzzi,

che da Andreotti, a quei tempi Ministro della difesa, e da Francesco Cossiga, entrambi presenti al convegno (v. Corriere della Sera, 17 giugno 2003).

A difendere l’operato del Presidente Segni è restato suo figlio Mario più volte deputato e Presidente nella X legislatura del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, oggetto forse di una passione di famiglia …

Esiste un archivio privato del gen. De Lorenzo tenuto dal figlio Alessandro e dichiarato di interesse storico: non è noto il registro del suo contenuto.

Bibliografia

Giuseppe Bucciante, li Palazzo, Milano, 1989.

Antonio Cipriani – Gianni Cipriani, Sovranità limitata, Roma, 1991. Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma 1984. Roberto Faenza – Marco Fini, Gli americani in Italia, Milano, 1976. Giovanni Fasanella – Claudio Sestieri, Segreto di Stato, Torino, 2000. Claudio Gatti, Rimanga tra noi, Milano, 1991.

Virgilio Ilari, Il generale col monocolo, Ancona, 1996 . Sandro Provvisionato, misteri d’Italia, Bari, 1993.

Alessandro Sili, Malpaese, Roma, 1994 .

Edgardo Sogno, Testamento di un anticomunista, Milano, 2000.


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