SERGIO CASTELLARI

Sergio Castellari, la storia delle storie

La vicenda di Sergio Castellari, ex direttore generale al Ministero delle partecipazioni statali all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, compendia tutte le storie dell’Italia di quegli anni. Ad esaminarla da vicino c’è di tutto: politici corrotti, giudici con un comportamento quanto meno discutibile, burocrati non timidi esecutori degli ordini di ministri o sottosegretari, legittimi o meno che siano ma loro stessi a manipolarli per alimentare le casse dei partiti politici di riferimento, strane morti che con singolare regolarità avvengono quando un mistero sta per essere anche se parzialmente svelato.

Sergio Castellari, un personaggio ignoto ai non addetti ai lavori ma molto noto negli ambienti che contavano agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, poteva essere felice dei risultati raggiunti nella sua vita: ex commissario di pubblica sicurezza, aveva 62 anni, una moglie da cui era separato e due figli, Direttore generale al Ministero delle partecipazioni statali, un uomo ricco, possedeva una villa lussuosamente arredata a Sacrofano, un piccolo paese poco distante da Roma, ed aveva amici potenti che invitava alle feste che si svolgevano spesso nella villa: presso l’Archivio Storico del Senato è conservata la bozza di una lettera in cui Bettino Craxi, ex Presidente del Consiglio e segretario del P.S.I. smentisce di aver partecipato ad uno degli eventi svoltisi nella villa, come invece affermato in una cronaca giornalistica. Non smentita è la ricorrente presenza alle feste del Ministro socialista Gianni De Michelis.

Negli anni ’90 del secolo scorso il Ministero delle partecipazioni statali era sul punto di scomparire: ad esso facevano capo le grandi società di cui lo Stato deteneva il capitale azionario, come l’E.N.I., oltre alle holding pubbliche come l’ I.R.I. {Istituto per la riconversione industriale), che deteneva il capitale azionario di banche ed industrie di rilevanza nazionale, l’E.G.A.M. (Ente gestione aziende minerarie) cui facevano parte le aziende minerarie pubbliche (acque termali comprese), l’E.F.I.M. (Ente di partecipazione e finanziamento delle industrie manifatturiere) e la G.E.P.I. (Gestioni e partecipazioni industriali), in pratica gran parte dell’industria italiana, mantenuta in vita da generosi contributi pubblici anche quando le aziende erano tenacemente deficitarie.

Si trattava di un sistema organico di aiuti pubblici nettamente in contrasto con quanto stabilito nei Trattati dell’Unione Europea: un refendum (aprile 1993) espresse chiaramente la volontà dei cittadini per lo smantellamento del sistema, molto costoso per le casse pubbliche e con pesanti condizionamenti clientelari e politici, ma già da almeno due anni le forze politiche di Governo andavano elaborando la soppressione del Ministero delle partecipazioni statali, centro di imputazione governativa di quel sistema.

Dal 1988, prima nel Governo presieduto da De Mita e poi nel VI Governo presieduto da Andreotti, al vertice del Ministero era un deputato della sinistra democristiana, che il 27 luglio 1990 si dimise dalla carica, insieme ad altri ministri democristiani, in segno di protesta per l’approvazione della cosiddetta legge Mammì sulla liberalizzazione delle telecomunicazioni.

Al suo posto andò un altro deputato democristiano, Franco Piga, un consigliere di Stato di lungo corso che aveva iniziato la sua vita ministeriale quale capo dell’ufficio legislativo al Ministero dell’industria quando (1965) ne era titolare il socialdemocratico Edgardo Lami Starnuti per poi passare via via in molti ministeri sempre con incarichi di fiducia di Ministri democristiani, fino a divenire dal 1968 al 1974 capo di gabinetto del Presidente del Consiglio Mariano Rumor. Non riuscì a divenire Segretario generale della Presidenza della Repubblica quando morì Nicola Picella, che ricopriva quella carica ma l’insuccesso fu rapidamente dimenticato: divenne deputato, Presidente della Consob (l’autorità di sorveglianza del mercato azionario) e nel 1987 Ministro dell’industria nel VI Governo Fanfani. CasteIlari, con Piga, direttore generale per gli affari economici, la direzione generale più importante del Ministero, ebbe subito un ottimo rapporto. Fracanzani aveva emanato la direttiva per la privatizzazione delle aziende pubbliche.

Per quanto riguarda in particolare l’Enimont, società risultante dall’accordo stipulato nel 1988 tra l’E.N.I. e la Montedison, di proprietà del Gruppo Ferruzzi, Piga nel 1990 favorì un accordo per la fusione delle due società con il capitale azionario per il 40 per cento detenuto dal gruppo Ferruzzi, altrettanto dall’E.N.I. ed il 20 per cento rimanente nel mercato azionario: fu Castellari a predisporre per incarico di Piga la relazione in proposito, anche se una relazione con molte riserve sull’operazione: egli era infatti del parere che l’ E. N.I. avrebbe dovuto dismettere la sua partecipazione azionaria ed abbandonare la chimica.

Nel 1992, dopo la morte (26 dicembre1991) di Piga ed un breve interim del Presidente del Consiglio Andreotti, nel 1° Governo presieduto da Giuliano Amato divenne Ministro delle partecipazioni statali un altro deputato democristiano, Giuseppe Guarino, che era anche un eminente giurist a. Castellari scrisse una lettera al nuovo Ministro con le sue dimissioni a partire dal 15 settembre di quell’anno: aveva capito che a quel punto il Ministero non aveva più ragione di esistere (sarà soppresso dopo un referendum specifico l’anno successivo) e voleva trovare una diversa occupazione, esprimendo al tempo stesso il suo dissenso rispetto a quanto era stato deciso.

Quando Raul Gardini, divenuto Presidente della Montedison, vista la impossibilità di acquistare le azioni della Montedison sul mercato, per divenire socio di maggioranza, vorrà vendere all’E .N.I. quelle in possesso del Gruppo Ferruzzi, dovrà pagare a partiti ed uomini politici di governo la iperbolica somma di 150 miliardi di lire. Sergio Cusani, un dirigente del gruppo, si adoperò per trovare il denaro necessario per il pagamento: circa 140 dei miliardi necessari furono forniti da Domenico Bonifaci, un imprenditore edile romano ancora operante nel mercato e che controlla il quotidiano “Il tempo”.

Il sistema usato per reperire il denaro fu semplicissimo: vendita a Montedison di due società ad un prezzo astronomico e destinazione della plusvalenza al pagamento della maxitangente, dopo aver riciclato il denaro investendolo in certificati di credito del Tesoro e Buoni del Tesoro, parte dei quali furono convertiti in denaro versato su un conto corrente aperto presso il vaticano 1.O.R. (Istituto per le opere di religione) e riconducibile a Giulio Andreotti e parte ripartito tra altri esponenti democristiani, socialisti, liberali e repubblicani.

Gabriele Cagliari, ex presidente dell’E.N.I., inquisito dalla Procura della Repubblica di Milano, dichiarò in un interrogatorio al magistrato inquirente che dieci di quei miliardi erano destinati a Franco Piga, chiaramente per conto della D.C.: al ministro, secondo altre dichiarazioni, sarebbero andati 900 milioni ma la fondatezza delle accuse non fu mai provata: il giudice Diego Curtò che indagava in proposito dichiarerà estinto il processo per la sopravvenuta morte di Piga.

Quando la decisione intervenne l’ex ministro infatti era morto (26 dicembre 1990) in seguito ad un infarto. Il referto medico non convinse la moglie che riuscì ad ottenere ancora sei anni dopo una indagine giudiziaria sulla morte del marito ma l’istruttoria fu chiusa senza nulla di fatto. Il particolare è degno di attenzione: quella di Piga è una delle tante “morti controverse” che toccarono in sorte ad altre persone a vario titolo eccellenti raccordate in qualche modo alle maxitangenti: Raul Gardini, trovato morto “suicida” con la pistola posata sul tavolinetto accanto al letto e Gabriele Cagliari, anche lui “suicida” con la testa infilata in un sacchetto di plastica mentre era detenuto nel carcere di San Vittore a Milano. Sono i due “suicidi” più noti: all’elenco è da aggiungersi anche il “suicidio” di Sergio Castellari (ed eventualmente altri)?
E’ un enigma ancora senza soluzione, una aggrovigliata matassa difficile da dipanare.

Il pagamento della tangente venne presto a conoscenza della Procura della Repubblica di Milano nel corso di una inchiesta per tangenti pagate da una società facente capo al finanziere Pierfrancesco Pacini Battaglia: Bonifaci aveva compiuto atti formalmente legittimi da cui si potevano però trarre indicazioni su percettori finali del denaro: per impedirlo era necessario bloccare quanto prima quel ramo di indagini. Su quanto accadde a questo punto della vicenda si hanno solo poche e scarse notizie.

Le dimissioni di Castellari erano in qualche modo collegate alle indagini sulla corruzione di politici e burocrati che le procure della Repubblica di mezza Italia andavano conducendo? Non esistono documenti nell’uno e nell’altro senso, anche se sono state fatte congetture in proposito: sta per certo che non esiste alcun documento che consenta di affermarlo.

Aldo Molino, inquisito a proposito del pagamento da parte della S.A.I. (società di assicurazioni del socialista Salvatore Ligresti) per ottenere in esclusiva i contratti assicurativi dell’E.N.I. affermò che era Castellari il referente per le somme versate a favore della corrente democristiana che faceva capo a Giulio Andreotti. L’affermazione non sembra credibile: Castellari aveva simpatie socialiste e godeva in particolare dell’appoggio dell’esponente socialista Gianni De Michelis: difficile ritenere che facesse una sorta di doppio gioco.

Più verosimile ritenere che Castellari fosse informato sulle tangenti pagate ai partiti politici da tutto il sistema delle partecipazioni statali. Tra le sue carte fu trovato un fascicolo intitolato “Società segrete dei funzionari” del Ministero che non è escluso coincidessero con la individuazione di gruppi esistenti all’interno del Ministero delle partecipazioni statali in funzione della percezione di somme per comportamenti illeciti. Difficile è invece ritenere che si trattasse di logge massoniche, anche se il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo nella Gran loggia, cioè nell’Assemblea annuale, del 20 marzo 1993 annoverò Castellari tra i massoni, salvo poi smentire la sua affermazione.

In un articolo apparso sul quotidiano “Unità” (18 luglio 2008) Castellari era indicato come persona che “è a conoscenza e che partecipa attivamente al sistema” ma senza addurre alcuna prova al riguardo: degno di nota è che l’articolo era firmato da un ex magistrato, Mario Alme righi, già presidente del Tribunale di Civitavecchia che scrisse anche un lungo saggio sulla vicenda(Mario Almerighi, Suicidi?, Roma, 2011).

Certo è che Castellari aveva fatto parte dei consigli di amministrazione e del collegio sindacale di I.R.I., la holding delle partecipazioni statali nelle imprese economiche, e dell’E.F.I.M.. Dopo il collocamento a riposo ebbe dall’E.N.I., di cui era già consulente, l’offerta di presiedere la E.N.I. lnternational Holding di Amsterdam, ma la questione era restata aperta. Si ha notizia anche della sua presenza nel consiglio di amministrazione della società Sapri broker, un società operante nel settore assicurativo con ramificazioni a Malta e con dubbi contorni operativi.

Tra i documenti in suo possesso fu trovata traccia della fornitura, avvenuta tra il 1987 e l’anno successivo di uranio da parte dell’Ansaldo, società a partecipazione statale, all’Iran, violando il blocco internazionale in proposito attraverso una falsa indicazione del Paese destinatario del materiale. Altri documenti riguardavano la vendita di elicotteri Agusta al Belgio, un affare per il quale risultarono pagate tangenti, tanto da indurre al suicidio un ministro belga coinvolto nello scandalo. Risultò anche il versamento di somme a Castellari da parte dell’E.N.I., della Deutsche Bank, che era apparsa nella vendita dell’uranio, e di altre società, frutto probabilmente di varie consulenze.

Nulla del contenuto di quei documenti poteva valere ad incriminare Castellari per un qualche reato: erano solo una serie di indicazioni sulla molteplicità di relazioni con potenti gruppi industriali.

Castellari aveva anche lui partecipato’ alla spartizione delle tangenti? Dopo la sua morte fu una domanda che si posero gli inquirenti alla ricerca di eventuali somme di provenienza illecita: sul suo conto corrente furono trovati 300 milioni di lire. Possedeva inoltre la villa di Sacrofano ed una abitazione a Roma in Viale Bruno Buozzi dove abitava la moglie da cui era separato ed i figli. Alcune voci gli attribuivano proprietà negli Sati Uniti e nel Sud America, ma non fu mai trovato alcun preciso elemento in proposito: la nomina in una delle lettere scritte poco prima di morire, del figlio Giovanni a suo erede universale bloccò qualunque tentativo di risalire alla individuazione di suoi (eventuali) altri beni seguendo la via testamentaria.

Era oggettivamente un po’ pochino per ritenere Castellari un personaggio del mondo dei percettori di tangenti e di quali di esse: più semplicemente era un uomo che lavorava in quel mondo ed aveva, come molti altri burocrati un referente politico, con la conseguente attribuzione di incarichi ad alta remunerazione.

Altra e diversa questione è di quali segreti fosse a conoscenza Castellari, in particolare a proposito del mondo delle tangenti ed in particolare di quella pagata da Gardini, che ben conosceva, per la vendita delle azioni Enimont. Nessuno fino ad oggi è stato in grado di indicarlo con esattezza, anche se è probabile che qualcosa in proposito potesse dirla dal momento che aveva lui stesso preparato la relazione che aveva condotto alla Joint venture tra E.N.I. e Montedison.

Fu questa la convinzione della Procura della Repubblica di Milano che centrò la sua attenzione sui comportamenti di Gabriele Cagliari, presidente dell’E.N.I. in quel momento e di altre persone coinvolte a vario titolo nella vicenda.

1118 dicembre 1992 venne presentata alla Procura della Repubblica di Roma una denuncia contro Castellari, accusato di essere tra i percettori della tangente Enimont. Era la seconda volta: già nel 1981 Riccardo Nardelli, un funzionario del Ministero delle partecipazioni statali, aveva denunciato Castellari per traffico d’armi e per una tangente pagata da una società del gruppo E.N.I.: Castellari aveva sporto querela e l’imputato era stato assolto.

La nuova indagine fu affidata ad Ettore Torri procuratore aggiunto della Repubblica della Capitale, con la richiesta di procedere all’interrogatorio di Castellari su quei fatti. Torri affidò al vice procuratore Orazio Savia, responsabile della sezione della procura di Roma per i reati finanziari, l’incarico di interrogare Castellari che il 13 febbraio ricevette un avviso di garanzia. L’interrogatorio fu fissato per il successivo giorno 18: nel frattempo venne effettuata una perquisizione nell’abitazione di Castellari e sequestrati documenti del Ministero che Castellari asserì essere fotocopie di cui era in possesso per lo svolgimento dei suoi lavori di consulente. Tra i documenti sequestrati uno, secondo notizie giornalistiche (L’Unità, 4 marzo 1993) avrebbe riguardato la vendita da parte dell’Ansaldo e con un finanziamento della Deutsche Bank (società con cui Castellari aveva rapporti di consulenza) di materiale nucleare all’Iran.

Le sue giustificazioni non furono ritenute valide dal magistrato inquirente che procedé nei suoi confronti per il reato di violazione di custodie delle pubbliche cose: si trattava di un reato di scarsa rilevanza penale ma l’accusa convinse Castellari che si andavano profilando giorni per lui difficili anche se ancora non sapeva che Savia aveva chiesto al giudice per le indagini preliminari De Luca Comandini Un mandato di cattura nei suoi confronti.

1112 febbraio 1993 Castellari si presentò al procuratore aggiunto Torri ed affermò di essere completamente estraneo alla vicenda Enimont: il magistrato lo ascoltò e si riservò ogni decisione al riguardo.

Castellari comprese la delicatezza della situazione in cui si trovava e attraverso Carlo Zaccaria, segretario particolare di Giulio Andreotti, chiese un appuntamento all’ex Presidente del Consiglio. Perché tra i tanti uomini politici che conosceva scelse di incontrare Andreotti? Forse perché sapeva che il parlamentare democristiano era fra i percettori della maxitangente Enimont? Forse in quanto era l’uomo politico che conservava un vasto potere in tutti i settori dello Stato? O solo per avere consigli? Nessuno può dirlo.

I suoi avvocati – Luigi Di Majo e Carlo Marchiolo – si recarono dal procuratore capo della Repubblica Vittorio Mele per avere maggiori ragguagli sulla vicenda giudiziaria ma ebbero solo assicurazioni generiche. Castellari era convinto che sarebbe stato arrestato: probabilmente si era reso conto che c’era un particolare accanimento nei suoi confronti per ragioni a lui sconosciute: non si sbagliava.

Orazio Savia, il magistrato inquirente, aveva avuto già qualche problema: l’accusa era che la società “Promontorio” messa a disposizione del commercialista romano Sergio Melpignano fosse stata usata da Savia per occultare denaro ricevuto per favori illeciti da quel Domenico Bonifaci che aveva versato parte dei denari necessari per il pagamento della tangente Enimont. Era logico chiedersi se Bonifaci avrebbe di nuovo invocato l’aiuto di Savia, come era già avvenuto a proposito dei “palazzi d’oro” (vendita di immobili a prezzi molto elevati ad enti previdenziali pagando tangenti ).

Secondo quanto emerso alcuni anni più tardi, Savia avrebbe cercato di convincere il procuratore capo Mele della opportunità di richiedere il trasferimento da Milano a Roma dell’indagine sulla maxitangente argomentando del coinvolgimento in essa di Castellari: ciò avrebbe significato che i fatti costituenti reato si erano svolti nella Capitale e che quindi l’indagine giudiziaria doveva essere svolta per competenza territoriale dalla Procura della Repubblica di Roma.

Mele rinviò la sua decisione in proposito a dopo lo svolgimento delle indagini in corso ma era evidente per chi fosse al corrente dei fatti – e probabilmente CasteIlari lo era – che l’ex dirigente del Ministero delle partecipazioni statali era coinvolto in una vicenda processuale molto complessa : la prova è nelle pesanti dichiarazioni del procuratore aggiunto Torri ai giudici di Perugia che nel 1997 incriminarono Savia per avere richiesto senza una motivazione accettabile il trasferimento a Roma della indagine sulla maxitangente.

Castellari tentò l’ultima carta a sua disposizione: il 18 febbraio, giorno in cui alle 15,30 era atteso da Savia al Palazzo di giustizia per essere interrogato, si recò alle 7,30 ad un incontro con persone restate sconosciute (probabilmente le sue talpe) e poi alle 9,30 presso lo studio di Giulio Andreotti in Piazza Montecitorio per avere il colloquio richiesto. li colloquio durò circa venti minuti. L’ex Presidente del Consiglio, interrogato successivamente dai giornalisti, si limitò ad affermare che Castellari gli aveva chiesto un consiglio per il suo futuro (aveva 63 anni ed evidentemente non si sentiva ancora un pensionato) e gli aveva comunicato di aver trovato una consulenza presso l’E.N.I. e la Deutsche Bank, chiarendo che non si trattava del frutto di favori fatti precedentemente ai due gruppi.

Degno di nota il fatto che nella intervista Andreotti, riferendo il colloquio, mostra, quasi a voler lanciare un messaggio, di usare il “tu” reciproco nel dialogo con l’ex direttore generale, un privilegio che il “divo Giulio” riservava a pochi.

Dopo aver lasciato lo studio di Andreotti, CasteIlari si recò da sua moglie che riferirà di averlo visto molto preoccupato. Si diresse poi in auto verso la villa di Sacrofano. La sera precedente nel timore di essere arrestato, aveva dormito a casa dell’amico Vittorio Cavallari, ex dirigente della Finsider, una società a partecipazione statale, al quale raccontò che l’ E. N.I. acquistò le azioni Enimont pagandole almeno mille miliardi di lire in più del dovuto e che Savia lo voleva incriminare per fare trasferire a Roma l’indagine sulla maxita ngente. Da chi avesse avuto una tale informazione resta un miste ro: probabilmente disponeva di una talpa bene in formata sulle cose della giustizia a Roma.

Arrivato a Sacrofano, telefonò ad una persona restata sconosciuta chiedendo aiuto in quanto “impicciato” . Preparò una borsa con i suoi effetti personali, diede al custode della villa una busta con due assegni, uno per quattro e uno per sei milioni di lire, da consegnare al figlio Giovanni e telefonò al suo avvocato disdicendo l’appuntamento che aveva per recarsi dal sostituto procuratore Savia per essere interrogato.

Si recò a consumare un pasto molto frugale presso la vicina trattoria “Il Castagneto”, scrisse alcune lettere alla moglie, al figlio Giovanni, ad un giornalista de “L’Espresso” e ad uno de “Il mondo”, chiese alla moglie dell’amico Silvio Botta, che non trovò in casa, di provvedere ad inviarle ai destinatari e risalì nella sua auto che parcheggiò nella vicina zona della “Fontanaccia”, ai bordi di un fitto bosco: fu l’ultima cosa certa compiuta nella sua esistenza.

La moglie ed il figlio Giovanni, ricevute le lettere loro destinate, si precipitarono a Sacrofano, lo cercarono nella villa e, non trovandolo, nei dintorni, Sergio Castellari sembrava scomparso nel nulla. Sarà ritrovato cadavere sette giorni più tardi in località Monte Corvino da Mario Selis, custode della villa che però affermò successivamente di non essere stato lui a trovare per primo il cadavere: è l’inizio di una vicenda ancora per molti aspetti oscura, a cominciare proprio dal ritrovamento del corpo.

La zona era stata ispezionata per alcuni giorni, un elicottero aveva sorvolato ripetutamente il campo di grano (privo di vegetazione salvo qualche raro cespuglio) in cui il corpo fu stato ritrovato ma le ricerche si erano dimostrate vane fino al giorno 25, sette giorni dopo la scomparsa.

li terreno intorno era molle per la pioggia ma non vi erano impront e. L’autovettura di Castellari era parcheggiata all’inizio di una stradina di terra battuta e nessuno sembrò averla notata. La denuncia di scomparsa da parte dei familiari dell’ex direttore generale avvenne il 20 febbraio, due giorni dopo l’incontro con Andreotti forse in quanto la famiglia aveva ritenuto che Castellari si trovasse a Formello e fosse molto occupato.

Quando lo ritrovarono il corpo giaceva con la schiena a terra, le gambe incrociate, il braccio sinistro piegato sul petto ed il destro allungato sul terreno, con la mano aperta e le dita leggermente piegate. Tra le gambe c’era un mozzicone di sigaro e vicino al cadavere una bottiglia di whisky semivuota e dritta sul terreno.

Nella cintura dei pantaloni era infilata una pistola a tamburo: erano stati sparati due proiettili e mancava un bossolo. li volto del cadavere era quasi interamente devastato e dalla mano sinistra mancavano due dita. li riconoscimento avvenne attraverso l’arcata dentaria ed i documenti. Accanto al cadavere venne ritrovato un biglietto in cui era scritto a mano “Non desidero che nessuno tranne me ed i miei familiari sia presente ai miei funerali. Voglio essere tumulato a Sacrofano”. Quel “me” in più sarà ritenuto frutto di una macabra ironia.

Le domande che gli inquirenti si posero furono molte: dove era finito il bossolo mancante? Come poteva un suicida che si era ucciso con un colpo alla testa infilare poi la pistola nella cintura dei pantaloni con il cane del grilletto abbassato, pronta per sparare? Come era possibile che sulla bottiglia mezza vuota non ci fossero impronte digitali, nemmeno quelle del morto? Come mai il mozzicone di sigaro aveva tracce di saliva certamente di una donna? Furono tutte domande, compresa quella forse più importante circa i ritardi nel ritrovamento del corpo, che resteranno senza una risposta esauriente.

Per quanto riguardava l’assenza di impronte sulla bottiglia la motivazione data dagli inquirenti fu piuttosto improbabile: qualcuno aveva trovato la bottiglia, aveva bevuto parte del suo contenuto e poi, per eliminare ogni traccia del suo atto, aveva cancellato le impronte digitali in modo che fosse impossibile risalire a lui. Per il sigaro la motivazione fu analoga: qualcuno – questa volta sicuramente una donna – aveva tentato di fumarlo.

Il biglietto trovato accanto al cadavere sembrava eliminare ogni possibile dubbio: Castellari si era suicidato in quanto si sentiva ormai preso tra gli ingranaggi della macchina giudiziaria che indagava sulla maxitangente E.N.I. – Montedison.

Una volta arrivati a questa conclusione, tutti i tasselli sembravano tornare al loro posto: gli animali selvaggi, nei sette giorni in cui il cadavere era restato nel terreno, avevano fatto ciò che è nella loro natura. Castellari negli ultimi tempi era molto depresso, convinto che a breve scadenza sarebbe stato arrestato, come era già accaduto per altri personaggi coinvolti nella stessa indagine, l’incontro con Andreotti (ma probabilmente anche con altri personaggi politici restati nell’ombra) l’aveva portato a concludere che non poteva sperare in alcun aiuto da quella sponda.

Tutto logico, tutto chiaro, tutto conforme ad uno schema credibile della vicenda, anche se restavano alcuni interrogativi non di secondaria importanza che non ebbero mai risposte esaurienti primo fra tutti quello della pistola infilata nella cintura. I periti diedero una risposta scientifica al quesito affermando che era possibile che fosse stato lo stesso suicida a fare quel gesto, cosa piuttosto improbabile dopo che il proiettile aveva passato il cranio da parte a parte. Il bossolo mancante poteva essere stato allontanato dal cadavere dagli animali che si erano avvicinati al morto.

Il magistrato Davide lori, al termine delle indagini concluse che si era trattato di suicidio-omicidio: qualcuno aveva rinvenuto il cadavere ed aveva manipolato la scena in modo che si potesse pensare ad un omicidio. Sembra una affermazione assurda, priva di qualunque logica: è invece, alla luce degli avvenimenti successivi, una ipotesi da non scartare.

C’era, ad esempio, il fatto che la pistola, una Smith & Wesson a tamburo, ritrovata infilata nella cintura, aveva il tamburo con vuota la camera corrispondente al cane alzato a destra del bossolo del proiettile esploso e non a sinistra, come sarebbe dovuto accadere, fatto spiegabile solo ipotizzando che qualcuno avesse fatto girare il tamburo stesso in modo errato, non essendo a conoscenza del fatto che in quel tipo di arma la rotazione avviene in senso contrario rispetto alle armi analoghe.

Malgrado la pioggia, i vestiti del morto erano in ordine, intorno al cadavere non vi erano tracce di animali selvatici, le suole delle scarpe erano pulite pur essendo il terreno circostante melmoso: troppi i dati in contrasto con la ipotesi del suicidio.

Qualcuno avanzò timidamente una tesi: forse si trattava effettivamente di un suicidio, magari avvenuto altrove, e qualcuno, per motivi restati ignoti, aveva spostato il cadavere e lasciato tracce che potevano fare pensare ad un omicidio. Forse poteva trattarsi di un oscuro messaggio, forse non erano stati gli animali selvaggi a deturpare il viso ma qualcuno lo aveva fatto deliberatamente per rendere il cadavere non identificabile, quanto meno rapidamente, forse addirittura per rendere irriconoscibile un cadavere che non era quello di Castellari, fuggito all’estero.

Tutte ipotesi, tutte suggestioni variamente credibili: di sicuro stava il fatto che Castellari era morto e con lui erano state cancellate tutte le notizie che avrebbe potuto fornire sulla vicenda della maxitangente e su chi ne aveva profittato. In una intervista (La Repubblica, 3 giugno 1997) il figlio Giovanni arrivò addirittura a dichiarare che tutto il clamore seguito alla morte di suo padre era dovuto alla volontà di “fare dimenticare i veri motivi” di quella morte.

D’altra parte se si fosse trattato solo del suicidio di una persona preoccupata per il suo futuro, che senso avrebbe l’incursione compiuta da ignoti nell’obitorio di Orbassano (27 agosto 1994) dove erano conservati i reperti del corpo di Castellari riesumato qualche settimana prima e che i periti stavano esaminando: in quella occasione scomparvero quattro dei sei frammenti di proiettile rinvenuti dopo la prima autopsia, particolare non di poca importanza dato che i fori sul cranio facevano dubitare, in quanto piuttosto piccoli, che potessero essere stati prodotti dalla pistola calibro 38 rinvenuta sul cadavere e ritenuta essere l’arma usata da Castellari per suicidarsi.

Quella pistola era spesso usata da lui per sparare a barattoli vuoti: nel caricatore aveva cinque proiettili, o solo quattro, caso in cui non sarebbe risultato mancante alcun bossolo accanto al cadavere? Ad avviso del custode della villa i proiettili erano solo quattro, ma la sua testimonianza in alcuni punti lasciava qualche dubbio. Le lettere scritte da Castellari al tavolo del ristorante il giorno della scomparsa – tre ai familiari e due a riviste settimanali – sembravano d’altra parte eliminare ogni dubbio a proposito del suicidio. Le lettere ai familiari, successivamente rese note nei contenuti, contengono espressioni di affetto e volontà testamentarie.

Quella al settimanale “Il mondo”, pubblicata sul quotidiano “Unità” (2 marzo 1993} contiene affermazioni molto gravi “Due distinte fonti – scriveva Castellari – una delle quali i miei avvocati, mi hanno rappresentato concordemente che il sost it ut o procuratore Savia chiedeva che io mi presentassi a lui per denunciare un qualsiasi significativo episodio delittuoso delle tangenti nelle partecipazioni statali che, dopo tanti anni di lavoro nel sistema, non potevo non conoscere.

L’episodio poteva riguardare i socialisti, ai quali io ero vicino, ma al limite anche altri settori politici. Nel caso non avessi accettato la sua proposta, il sostituto procuratore Savia, pur riconoscendo che gli accertamenti condotti nei miei confronti non facevano emergere fatti gravi penalmente rilevanti, avrebbe dato corso al mandato di cattura già firmato nei miei confronti, pur non potendo io occultare prove o elementi rilevanti ai fini delle indagini in corso nei miei confronti. Intendo denunciare l’ingiustizia e respingere il ricatto del Dott. Savia perché mi si chiede di compiere un’azione abietta e vile, quale che sia il settore politico coinvolto, ed anche perché non ho elementi concreti per denunciare episodi delittuosi: non posso accettare di barattare la mia libertà con la mia dignità … non posso accettare di essere inquisito da organi e persone di cui è nota l’acquiescenza e connivenza al sistema e la diretta profonda corruzione”.

E’ probabile che la richiesta – se vi fu – di informazioni si riferisse principalmente alle indagini nei confronti di Gabriele Cagliari, sul quale indagava la Procura di Milano e che sarà arrestato alcuni giorni dopo (8 marzo 1993} anche se la formula ampia usata (“tangenti nelle partecipazioni statali”} può fare pensare ad altri filoni di indagine. Degno di nota è anche il fatto che Castellari nella sua lettera parla di due sue fonti informative, una delle quali era costituita dai suoi avvocati: chi era l’altra fonte? C’era una talpa nella Procura della Repubblica di Roma? Tutto lascia ritenerlo, anche se non è mai emerso alcun elemento per la sua (eventuale) identificazione.

Lo stesso giornale, in calce alla lettera di Castellari, pubblicò una intervista al procuratore capo della Repubblica Vittorio Mele che definì Savia “un sostituto limpidissimo”, affermò che il mandato di cattura nei confronti di Castellari non esisteva più (infatti il giudice per le indagini preliminari non l’aveva concesso) e per scagionare ulteriormente Savia dalle accuse rivoltegli, sottolineò che le indagini nei confronti di Castellari erano state aperte dal vice procuratore della Repubblica Torri “che poi si è rivolto a Savia”.

L’indagine giudiziaria sulla maxitangente non fu trasferita a Roma: continuò ad essere svolta dalla Procura della Repubblica di Milano e si concluse con il processo presso il Tribunale della città e la relativa sentenza di condanna dei molti imputati.

Nessun complotto, nessun fine recondito nelle indagini, tutto assolutamente secondo le regole: Erno Danesi, ex deputato democristiano, si dimostrava certamente male informato quando in una intercettazione telefonica successiva, diceva a Pacini Battaglia, anche lui coinvolto nelle indagini per la maxitangente per il filone socialista “Savia è incazzato. Dice che se Bonifacio e Cragnotti gli avessero ammesso qualcosa a quest’ora lui avrebbe potuto chiudere il processo, che Cagliari era vivo e che Di Pietro non avrebbe potuto fare niente”…

Non è da escludere che effettivamente Castellari sapesse molte cose a proposito della trattativa relativa alla vicenda della Enimont: nella sua lettera a “Il mondo” parla di un ricatto al quale non vuole sottostare ma non nega la possibile esistenza del progetto del ricatto stesso. La lettera lascia però ritenere che gli elementi d’accusa nei suoi confronti in possesso della Procura della Repubblica di Roma fossero piuttosto scarsi mentre la telefonata di Danesi sembra confermare la esistenza di un tentativo di fare trasferire l’indagine sulla maxitangente dalla Procura della Repubblica di Milano a quella di Roma.

La vicenda di cui fu protagonista Castellari è una sorta di scoglio che emerge da un mare limaccioso che lascia intravedere poco e niente di quello che si trova sotto la sua superficie: la riprova è in un dossier del S.I.S.DE., il servizio segreto civile, fatto pervenire ad un quotidiano romano nel 1994 compilato con elementi tratti dal Centro di documentazione automatica del Ministero degli interni (v. Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, Xlii Legislatura, doc. XXXIV, n. 1) e contenente note diffamatorie nei confronti di ex ministri e parlamentari: perché e da chi il dossier sia stato predisposto e diffuso è restato un mistero. Il direttore del S.I.S.DE. Domenico Salazar dichiarò che il dossier non era stato predisposto dal Servizio da lui diretto ma resta il fatto che alcuni dei suoi elementi erano tratti da una fonte riservata. Nel documento si parla fra l’altro di incontri di Castellari con Massimo D’Alema e Achille Occhetto: era un tentativo di coinvolgere i comunisti nella vicenda delle tangenti? Mistero dei misteri: ormai è passato tanto tempo e nessuno sembra avere più interesse a ricordare vecchie storie.

La realtà è che di tutta la vicenda della tangente Enimont si conosce molto meno di quanto si è ritenuto: recentemente, ad esempio, l’ex sostituto procuratore Di Pietro, che svolse un ruolo di primo piano in quella indagine, ha affermato nella sua deposizione come teste della difesa nel processo a carico del gen. Mario Mori, ex direttore del S.I.S.DE. (i servizi segreti civili) che avrebbero partecipato alla spartizione della maxitangente Enimont anche politici siciliani collusi con la mafia.

Tutto può essere accaduto in quel periodo, anche che un suicidio come con ogni probabilità fu quello di CasteIlari, sia stato fatto apparire un omicidio da persone che avevano interesse a lanciare un messaggio preciso: chi non fa attenzione a ciò che dice può fare la fine di Castellari. Un suicidio mascherato da omicidio: le conclusioni del magistrato inquirente sulla vicenda sono meno peregrine di quanto possa a prima vista ritenersi. Tra l’altro troverebbe adeguata motivazione il ricordato dossier del S.I.S.DE. dichiarato falso: qualcuno aveva interesse a fare ritenere Castellari colpevole di reati per poi costruire il suo preteso omicidio ed utilizzarlo come monito verso chi fosse in possesso di informazioni sulle tangenti?

Se ci si colloca da questo angolo visuale non si può nemmeno escludere che il suicidio sia avvenuto in luogo diverso da quello in cui sarà ritrovato il cadavere, magari in un posto emblematico per Castellari, come poteva essere ad esempio lo spazio circostante il Palazzo di Giustizia di Roma: ne sarebbe derivata la necessità per i contro interessati di trasferire il cadavere “costruendo” il contesto di un omicidio quale avvertimento per chi sapeva qualcosa che doveva restare segreta: armi, petrolio, tangenti o altro che fosse.

Restano, a favore della tesi del suicidio, le lettere scritte alla moglie ed ai giornali nelle ultime ore della sua esistenza che sembrano lasciare pensare alla sua volontà di mettere fine alla sua vita: perché non ritenere invece che volesse solo eclissarsi e che fu ucciso perché da vivo poteva pur sempre rappresentare un pericolo per ciò di cui era a conoscenza?

La vicenda ebbe comunque echi negli anni successivi. Orazio Savia, si dimise dalla magistratura nel 1997, accusato dai magistrati di Perugia di aver ricevuto cento milioni in C.C.T. della maxitangente: il 16 luglio 2000 fu condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione con la condizionale; alcuni reati furono successivamente dichiarati prescritti. Oggi Savia esercita la professione di avvocato ed è presidente del consiglio di amministrazione della società editrice del quotidiano “Il tempo” di cui Domenico Bonifaci

detiene la maggioranza azionaria. Anche Vittorio Mele, divenuto procuratore generale della Corte d’appello di Roma, si dimise dalla magistratura nel luglio 1998, alla vigilia di un trasferimento per “incompatibilità funzionale” accusato di aver accettato regali consistenti da un imprenditore pugliese . E’ morto a Napoli nel 2017 . Del “suicidio” di Gabriele Cagliari (20 luglio 1993) e di Raul Gardini (23 luglio 1993) si è detto all’inizio . Castellari fu il primo della serie ma non è da escludersi che la lista sia stata più lunga di quanto si ritiene: erano tempi difficili.

Bibliografia

Almerighi Mario, Suicidi?, Roma, 2011

Barbacetto Gianni, Gomez Peter, Travaglio Marco, Mani pulite 25 anni dopo, Milano, 2014 Di Pietro Antonio, Intervista su Tangentopoli, Bari, 2000

Pacelli Mario, Dossier Andreotti, Roma, 2013


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