LE PAROLE DELLA POLITICA NON SONO PIETRE

L’attività politica è fatta di azioni, ma anche, e forse soprattutto, di parole: è con le parole infatti che si cerca di aggregare nella società il consenso a proposito delle cose da fare, degli obiettivi da raggiungere, di ciò che occorre modificare per rendere migliore la condizione dei cittadini e dei gruppi sociali. Le parole più usate ormai da secoli sono più o meno sempre le stesse: destra, sinistra, riformisti, conservatori, talvolta progressisti, sulle orme della tradizione illuministica, un tempo repubblicani (oggi, almeno nel nostro paese, lo siamo tutti magari con qualche monarchico più per nostalgia della gioventù che per convinzione).

Le parole sono sempre le stesse ma spesso diverso è il significato loro attribuito, ben lungi dall’essere le pietre di cui parlava Carlo Levi. Basta leggere un pezzo di dizionario della politica, quello di Gino Pallotta “Dizionario della politica” scritto nel 1965 e quello di Giampaolo Calchi Novati “Dizionario dei termini politici” edito nel 1971 per rendersi conto che quel significato deriva non solo dalle convinzioni politiche degli autori ma anche in funzione del mutare delle condizioni politico-istituzionali e delle situazioni interne ed internazionali storicamente variabili.

Al tempo stesso entrano in uso altri termini definitori da un gruppo sociale che si propone finalità politiche: si pensi solo al termine “movimento” che contrassegna solitamente un gruppo sociale non strutturato (o con un minimo di strutture fisse) unito da una comunanza di idee sulle cose da fare per modificare situazioni politiche e sociali esistenti.
Altro termine di uso recente è quello di “centro” per indicare un gruppo politico che si colloca a metà strada tra conservatori e riformisti: una volta si definivano moderati intendendo con questo riferirsi alle loro solo parziale condivisione dei programmi politici dei due schieramenti contrapposti. Dopo la seconda guerra mondiale nacquero partiti politici come la DC che fecero del moderatismo la base del loro programma politico conseguenza quasi naturale del solidarismo cattolico nel senso che la solidarietà tra individui o tra gruppi sociali garantisce per i cattolici il contemperamento di interessi anche contrapposti.

“Centro” dunque, salvo che per la DC (quando esisteva) costituisce un presupposto programmatico, una definizione residuale, che riunisce soggetti politici che non consentono in via pregiudiziale sulla conservazione della situazione esistente ma che al tempo stesso sono convinti che esso non vada troppo modificato:ciò spiega perché più gruppi politici – movimenti o partiti – si dichiarano di centro pur nella diversità dei programmi politici e degli obiettivi perseguiti.

Conservatore o riformista, definizioni cariche per almeno un paio di secoli di passioni politiche sono divenute anch’essi termini che coprono realtà politiche molto diverse perché non consentono, al di là del termine usato, di avere certezze su cosa si vuole conservare o riformare. Sotto queste etichette si celano infatti realtà programmatiche molto diverse, tanto che spesso si definiscono riformisti anche i conservatori che sollecitano riforme per riposizionare situazioni storicamente superate e conservatori quei riformisti che vorrebbero conservare almeno alcune delle spesso faticosamente conquistate riforme, prima fra tutti la democrazia parlamentare. Difficoltà ancora maggiori sussistono a proposito della identificazione dei confini della destra e della sinistra politica.

Nate dallo schema parlamentare inglese, in cui nella Camera dei Comuni i conservatori seggono su banchi alla destra dello speaker (il nostro presidente di assemblea) ed i riformisti a sinistra, la distinzione è andata via via perdendo gran parte del suo significato originario di due blocchi di forze politiche contrapposte per l’emergere di gruppi politici organizzati o meno di partiti differenziati sia tra i conservatori che fra i riformisti.
Un contributo alla perdita delle connotazioni iniziali in particolare della sinistra è venuto anche dalla mutata situazione storico-politica: molti obiettivi dei riformisti sono stati raggiunti mentre altri sono ben lontano dall’esserlo, come il concreto riconoscimento dei diritti di cui parlava nel secolo scorso Roosevelt e che sono sanciti nella Costituzione repubblicana, come quello della libertà dal bisogno che significa diritto al lavoro, alla salute, all’ambiente, accanto ai tradizionali diritti di libertà di parola, di pensiero, di stampa, di religione. Al tempo stesso destra non significa ovviamente più difesa di privilegi di casta ma mantenimento di un assetto sociale ed economico che consenta il persistere degli equilibri economici e politici tradizionali con le aperture al nuovo strettamente necessario perchè tutto cambi affinché tutto resti come prima secondo una mentalità gattopardesca non facile da sconfiggere.

Forse delle quattro libertà fondamentali che indicava Roosevelt quella più attuale è la libertà dalla paura che significa non deprimersi per gli insuccessi e confidare nel futuro: la storia insegna che ci vuole tempo ma il mondo cammina sulle gambe degli uomini. Certamente oggi l’Italia sarebbe un paese più europeo senza l’interruzione del cammino su questa strada iniziato nel 1945 ed interrotto bruscamente all’inizio degli anni ‘90: quella strada è stata negli anni successivi via via trasformata in una serie di sentieri che non conducono da nessuna parte anche perché i cartelli stradali indicatori servono spesso a dare la illusoria convinzione che percorrendo quelle vie sassose si arrivi davvero in qualche posto.

Gli individui l’hanno ormai compreso e non vanno più a votare rifiutandosi di asseverare con il loro voto un tal modo di procedere. L’astensionismo è reazione ad una emarginazione politica sostanziale in quanto la proposta politica è fatta di parole svuotate di contenuti programmatici e non riesce più ad aggregare il consenso di molti cittadini elettori che si attenderebbero di essere chiamati alla realizzazione di un programma, al perseguimento di una finalità di interesse degli individui e dei gruppi sociali. Se non ci sono queste premesse è difficile, molto difficile, che tornino ad esercitare il loro diritto di voto.

Durante il dibattito dall’Assemblea Costituente per la stesura della Costituzione repubblicana si discusse a lungo se l’esercizio del diritto di voto dovesse essere obbligatorio con sanzioni penali per chi non lo avesse esercitato: prevalse la tesi di definirlo dovere civico (art. 48, secondo comma) affinché votare continuasse ad essere un esercizio di diritti di libertà mai pensando, nel clima appassionato dell’epoca, che quasi 80 anni dopo sarebbe divenuta inconsistente la premessa per esprimere la propria convinzione politica venendo a mancare i necessari punti di riferimento politico programmatici. Era impensabile l’attuale dicotomia tra Stato-istituzione e Stato-comunità: le motivazioni possono essere tante ma su di essa primeggia quella di una politica qualitativamente troppo povera, priva di contenuti, con troppe parole ripetute anche se prive del loro significato originario. La risposta all’assenteismo può venire solo da una politica di livello più elevato di programmi e di intenti: sarà una battaglia lunga e difficile.

A confermarlo sta quanto recentemente è avvenuto a Montecitorio: dove è stato presentato e poi ritirato un emendamento alla legge elettorale comunale tendente ad eliminare il ballottaggio nella elezione dei sindaci assegnando la carica al candidato avente la maggioranza dei voti al primo turno elettorale.

Chiaro l’intento: evitare che al secondo turno una coalizione di area possa sconfiggere il candidato del partito che oggi ha maggiori consensi elettorali e che confida che sarà così anche nel prossimo futuro. Manca poco a che si chieda agli elettori solo che dichiarino con il proprio voto se consentono sulla scelta del candidato unico designato dal partito, sulla scia della legge Acerbo del 1929. Acerbo, barone abruzzese, ricco proprietario terriero, di leggi elettorali ne sapeva pochino: si affidò al maggiore esperto di sistemi elettorali del tempo e passò alla storia come colui che aveva ideato un meccanismo elettorale sicuro per legittimare nel 1929 il potere di chi lo aveva conquistato da qualche anno e che intendeva mantenerlo, a prescindere da eventuali tentazioni elettorali in senso diverso.

E’ questa l’aria che tira: non è certamente tale da incoraggiare gli elettori, in presenza del permanente vuoto di idee e di programmi, a recarsi alle urne, cedendo ad un troppo facile rassegnazione. A Roma in una simile situazione si dice “damoce ‘na mossa”.


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