FIGLI DI FOMO

“Fomo” è l’acronimo di una delle caratteristiche fondanti della specie umana, anzi forse di quella più fondante di tutte.

Dentro di esso si nasconde “Fear Of Missing Out”, vale a dire, nella nostra lingua, la paura di essere esclusi.

Si tratta di un sentimento che nessuno potrà mai negare di avere provato.

Dalla nascita in poi ogni essere umano ha vissuto l’ipotesi di restare escluso dal contesto che lo circonda con angoscia e timore.

Che si sia trattato nel corso dello scorrere dell’esistenza del pianto del neonato che chiede attenzione piuttosto che della recluta che subisce la violenza dei riti di accettazione per non restare escluso dal mondo in cui è entrato, poco importa,

Il Fomo è alla base di entrambi i momenti.

O, meglio, determina i processi di apprendimento e formazione che si codificano caso per caso ma sempre alla luce di un principio iniziale che ci accompagna sino alla fine.

Naturalmente non sempre questo primissimo imprinting determina risultati positivi o comunque non distruttivi.

Il dolore dell’adolescente che si sente irreparabilmente escluso dalla famiglia o dal contesto sociale può sfociare (e spesso sfocia) in comportamenti violenti o distruttivi.

Ancora, il bisogno di non essere esclusi può facilmente spingere verso contesti che appaiono più disponibili alla accettazione ma che operano per fini sbagliati o sono comunque in grado di sfruttare la debolezza iniziale di chi vi si rivolge con l’obiettivo di condividere ed essere condivisi.

Ma tant’è. Almeno da Aristotele in poi abbiamo elaborato questa specificità della condizione umana accettando sino in fondo la sua definizione dell’uomo come essere sociale, inscindibilmente legato (salvo casi di espressa malvagità) alla Comunità che ha intorno e tendenzialmente allo Stato che il filosofo considerava come portatore del bene comune.

Si deve aggiungere che il riconoscere questa obbligatoria predisposizione alla socialità portava anche la nostra specie a rintracciare una qualche continuità e distinzione rispetto alle altre specie viventi sulla Terra. Che fossero le api o i cinghiali, le rondini o gli scimpanzé poco importava.

L’importante era (ed è) riconoscere che la vita pare comunque fondarsi su una rete di rapporti da cui non si vuole essere esclusi.

La sostanziale differenza rispetto alle altre specie animali è però che il contesto da cui non si vuole restare esclusi è storicamente mutevole ma, soprattutto, è opera dell’uomo stesso.

La Storia della Umanità appare caratterizzata dalla costante modificazione del contesto di riferimento di cui si vuol continuare a far parte e dalla sua crescente estensione.

Se ci proiettiamo, per quanto possibile, verso un nostro progenitore agli esordi dell’Homo Sapiens possiamo facilmente ritenere che il branco da cui non voleva e non poteva essere escluso assommasse al massimo qualche decina di individui.

E in fondo, se ci pensiamo bene, sino a poche decine di anni fa la grande maggioranza delle persone fondava il proprio riferimento personale su piccole comunità di villaggio o di quartiere.

Più ampiamente vi era la Regione, lo Stato, la Nazione. A queste dimensioni più vaste si aderiva comunque attraverso delle realtà minori.

In effetti, la paura di non essere “inclusi” riguardava sempre ambiti che, a loro volta, dovevano non soltanto accoglierti ma soprattutto conoscerti direttamente.

Anche l’adesione a grandi strutture, come per esempio la Chiesa di Roma, e l’inclusione successiva avvenivano attraverso strutture parziali ma rappresentative come la Parrocchia.

Poche volte gli uomini paiono avere sognato una inclusione assoluta e generale, basata soltanto sulla comune appartenenza alla specie umana.

Forse soltanto, o quasi, in qualche coraggiosa teorizzazione anarchica “Lotto col popolo, mia casa è il mondo” che attribuiva all’Umanità una indistinta capacità di accoglienza e considerava negativamente i confini e i limiti di appartenenza.

Purtroppo, a posteriori, queste speranze universalistiche non sembrano essersi realizzate o avere comunque dato qualche risultato.

Nel corso dei millenni Fomo, la paura di venire esclusi, ha continuato a colorare di sé la vita degli uomini che hanno continuato di conseguenza a desiderare di essere riconosciuti e accettati negli ambiti con i quali entravano in contatto nel corso della esistenza

Tutto è bruscamente cambiato non molto tempo fa.

Si è costituita, come ben sappiamo, una immensa e sterminata umanità virtuale, quella che Maurizio Ferraris denomina come “documanità”.

Essa è basata sui messaggi (i “documenti”, appunto) che ognuno inserisce volente o nolente con ogni atto della sua esistenza anche non proiettato direttamente sulla Rete.

Di colpo, al singolo essere umano, si è spalancato un universo nel quale essere riconosciuto e accettato.

Accanto alla ristretta esistenza materiale si è palesata un’altra dimensione. Una dimensione apparentemente molto più libera e fluida di quella abituale sinora.

Essa sembra offrire due possibilità nuove all’individuo oppresso, sinora, dal Fomo.

In primo luogo quella di creare una immagine (e di conseguenza una percezione) di se stesso lontana dai condizionamenti precedenti.

I difetti e le incongruenze di una vita possono essere rimossi dalla immagine di se stesso che ciascuno può costruire e proporre.

Il nuovo me stesso può essere ben lontano dai limiti fisici e psicologici del precedente me stesso, che continua a vivere in una realtà limitata e talvolta sgradevole.

Può essere accettato nel nuovo mondo senza dover mai rendere conto della preesistente realtà materiale.

Può anche pensare che gli altri partecipanti abbiano anch’essi prodotto dei simulacri virtuali ma si tratta di una cosa che lascia totalmente indifferenti.

Il nuovo mondo si presenta come sfera della libertà dove ognuno è, nel bene e nel male, quello che vorrebbe essere.

Il secondo atout che il nuovo contesto offre a chi sceglie di cercare in esso il proprio diritto ad essere riconosciuto è che, in apparenza, egli può determinare e creare le caratteristiche del nuovo universo.

Ciò sembra avvenire per volontà divina.

Appena l’algoritmo centrale legge una tua propensione in una qualche direzione, immediatamente inizia a proporti documenti collegati a quell’interesse.

Appena rileva un contatto telefonico (magari casuale) immediatamente ti presenta la possibilità di entrare in contatto tramite social con quella persona.

Il mondo che in pochi click si viene creando è fatto ad immagine e somiglianza di chi vi sta entrando.

Egli supera velocemente la sensazione di un mondo esterno a lui, dove era sottoposto alla approvazione e al riconoscimento da persone diverse e talvolta mal disposte.

Finalmente può muoversi in un ambito che lo conosce e lo riconosce.

Un ambito che egli stesso, magari senza rendersene conto, ha contribuito in maniera decisiva a costruire.

A ben poco serve, di fronte alla potenza di quel che sta avvenendo, cercare di sostenere che è tutto falso, che è tutto virtuale.

Intanto perché non è vero. Quando fenomeni come questi riguardano contemporaneamente milioni di esseri umani essi sono reali quanto una statua dell’isola di Pasqua, immobile e potente.

Ma soprattutto perché non gli si può attribuire un dato di irrealtà quando poteri e responsabilità come la politica scelgono quel terreno per esistere e combattervi sopra.

Probabilmente sarà necessario del tempo perché la consapevolezza collettiva si adegui alle nuove condizioni e superi l’ubriacatura iniziale ancora molto forte.

Già inizia ad emergere come l’universo virtuale non sia affatto protetto dalle incursioni malvagie e dalle intenzioni negative.

Ci vorrà anche del tempo perché emerga anche l’illusorietà della funzione sostitutiva rispetto ai rapporti della vita reale.

Ci saranno, già ci sono, molti caduti su questa trincea ma la Storia dell’Umanità è cosparsa di illusioni che hanno comportato anche drammi, sofferenze e morti sino a quando non è emersa la loro caducità.

E poi, dobbiamo abituarci a dirlo e a gridarlo chiaro e forte.

Noi, esseri umani, siamo fieri ed orgogliosi figli di Fomo.

È quella angoscia che ci ha formati come individui e come specie.

È quella angoscia che ci fa non superiori ma diversi dalle nostre amiche nell’alveare.

È quella paura di non essere accettati che, nel bene e nel male, ha guidato e continuerà a guidare la Storia sino a quando saremo su questa Terra.

E se poi vogliamo parlare del come mai siamo così diversi dalle altre specie viventi, beh un giorno dovremo deciderci a farlo.

Intanto ognuno lo decida provvisoriamente per sé.


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