LA VERITA’ FA BENE O FA MALE?

Nel “meraviglioso mondo del cinema” è sinora sempre stato d’uso essere orgogliosi e felici di come andavano le cose. Si faceva così anche quando le cose non andavano proprio bene.

Si temeva che, ammettendo o denunciando situazioni di crisi, si sarebbe portata acqua al mulino dei nemici del cinema, che venivano immaginati sempre pronti a colpire il nostro mondo ma soprattutto a limitare il sostegno che lo Stato fornisce al settore.

È stato Nanni Moretti a rompere questo tetto di cristallo, denunciando la crescente debolezza del prodotto cinematografico italiano. A lui, come spesso succede, si sono velocemente accodati altri personaggi di rilievo.

Nessuno, occorre dire, ha scoperto nulla di nuovo. Tutti si sono sentiti autorizzati a dire esplicitamente quel che tutti sanno e di cui tutti parliamo.

Colpisce la corrispondenza fra questo mutamento prospettico e la contemporanea rivoluzione degli assetti politici.

Oggi, però, non siamo in grado di dire se sia stato semplicemente un caso o, come ci ha insegnato Giorgio Galli, anche questa coincidenza riveli ai nostri occhi qualcosa che altrimenti non avremmo visto

Si tratterebbe, comunque, di un trionfo della verità illuminata dai disastrosi incassi di botteghino sino a oscurare (finalmente!) i patetici red carpet pieni di belle donne e brutti uomini che nulla hanno a che spartire con quel film o con il cinema in generale.

A ben guardare, però, si potrebbe scoprire qualcosa di più complesso.

Potremmo, cioè, scoprire che una verità incompleta fa più male (o almeno altrettanto male) di una bugia ben detta, condivisa e sistematizzata.

Che, nel recente passato, i film italiani siano diventati mediamente più brutti e meno interessanti per il pubblico è una osservazione banale.

Ma ritenere, di conseguenza, che se si facessero buoni film il pubblico risponderebbe con entusiasmo è una semplificazione pericolosa.

In effetti questa posizione si fonda sullo scambio e sulla confusione tra causa ed effetto.

I troppi film scadenti non sono la causa della crisi ma l’effetto di altre e più profonde cause.

Storicamente la forza e l’identità del cinema italiano si sono fondate (sino a produrre straordinari risultati) sulla profondissima relazione che legava l’obiettivo economico al lavoro di creazione del singolo film.

La mediazione che le sale (il punto vendita) hanno storicamente esercitato con la produzione ha permesso lo  sviluppo di una cinematografia capace di puntare al grande successo di pubblico ma anche al prodotto di qualità per il quale esisteva (e probabilmente ancora esiste) una domanda di mercato.

Il bravo esercente funzionava esattamente come il bravo fruttivendolo. Conosceva i suoi clienti, ne rispettava le domande e le necessità, non investiva su quel che ad esse non corrispondeva: esattamente come il fruttivendolo che non compra gli asparagi sin quando il prezzo è troppo alto per il suo consumatore di riferimento.

Attraverso la profonda connessione con il mercato si è storicamente creata quella inconsapevole vicinanza che sola spiega perché si aspettava un film e magari si correva alla prima proiezione.

Ma anche spiega come si formava quel canale di comunicazione bocca – orecchio che di un film sanciva il successo o la caduta.

Non è ora il caso di esaminare qui le dinamiche tecnologiche e sociali che hanno progressivamente abbattuto la funzione e il primato del punto – vendita su strada.

Piuttosto, per tornare al tema della verità, si deve osservare che la parte dominante della cultura cinematografica ha da tempo (e disgraziatamente) gioito della fine della centralità del punto – vendita.

Polemizzando contro “la censura del mercato” ha esaltato la funzione sociale del film, considerato in quanto tale, riconoscendogli un significato che andrebbe ben al di là della effettiva visione da parte del pubblico.

Di conseguenza ha avvallato e spinto la teoria di un necessario sostegno istituzionale che avrebbe dovuto contrastare e sconfiggere la sunnominata censura del mercato.

In questa maniera si è interrotto il fortissimo legame identitario fra il popolo italiano e la sua cinematografia nazionale.

Un legame che si esprimeva contemporaneamente attraverso il cinepanettore e il film “impegnato”: ad ognuno il suo pubblico, si potrebbe dire.

Salvo scoprire subito dopo che i due segmenti di pubblico si incrociavano strettamente nel rapporto con il medium cinematografico. E che il giovane impegnato e consapevole era poi ben contento di andare al cinema anche per guardare le belle forme della Fenech nei film di Sergio Martino.

Grazie a questa pretesa liberazione dai vincoli del mercato, realizzare un film (grazie al sostegno dello Stato) ha finito spesso per diventare un valore in sé.

Si è creato un nuovo universo in cui la segnalazione della critica o la partecipazione a un festival giustificavano l’esistenza di un film che nessuno poteva (o desiderava) vedere.

Come sempre succede i percorsi di autoreferenzialità, una volta avviati, producono nuovi effetti sempre dello stesso segno.

Ciò in Italia è avvenuto con la introduzione di un sistema di tax credit totalmente svincolato dalla prospettiva del rapporto con il mercato e, di conseguenza, da qualunque valutazione in tal senso.

Al faticoso e intenso lavorio di artisti, sceneggiatori, intellettuali e ricercatori che si affiancavano a produttori e distributori per cercar di capire (spesso sbagliando) cosa potesse funzionare e come eventualmente proporlo al mercato si è sostituito il nulla assoluto.

Si è iniziato a produrre per ottenere credito fiscale da utilizzare anche su altri prodotti.

Al dilemma del produttore (lo faccio o non lo faccio?) si è sostituita una ebete certezza di aver comunque guadagnato.

Incomprensibilmente, poi, il tax credit è stato concesso anche alle produzioni per la televisione che dovrebbero essere remunerate dal committente e, perché non mancasse nulla al quadro, la stragrande maggioranza delle Società di produzione cinematografica è stata comprata da entità finanziare straniere.

Naturalmente tutto questo disastro è stato descritto dal vertice del Ministero (affiancato in questo dalle Associazioni degli ex – produttori divenuti rentier) come un trionfale cammino di salvezza e di integrazione positiva nel mercato mondiale.

Scusandomi qui per il percorso a sciabolate, ma pronto ad approfondirlo e a esibire dati se avrà un senso farlo, appare ora chiaro che una verità incompleta non vale di più di una bugia ben fatta.

I film stanno diventando brutti e approssimativi perché nessuno ha più un vero interesse a farli belli e significativi per il pubblico.

Non possiamo neppure pensare che la battaglia per la salvezza del vero cinema possa integralmente ricadere sulle spalle degli autori e degli artisti che lo fanno.

Il cinema è una modalità espressiva ma anche un medium che nasce nel rapporto organico con il consumatore finale e i suoi bisogni.

Continuare a drogare la parte strutturale del sistema – cinema, fingendo che basti fare un film per aver ben operato, devasterà in breve tempo e a fondo anche la parte creativa.

E, se questo dovesse avvenire, la nostra Nazione aggiungerà alla liquidazione e svendita dei suoi fondamenti essenziali, che è in corso da diversi anni, anche il “meraviglioso mondo del cinema” di cui in apertura.

E non sarà un bel vedere.


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