SOGNI DI GLORIA

A che serve l’arte? O meglio, cosa oggi può considerarsi arte?

Questa è una di quelle domande che trova infinite risposte; del resto, l’arte fa parte della vita, è insita nella genesi fin da quando l’uomo ha sentito la necessità di incidere qualcosa di sé sulle rocce per lasciare un segno della sua presenza. Siamo alla fine dell’anno e, come è di prassi, si tirano le fila degli eventi più importanti realizzati e di conseguenza si stila una lista che evidenzia i migliori.

Ciò accade anche nel campo artistico e quindi si proclama, in base ai criteri stabiliti, il miglior film, il miglior Festival canoro e via discorrendo. Ovviamente, è stata proclamata anche la migliore opera d’arte visiva, con il beneplacito di critici di alto livello, che sanno indicarci il modo giusto per guardare un’opera per poi convincerci che quella è davvero la migliore.

Sull’Espresso della scorsa settimana leggo una di queste classifiche e scopro che l’opera risultata vincitrice nel nostro panorama artistico è stata “My dreams they’ll never surrender” che, con il merito di chi conosce la lingua inglese, può essere tradotto “I miei sogni non si arrenderanno mai”. Tale opera è stata realizzata dall’artista di turno Gianmaria Tosatti, a cura di Angela Tecce e Claudia Borrelli; artista già noto per aver rappresentato alla scorsa Biennale d’Arte a Venezia il Padiglione Italia con l’installazione “Storia della notte e destino delle comete” che, al di là della critica, ha lasciato molti spettatori perplessi.

Ma riprendiamo in esame l’opera attuale cui ho fatto riferimento. Tale opera ha una lunga storia in quanto già realizzata precedentemente a Castel Sant’Elmo a Napoli in un preciso punto che, per le caratteristiche ambientali del luogo, era stata rimossa.

Mi spiego l’installazione consiste nel piantare delle spighe di grano in un’area senza luce e senza speranza di vita per una materia organica quale le spighe, immerse in un’atmosfera immobile e saturata. Al di là della interpretazione metaforica e fantasiosa che si può attribuire a tale opera, c’è qualcosa che non torna. Mi chiedo come è possibile che gli ambientalisti non esprimono il loro parere in merito?
Le spighe di grano, per quanto curate e sorvegliate, sono destinate fin dall’inizio a morire e poi perché far ancor trionfare la morte in un luogo destinato in passato a carcere ove vennero rinchiusi personaggi di tutto rispetto quali: Tommaso Campanella, filosofo accusato di eresia; Germano Serra, patriota italiano della Repubblica napoletana e, non ultima, Luigia Sanfelice, nobildonna coinvolta nelle vicende della Repubblica napoletana?

Nell’articolo pubblicato sull’Espresso, la cosa viene presentata come una sfida, un oggetto che rappresenta il sentimento di libertà democratica in antitesi con la repressione subita dai liberi pensatori e dai rivoluzionari; ora l’opera sta lentamente morendo, il commento è stato “questo è la bellezza, la tragedia, un fascino amaro”, l’arte è anche questo secondo alcuni canoni di giudizio espressi dal curatore critico dell’opera. Ma noi sappiamo bene che in arte vale il tutto e il contrario di tutto, ognuno può dire la sua ed esprimere la propria idea giudicando un’opera secondo i propri canoni.

Comunque oggi è molto difficile giudicare un’opera d’arte o ritenerla tale; personaggi come George Didi Huberman e Michele Cometa, rispettivamente: il primo storico dell’arte e filosofo francese che insegna all’ École des hautes études en sciences sociales; l’altro professore universitario insegna storia della cultura e cultura visuale nell’Università degli studi di Palermo, spendono molto del loro sapere per cercare formule nuove adatte a stilare una elencazione di dati per poi stabilire canoni precisi per definire un’opera d’arte. Tra le varie scritture consiglierei di consultare la più recente del 2018 “Cultura visuale” di Michele Cometa, leggerla significa porre l’accento sulla dimensione culturale delle immagini e della visione.

Forse la lettura di entrambi potrebbe aiutarci a meglio comprendere le divagazioni sull’argomento o meglio approfondire il senso di tali capricci di autori, troppo spesso incoraggiati, nelle loro strumentalizzazioni, sottovalutando di fatto la soggettività di certe espressioni più o meno artistiche che vengono esibite come verità assolute.

Quando Damien Hirst presentò lo squalo in formaldeide molti si divisero nel giudizio; sta di fatto che il suo promotore, ovvero Saatchi, affermò che quella era un’opera d’arte, anche perché aveva deciso e giurato ai suoi artisti che lui li avrebbe fatti diventare ricchi e famosi prima di morire. La sua previsione fu veritiera, ma ora Damien sta cercando di liberarsi di quelle opere nelle quali non si riconosce più e dove ormai la materia ha fatto il suo corso!

Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.


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