IL ROSSOBRUNISMO

FIGLIO DELL’ERA POST-IDEOLOGICA

Il termine “post-ideologia” non mi ha mai convinto del tutto, in parte perché un movimento valoriale che si fa portatore di questa etichetta e la innalza a ideologia di riferimento è abbastanza ipocrita. È un po’ come dire “non esistono verità assolute” sottintendendo nemmeno troppo indirettamente che una verità assoluta è la non esistenza di altre verità assolute, il paradosso del relativismo, che dall’antica Grecia è riuscito ad arrivare fino a noi in buona salute.

L’altra ragione che non mi convince sulla bontà del post-ideologismo è di natura pratica e un tantino più antropologica e politica. Cioè la direzione che intendiamo dare alla realtà nella quale viviamo, senza che sia essa a plasmarci con idee pre-confezionate in partenza. Legandosi alla prima motivazione, è come se un atteggiamento conservatore e conformista schiacciasse tutto il dibattito politico-ideologico sul non aver bisogno di altro, non ci sono alternative e altre amenità, che svuotano l’animo dalla sua passione.

L’essere umano è un animale sociale, come scrisse Aristotele nel IV secolo A.c, insieme a questo andrebbe aggiunto che l’essere umano è in misura non inferiore alla prima, un animale ideologico e valoriale. Che è riuscito e riesce a distinguersi dagli altri animali per la sua capacità di conquista non per bisogno o necessità, ma per gloria ed eternità.
Del resto, che bisogno avevano gli antichi romani di costituire un impero di così vaste dimensioni?
O i mongoli di Gengis di Khan conquistare l’intera Asia centrale costituendo un’immensa federazione di tribù?

C’erano motivazioni legate alla sopravvivenza del singolo?
Ma in fondo la dinastia Khan e la gens Augustea non erano gruppi familiari che se la passavano così male, la necessità dell’espansione e della grandezza erano le loro guide. E cosa sono questi se non valori che connessi insieme formano un’ideologia, che potremmo chiamare “Khanismo” o “Augusteismo” o qualsiasi altro.
Sembrerà una banalizzazione, ma del resto come ci sono stati che nascono e muoiono, allo stesso modo abbiamo sistemi valoriali che nascono e muoiono, e non possiamo che catalogarli in uno spettro che a sua volta ne riassuma i punti principali e in comune.
Quasi sicuramente i due ismi neologizzati sarebbero classificabili come “destra” e anche abbastanza spinta, un monarchismo assoluto, basato su un’aristocrazia tribale dove il fulcro centrale è l’impero, e dove l’arte della guerra e della disuguaglianza tra dominatore e dominato è estrema.

Del resto, l’uomo moderno, non è molto dissimile dall’uomo del medioevo o del paleolitico, i sistemi valoriali sono diversi, il modo di aggregazione è cambiato senza parlare della tecnica e del progresso. Ma questi sono aggettivi esterni che hanno a che fare più con la forma (quello che traspare fuori) che con la sostanza (meccanismo di come funziona la mente), e bene, se ci soffermiamo sul secondo aspetto in realtà, ci accorgiamo che addirittura l’uomo moderno è rimasto tale e quale al momento in cui ha compiuto lo scatto evolutivo circa 300 mila anni fa, periodo in cui comparse homo sapiens.
Il nostro corpo, cuore e mente continuano a evolversi, ma talmente lentamente che nella sostanza è rimasto invariato.

E quindi perché in un corpo e in una mente invariati, valori e idee non dovrebbero esistere o coesistere? Non ci saremmo per caso convinti delle teorie di Fukuyama sulla fine della storia e quindi di fine delle ideologie?

Personalmente, un po’ in contro tendenza al “Fukuyamismo”.
Rimango fedele alla massima dello scrittore Mark Fisher, che con l’espressione di “realismo capitalista” definiva ciò che ancor prima di lui intendeva Margaret Thatcher con “TINA” “there is no alterative” sottointeso al sistema capitalista.
E cioè che il pensiero Neocon statunitense, improntato verso quello che loro stessi definivano come “il secolo americano” ancora in atto seppur in declino, sancivano la vittoria del liberalismo anglosassone sulle altre ideologie viventi (principalmente il socialismo sovietico e il maoismo).

Se così fosse, a dispetto di molti altri che non la pensano così, vorrebbe dire che viviamo nel periodo più ideologizzato della storia umana, tale , da far diventare l’ideologia vincente un dogma di fede che come tale non può essere messo in discussione senza far crollare l’intero sistema. Alcuni lo sintetizzano come “totalitarismo liberista”, e potrei anche concordare se non venisse piazzato con troppa vemenza un po’ ovunque per cercare di giustificare l’ingiustificabile; “Oggi è caduto un albero”, “ma si è colpa del totalitarismo liberista che ha tirato un soffio”.

Oltre alla questione meramente ideologica, spesso usata da chi si professa vicino al pensiero liberale (per quanto mi riguarda un grande pensiero, peccato che dopo gli anni 80 abbia subito un declino). C’è la questione della compattezza sociale, cioè difronte a problemi comuni, si richiede ai cittadini di abbandonare elementi di divisione, omologandosi alle scelte necessarie. Un caso su tutti, quello di una guerra o di una crisi che richiede inevitabilmente sacrifici.

Una forza di collante sociale, normalmente sul piano amministrativo può andare bene quando si parla di gestire il territorio in modo diretto mantenendosi a stretto contatto con la base elettorale. In quel caso, in virtù di problemi effettivamente comuni l’abbandono di ideologie macroscopiche può essere un fattore di vantaggio decisionale. Del resto, che ideologia ci vuole per riasfaltare una strada o amministrare i conti comunali. Il problema arriva quando parliamo dei massimi sistemi, per esempio che linea deve prendere l’Italia sulla guerra d’Ucraina o Medio-Orientale, Qui si, l’ideologia inizia ad assumere un ruolo decisivo.

Ragion per cui, se legata a movimenti civici territoriali, trovo l’A-ideologismo molto più coerente rispetto alla sua assunzione da parte di partiti nazionali.

Quella della post ideologia poi, è un “evergreen” dell’accalappia voti, un modo per usare un eufemismo “democristiano” ti poni in mezzo a due estremi cercando di avvicinare gli indecisi creando una formazione nuova e apparentemente distaccata dal passato.

È praticamente la storia del Movimento 5 Stelle, che anch’esso inizialmente con la “carta di Firenze” mirava a stabilire un contatto con i territori, simile a quello dei movimenti civici. In questo periodo infatti ricordiamo una formazione molto vasta dal punto di vista ideologico, un movimento al cui interno si alternavano ex membri di Rifondazione Comunista con addirittura neofascisti. Questa ambiguità ha portato molti commentatori a considerarlo come una formazione di destra, ma il tempo alla fine gli ha dato torto, ed oggi seppur con qualche mal di pancia da parte del PD, il movimento è diventato il secondo partito più importante del Csx.

Nel momento in cui Il movimento ha compiuto il “salto di specie” passando da movimento semi civico a partito nazionale, si è assistito per giunta ad un grande scissione, che ha visto il culmine con l’uscita di Luigi di Maio nel 2022 con la creazione della formazione “Impegno civico” precedentemente “insieme per il futuro”, già dal nome si intuisce una certa tendenza interna al civismo, anche se personalmente la ritengo più l’ennesima operazione di marketing/riciclaggio politico, che alla fine non ha dato i suoi frutti, visto il cambio di programma che ha visto di Maio impegnato come ambasciatore Europeo nel Golfo Persico.

Di altre figure, ricordo gli euroscettici on steroids Gianluigi Paragone e Marco Rizzo. Ed è proprio su questa seconda figura che adesso mi concentrerò, del resto nel titolo dell’articolo non c’è “rossobrunismo” per caso. Dicevo, anche se Rizzo si è sempre mantenuto distante dal campo gravitazionale del Movimento, è innegabile che, specialmente nelle prime fasi ambigue, i punti di contatto fossero molteplici, ne conviene che anche oggi, molti suoi collaboratori provengono da un passato di grillismo populista molto spinto, dove si sprecavano elucubrazioni contro l’euro, le lobbies ecc. Ripeto, critiche legittime che posso anche condividere, il problema rimaneva e rimane in parte ancora oggi, il metodo e il modo in cui vengono comunicate, diciamo che oltre allo slogan sarebbe interessate un dibattito sul merito delle questioni, analizzando le posizioni dalle origini. (memento, purtroppo non porta elettori, eh vabbè oh).

Proprio il mese scorso a Roma, il partito di Rizzo, attualmente noto come “Democrazia Sovrana e Popolare” teneva un congresso insieme a niente popò di meno che, Gianni Alemanno, Ex sindaco Berlusconiano di Roma con una lunga militanza in Alleanza Nazionale ed MSI, sulla creazione di una nuova formazione politica guarda guarda “post-ideologica” chiamata “Forum per l’Indipendenza”.

Tra i punti principali; la sovranità, l’uscita dall’UE, L’uscita dalla NATO, il No alla teoria gender (qualsiasi cosa essa sia. Poi oh, detta da Rizzo che ipoteticamente dovrebbe essere comunista…) e infine il No alla carne sintetica e all’appiattimento dell’Italia nei confronti di Washington. Insomma No no no no. Diciamo che catalogare ideologicamente questa formazione risulta assai arduo, un’idea me la può dare il manifesto di San Sepolcro del PFI e la teoria Pan Euroasiatica di Aleksandr Dugin (si proprio lui, il teorico di Putin).

E potrei dire con un certa indeterminatezza, che si tratta di un partito nazional-bolscevico terzomondista, cioè un sistema di valori che incorpora discorsi tradizionalisti sulla composizione della società (elogio della famiglia tradizionale, no alla gender theory et simila), discorsi marxisti sulla lotta di classe e quindi un accentuato materialismo storico, e infine una certa affinità con il blocco BRICS (ormai BRICS+), che nella guerra fredda 2.0 moderna rappresenta il blocco alternativo al nord globale.

Proprio qualche mese fa, Alemanno lamentava una certa deriva atlantista di Fratelli d’Italia, che in un’ottica missina, a rigor di teoria, dovrebbe mantenere un certo distacco dal blocco americano per tutta la storia che conosciamo. E Invece, a quanto sembra, il senso di realtà ha prevalso, relegando l’anti-americanismo della destra sociale nel soffitto delle idee.

In tutto il discorso sulle ideologie, mi interessava il caso di Forum per l’indipendenza e ISP, per via della loro capacità di creare collante sociale. In questo caso, talmente potente da riuscire a convogliare in un singolo progetto culture politiche diametralmente opposte, cioè marxisti-leninisti da un lato e neofascisti dall’altro, il tutto giustificato per combattere l’appiattimento post-ideologico di cui citavo sopra, che si origina durante il decennio degli anni 80 in corrispondenza con i mandati di Reagan e Thatcher e l’ascesa del “neoliberalismo”. In un certo senso è come se fosse un rimedio omeopatico, per sconfiggere il post-ideologismo neoliberista, utilizzi a tua volta la scusa del post-ideologismo solo che in salsa fascio-stalinista, il che lo rende un esperimento sociale antropologico interessante, che tuttavia non sta funzionando dati i perenni risultati di gran lunga sotto la soglia di sbarramento anche solo per far parte dell’opposizione di un consiglio comunale.

Personalmente, penso che per incrinare il post-ideologismo eretto a ideologia, non ci sia bisogno di altrettanto post-ideologismo (pardon per la ripetizione), il risultato non può che essere uno spaesamento degli elettori, che difronte a un avversario non definibile con precisione (si consideri che ancora oggi tra i politologi ci sono ancora dubbi su cosa sia il neoliberismo effettivamente) decidono di ritirarsi e di astenersi. Qui mi sto concentrando principalmente sulla sfera nazionale, tralasciando quella locale delle medie-piccole città, dove invece un’unione di intenti trascendente alle ideologie può risultare molto utile per amministrare. Chiaro è che parlando di elezioni nazionali, e tornando all’annoso ed estremamente delicato tema dell’astensionismo, un ruolo chiave lo gioca la fiducia e la credibilità dei leader, valutando le ideologie di riferimento come qualcosa di secondo piano. Il massimo sarebbe canalizzare un’ideologia populista (con accezione positiva del termine, cioè intesa a raggiugere il benessere delle classi sociali più svantaggiate), con un leader carismatico e credibile.

Merce rara di questi tempi, anche se non si può mai sapere. Di certo non possiamo aspettarci che questa rivoluzione ideale arrivi da forze che al governo come in campagna elettorale predicano la reazione e il ritorno ad una società patriarcale e macista (penso alla recente uscita dell’On. Mennuni di FdI, la quale affermava che il fine di una donna dovrebbe essere quello di fare figli. Tralasciando completamente la sfera personale, lavorativa e affettiva e ergendola a una sorta di verità di natura).

Un certo occhio di riguardo andrebbe rivolto a delle formazioni riformiste e territoriali, cioè che abbiamo dei riferimenti idealistici e la capacità sincretica di aggregare quante più persone possibili in nome del bene comune, del bene del territorio e della vita dei cittadini laddove incide veramente, dove vivono e dove si accrescono. Laddove possono ritrovare fiducia e credibilità nella politica ripartendo da questioni semplici e non eccessivamente divisive. E dove possono creare una rete di supporto, partendo non dall’alto quanto dal basso, formando un consenso durevole e sincero.

Riscoprendo quelli che originariamente erano i valori del riformismo, una forza ideale potente, che individuava i difetti nel sistema (principalmente capitalista) e lavorava per correggerli. Prima che venisse usurpata da certi politici, che al più il sistema come costruito in questo momento, non può che far comodo.


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