«PARTONO ‘E BASTIMENTE»

Scrivere oggi di migrazioni è temerario. Il dibattito intorno a questo tema è talmente denso e cacofonico che qualunque idea rischia di diventare giusto un rumore in più nel frastuono assordante. Il problema è sempre lo stesso. Lo ha sintetizzato efficacemente Giuseppe De Mita, coordinatore nazionale del movimento POP. Popolari in rete, che in un suo articolo recente ha scritto:

«Le attuali narrazioni di destra e di sinistra rincorrono in uguale misura il tratteggiamento di un profilo identitario forte, che catturi l’immaginario di una parte della pubblica opinione. Per farlo forzano la vita reale entro i confini valoriali di ciò che, secondo loro, è vero o falso, giusto o ingiusto. Comunque vada a finire è l’ideologia che prevarica il bisogno. Nel frastuono di questo scontro scompare la voce dei senza voce, cioè di quelle posizioni più fragili che vorrebbero riconoscimento e tutela per ciò che sono e non per ciò che si vorrebbe rappresentassero».

Per ovviare a questa tendenza vetero-ideologica, occorre tornare con umile fatica alla realtà:

«L’approccio popolare non muove da un principio astratto, ma da un’analisi della realtà, perché è solo la lettura di una società e della sua storia che stabilisce i limiti entro i quali le istituzioni e le norme possono essere funzionali al regolamento dei rapporti civili, senza cedere a tentazioni ideologiche, moralistiche o confessionali».

Il metodo popolare, in cui anch’io mi riconosco, è quanto mai necessario quando si parla di migrazioni. Il problema è infatti complesso, radicato nella storia e destinato a durare. Credo quindi che lo si debba affrontare in maniera che rifugga il più possibile dai pregiudizi ideologici e dalla comunicazione propagandistica per basarsi su tre fattori ineludibili: fatti oggettivi, visione strategica e sentimento di umanità.

Elogio della realtà

Guardiamo innanzi tutto ai fatti, in sintesi. A premessa, credo sia utile dire che spesso identifichiamo gli immigrati con gli sbarchi e confondiamo di conseguenza migranti regolari e irregolari.

  • Primo fatto: è assolutamente vero che all’inizio del 2023 gli sbarchi di migranti irregolari sulle nostre coste è assai aumentato rispetto ai primi mesi del 2022: stando al Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio scorso alla data in cui scrivo – cioè il 20 aprile – sono sbarcate in Italia 35.056 persone contro le 8.669 nello stesso periodo dello scorso anno. Quattro volte tanto. Poiché questa rubrica si occupa soprattutto di Africa, vale la pena di aggiungere che molti tra loro sono africani ma non tutti. Tra i primi dieci Paesi di provenienza vi sono anche il Pakistan, il Bangladesh e la Siria. Il che lascia intuire le ragioni della loro fuga.
  • Secondo fatto: nel nostro Paese gli immigrati regolari sono molto più numerosi degli irregolari. I primi ammontano a 5,2 milioni e i secondi a 23 mila.
  • Terzo fatto: non è vero che siamo il luogo d’Europa più “minacciato” dalle migrazioni, come il Governo in carica sovente afferma. Le cifre che lo provano abbondano. Come si è appena detto, gli stranieri regolari da noi sono 5,2 milioni, all’incirca come in Francia, mentre il numero raddoppia in Germania per raggiungere i 10,4 milioni. Quanto agli irregolari stimati, sono 118 mila in Germania, 104 mila in Francia e 23 mila in Italia. Se vogliamo guardare anche alla percentuale di immigrati ogni mille abitanti, l’Italia è al ventiquattresimo posto nella classifica dei 27 Paesi dell’Unione Europea stilata da Eurostat. Lo Stato membro dell’Unione con la percentuale più alta è il Lussemburgo (39,6 su mille), seguito da Malta e Cipro. La nostra quota di immigrati è di 5,4 ogni mille abitanti. Dopo di noi ci sono solo Francia, Portogallo e Slovacchia. Parlare di invasione è dunque, quanto meno, un’iperbole.
  • Quarto fatto: il Governo italiano nel «decreto Cutro» approvato oggi dal Senato, ha deciso una stretta sulla cosiddetta «protezione speciale». Inizialmente avrebbe voluto abolirla del tutto, poi ha dovuto edulcorare il testo per concederla a coloro che, se rispediti nel loro Paese d’origine, potrebbero essere vittima di tortura, persecuzioni e violazione sistematica dei diritti umani (lo impone la Costituzione e il decreto, se avesse eliminato anche questa concessione, sarebbe stato incostituzionale). Per giustificare la scelta di ridurre all’osso la protezione speciale, la presidente del Consiglio ha dichiarato che noi siamo (meglio eravamo) il solo Paese europeo a prevedere tale norma. Non è così: sono 18 le nazioni europee ad averla, sia pure con denominazioni diverse. Nel 2022, sempre secondo Eurostat, le richieste di protezione speciale sono state 30.015 in Germania, 20.925 in Spagna e 10.865 in Italia. Anche in questo caso, dunque, si è fatto uso di iperboli.
  • Quinto fatto: durante il decennio che ho trascorso nel “continente nero”, io di migranti non ne ho visti mai. E non perché vivessi rinchiuso in luoghi privilegiati dove non è dato incontrarli, ma perché non c’erano. C’erano talora rifugiati provenienti da altri Paesi limitrofi, ma non colonne di gente in fila per fuggire in Europa. La constatazione non ha solo un valore autobiografico, ma anche sociopolitico. Evidenzia un punto che pochi conoscono: come ci ricorda il Global Migration Data Analysis Centre delle Nazioni Unite, le migrazioni intra-africane sono molto più numerose di quelle dall’Africa all’estero: più dell’80% dei movimenti migratori sono interni al continente e l’Africa accoglie un quarto dei rifugiati del pianeta.
  • Sesto e ultimo fatto: di immigrati (regolari) noi abbiamo un disperato bisogno. Tutti i presidenti dell’Inps ci ripetono incessantemente che, senza immigrazione, tra un paio di decenni non ci saranno più abbastanza lavoratori in Italia per pagare le pensioni a una crescente moltitudine di anziani inattivi. La conseguenza sarebbe di tipo economico: se in Italia entrasse il 33% in più di lavoratori immigrati, in grado di finanziare il sistema pensionistico, il nostro (elevatissimo) debito pubblico calerebbe di 30 punti percentuali. E viceversa. Lo dice, come noto, anche il DEF del Governo in carica.

Visione del futuro

Da queste premesse fattuali si ricava che il problema delle migrazioni non è un’occasionale emergenza né una drammatica invasione, ma una realtà del nostro tempo. E non solo: da che mondo è mondo, i flussi migratori sono parte integrante delle dinamiche sociali e dell’evoluzione della famiglia umana. Occorre quindi gestirli con un metodo che è l’esatto opposto della propaganda strumentale: la messa a punto di un approccio strategico orientato al futuro.

Essere strategici significa, in breve, favorire senza dubbio gli arrivi regolari, sfuggendo così al ricatto degli scafisti, e adottare un modello di integrazione. Perché? Perché da un lato non possiamo certamente accogliere tutti, ma dall’altro non è certo alzando i muri e chiudendo i porti che possiamo fermare il corso della storia. Quali sono oggi i modelli più adottati?

C’è innanzi tutto il modello assimilazionista di matrice francese. Così come nella gestione delle sue ex-colonie, anche nell’integrazione dei migranti la Francia tende ad assimilare i “diversi” in tutto e per tutto alla cultura transalpina attraverso la richiesta di adempiere agli stessi doveri dei francesi di nascita in cambio dell’acceso agli stessi diritti.

Alternativo è il modello multiculturale britannico, adottato anche in Olanda e nei paesi scandinavi. In questo caso si riconoscono i diritti non solo individuali ma collettivi delle minoranze etniche e religiose, purché rispettino la legge del Paese in cui vivono. Nei primi anni 2000 tale aperto modello ha cominciato tuttavia a scricchiolare. La crisi economica ha dato origine a forme violente di razzismo da parte dei white British verso gli stranieri e a scontri tra gruppi etnici che hanno devastato intere città.

Forse più efficace è stato infine il modello multiculturalista pratico adottato in Germania dopo la seconda guerra mondiale, che prevedeva un’esclusione dalla sfera politica accompagnata dall’accesso a quella socioeconomica. Come risultato, gli immigrati – provenienti soprattutto dalla Turchia e dai paesi dell’est – si sono integrati progressivamente, sia frequentando scuole locali sia contraendo matrimoni misti. A quel punto la legge è stata modificata per rendere possibile l’acquisizione della cittadinanza, fino ad allora basata sullo ius sanguinis. Va aggiunto che la Germania di Angela Merkel è stata di gran lunga il Paese europeo che ha accolto il maggior numero di profughi. La politica dell’«accoglienza a oltranza» è costata alla cancelliera una parte dei suoi consensi elettorali, ma, a dispetto di questo, Merkel non ha mai rinnegato le sue scelte. Il che le fa onore.

Quanto all’Italia, un modello d’integrazione… non c’è. Le cause di questo vuoto sono attribuibili sia alla cronologia delle migrazioni, che da noi sono molto più recenti rispetto a quelle francesi, inglesi o tedesche, sia ai tatticismi di breve periodo di una classe politica abituata a guardare alle prossime elezioni piuttosto che alle prossime generazioni. La conseguenza è che i Governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno sempre visto le migrazioni come un problema di ordine pubblico più che come un prioritario progetto sociale. Il vantaggio è che adesso potremmo costruirci, volendo, una soluzione innovativa che prenda in conto i limiti e gli errori di chi ci ha preceduto.

Se penso ai “nuovi italiani” di origine africana, credo siano sulla strada giusta coloro che promuovono una soluzione interculturale, che io definirei, con linguaggio antropologico, la via della contaminazione. Mi sembrerebbe non solo la più logica, ma anche la più ricca in termini di prospettive future, sempre che sia sostenuta da interventi pubblici adeguati in termini legislativi, educativi e sociali. È la più logica perché l’Italia, non essendo stata una potenza coloniale, è terra d’accoglienza non solo di migranti provenienti in prevalenza dalle sue ex colonie ma di una grande varietà di nazionalità: si calcola che siano ben 194 i Paesi d’origine degli stranieri che vivono nel nostro. È la più ricca di prospettive perché mi pare idonea a un tempo, il nostro, in cui le culture non si amalgamano ma si trasformano.

Il primo passo concreto dovrebbe essere l’approvazione del cosiddetto ius soli “temperato” che consenta l’ottenimento della cittadinanza italiana almeno ai minori nati in Italia da genitori stranieri di cui uno disponga di un regolare permesso di soggiorno. In questo ambito noi siamo uno dei Paesi più restrittivi del mondo occidentale, pur essendo in origine gli “inventori” dello ius soli, a partire addirittura da Caracalla che, nella sua Constitutio Antoniniana del 212 d.C., concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero. Paradossi della storia. Oggi nel continente americano lo ius soli viene applicato in modo automatico e senza condizioni. In Europa viene concessa la cittadinanza per ius soli con qualche condizione (per esempio in Francia quella di aver vissuto sul territorio francese per almeno cinque anni), da Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Regno Unito. E noi?

Sguardo umano

L’ultimo punto cui mi premeva accennare è l’umanità. E per umanità non intendo il “buonismo”, ma un’attitudine individuale e collettiva che fa parte del nostro DNA. Noi abbiamo avuto la fortuna di nascere nel continente che ha dato vita e corpo alla democrazia, all’umanesimo e alla pietas cristiana. Tre innovazioni gigantesche – la prima politica, la seconda culturale, la terza spirituale – che hanno cambiato il mondo e, per secoli, reso l’Europa il suo faro.

Ognuno interpreta i valori democratici, umanistici e cristiani a suo modo, secondo la sua storia, la sua morale e gli orizzonti cui lo guida il suo percorso esistenziale interiore. Fatta salva la libertà individuale, vorrei tuttavia osservare che tradirli come collettività significherebbe dimenticare l’essenza stessa del logos europeo e comprometterne il futuro.

Chiudo con una nota personale. Io sono napoletano. Vengo quindi da un luogo del mondo che ha visto nell’Ottocento milioni di persone lasciare la propria terra per «le Americhe», come si diceva allora. E più tardi, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, partire per il nord del Paese in cerca di lavoro. Il flusso interno peraltro non è ancora terminato visto che sono oltre un milione i movimenti in uscita dal Sud verso il Nord Italia tra il 2012 e il 2021.

Un presidente americano dichiarò: «Gli italiani non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto». Era Richard Nixon, nell’anno di grazia 1973. Solo cinquant’anni fa.

Più di recente, ho sentito mio malgrado dire, in una città settentrionale dove mi trovavo per lavoro, che dei «terroni» è bene non fidarsi. Si parlava di me, nell’anno di grazia 2023.

Qualcuno che ha avuto la mia fortuna – quella di nascere in una famiglia borghese di Posillipo, conseguire una laurea e girare il mondo – sorride e fa spallucce. Ma non posso, di fronte a queste frasi, non immaginare la reazione di un ragazzo o una ragazza di Napoli che lavorava o lavora come cameriere, operaio o taxista a New York o a Torino, a Washington o a Verona. Non posso non immedesimarmi nella loro umiliazione, solitudine e rabbia di fronte a un pregiudizio così insensato e duro da sradicare.

Una vecchia canzone napoletana del 1919 inizia dicendo: «Partono e’ bastimente / pe’ terre assaje luntane. / Cantano a buordo: so’ napulitane…».

Tre versi solo per ricordarci che migranti, a un certo punto della nostra storia, siamo stati tutti. E che, nel posare lo sguardo su quelli che arrivano da noi oggi, non dovremmo dimenticarcene mai.


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