VIVIAMO IN UN’EPOCA…

…IN CUI ALLA BULIMIA DEI MEZZI CORRISPONDE L’ATROFIA DEI FINI”
(PAUL RICOEUR)

Michael Young è un grandissimo del secolo scorso. Dirigente di primo piano piano del labour party inglese dopo la guerra, avvia la stagione della scuola dell’obbligo e per tutti, pensando che proprio l’istruzione a un secolo e mezzo dalla rivoluzione francese fosse ancora lo strumento più potente a disposizione dell’uomo per cambiare il mondo (la frase è di Nelson Mandela, 30 anni dopo Young).

Negli anni 50 scrive invece un romanzo di fantascienza intitolato “The Rise of meritocracy”, immaginando una società governata totalmente dal merito, in cui si lascia indietro chi non ce la fa, o peggio “lo lascia solo”. Se chi è ricco merito di esserlo, lo stesso vale anche per chi è povero. Più o meno la stessa tesi di Papa Francesco: Sei povero? è colpa tua. Young va oltre e fa notare come i poveri della sua società meritocratica a venire hanno interiorizzato totalmente il concetto.

Ciclicamente e periodicamente si torna a parlare di merito e di meritocrazia. Ed ogni volta accade quando sta per accadere o è accaduto un salto di tecnologia oppure sta cambiando o è cambiato il pensiero dominante.

Forse è utile ripassare i fondamentali. Il concetto del mercato che risolve tutto è piaciuto a tutti, perché una società basata sul merito e sui consumi è meglio di una società in cui i privilegi si tramandano per nascita. Il socialismo reale poi ha perso la guerra fredda e con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la svolta globalista della Cina si è pensato che non ci fossero più alternative. Comanda il mercato. La cosa da fare è crescere, perché crescendo tutti ne hanno un beneficio. Con la crescita si sostiene il welfare e con il mercato globale si garantisce coesione e pace e prosperità per tutti. Qualcosa però non ha funzionato evidentemente.

I ricchi sono diventati sempre più ricchi e sempre meno e i poveri sempre di più e sempre più poveri, l’ascensore sociale si è rotto e il pianeta ha una febbre da cavallo.
La narrazione meritocratica non ha più l’appeal che aveva trentenni fa, anzi spinge i perdenti a votare con il dito medio alzato.

La fiducia nel mercato che risolve tutto si scontra con la realtà e si scopre che la crescita non è illimitata: molto meglio parlare di sviluppo, prima che il pianeta esploda per il cambio del clima e pensare a sistemi che ridistribuiscano le risorse riducendo le disuguaglianze, che sono il vero nemico della partecipazione.

Ci sono volute crisi economiche e sanitarie per capire che la storia non è finita, che le alternative alla globalizzazione e ai mercati ci sono, e che lo stato serve eccome, dopo gli anni del Roll on e del Roll out della Tatcher e di Reagan prima, di Blair e di Clinton dopo. Il punto ora è che cosa vogliamo dallo Stato e quale Stato vogliamo. Non basta amministrare o saper amministrare bene per avere consenso Serve avere una visIone ed una identità. Anche le ideologie, come lo Stato e la storia, non sono mai finite. Sono solo cambiate.

Per Stefano Zamagni, uno dei pensatori più autorevoli dell’economia civile e della sostenibilità, il merito è una cosa seria. Immaginiamo di partecipare ad una gara di atletica. È giusto che il più bravo vinca, si è allenato di più, ha più grinta, ha più talento. Ma se chi vince decide le regole delle gare che vengono dopo e la partita è già decisa allora le persone non hanno più interesse a partecipare. Il potere di cambiare le regole è del popolo, non di chi è più forte.

Detto questo ai civici non basta più l’essere degli amministratori efficienti e non possono più raccontarsi sulla base di quanto sono bravi nelle professioni sbandierando eccellenti CV, ma devono fare politica e dire che stato vogliono, che senso ha l’innovazione e che tipo di progresso hanno in mente. E prima di questo devono costruirsi una identità, che in politica vuole dire esistere…(per ora hanno dato vita ad una Federazione nazionale, c’è da augurarsi sia soltanto il primo passo verso la fondazione di un nuovo soggetto politico rdn.).

Progetta il tuo futuro, ma con una matita”

Siamo in una fase di transizione: lo sappiamo, ce lo siamo ripetuti più e più volte.

Proviamo ora a pensare che siamo anche nel pieno di una metamorfosi, cioè stiamo diventando altro, e siamo già diventati altro da quello che eravamo.

Abbiamo una gran voglia di cambiamento, e troviamo sempre meno sopportabile l’inerzia di chi decide. Il futuro nella cultura occidentale è una grande opportunità per tutti noi. Equivale al nostro spazio di libertà, nel quale possiamo decidere che domani vogliamo e che direzione dare al cambiamento.

Abbiamo aumentato il nostro spazio e la nostra mente. Abbiamo modificato il nostro modo di essere e di agire. Ora dobbiamo scrivere le regole per stare in questi nuovi spazi che abbiamo costruito. E dobbiamo pensare al senso, cioè alla direzione e al significato che deve avere il nostro percorso.

Non mi interessa essere ricco in un paese povero (la storia non è finita!)

Ci siamo detti che la storia era finita e che non c’erano alternative al sistema del mercato globale. Abbiamo pensato che il mercato avrebbe risolto i problemi della povertà e della disuguaglianza con la crescita e avrebbe premiato i migliori, dando a tutti l’opportunità di progettare una vita dignitosa. Non è andata proprio così. La povertà e le disuguaglianze sono aumentate e l’ascensore sociale si è definitivamente rotto. E soprattutto la crescita non può essere infinita, quindi dobbiamo ripensare a quali sono gli strumenti e i “dispositivi” che tengano assieme le comunità e diano senso alle persone.

Neanche la politica è finita….

Lo Stato serve, il punto è capire quale stato vogliamo. In questi anni ha prevalso l’idea che lo Stato dovesse arretrare e la sua unica funzione fosse quella di garantire il buon funzionamento del mercato globale. Il risultato è quello che Paul Ricoeur chiama l’atrofia dei fini, compensata dalla bulimia dei mezzi. Oggi lo Stato ha ripreso il suo ruolo ma per poter funzionare deve esistere, e per esistere nel nuovo mondo del digitale deve innanzitutto pensare a che ruolo deve avere nel nuovo contesto. Per decidere quale Stato vogliamo e per gestire una transizione epocale verso il digitale e il green è necessaria la politica, cioè la visione. Non è finita la storia quinidi, e non è finita neanche la politica, che serve, non solo per governare bene ma anche per dare senso al cambiamento.

Perchè dovrei fare qualcosa per le generazioni future. Loro non hanno fatto niente per me

La stagione del welfare che ha preceduto quella del neoliberismo poteva contare sulla crescita, che dal dopoguerra fino all’inizio del nuovo millennio si è pensato fosse illimitata. Almeno fino alla crisi del covid si riteneva che bastasse crescere perché tutti avessero qualcosa. Se però pensiamo che la crescita deve essere compatibile con la salvaguardia dell’ecosistema nel quale viviamo dobbiamo pesare a come si rende sostenibile e si regge un nuovo welfare.

In prospettiva le macchine potrebbero lavorare al posto nostro e i progressi della scienza e della bioingegneria allungare molto la nostra vita. Siamo 8 miliardi sulla terra. l’Italia è un paese di persone che invecchiando hanno bisogni, pensieri e interessi da difendere diversi da quelli dei giovani. La grande partita per le democrazie occidentale è come tenere assieme i bisogni delle generazioni.

Da dove veniamo, dove andiamo e cosa mangiamo stasera

Chi detiene il potere definisce la narrazione dominante. Oggi il potere coincide con il possesso della tecnologia che è sempre culturalmente e politicamente mediata da un pensiero dominante. Non ha senso mettere in discussione la tecnologia, ma il modo con cui si gestisce e come si distribuiscono i profitti che ne derivano.

La storia non è finita ma insegna sempre qualcosa. Abbiamo vissuto un periodo di prosperità perché i cittadini in passato si sono organizzati, hanno messo in discussione le scelte delle élite in materia di tecnologia e condizioni di lavoro e hanno imposto modi per condividere equamente i guadagni derivanti dall’innovazione. La tecnologia e l’innovazione non sono sempre progresso.
Dipende

L’IMMAGINE È UN FOTOGRAMMA DAL FILM TOMMY DI KEN RUSSELL


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