FORD

Davvero qualcuno pensa che con il salario orario minimo si batterà il lavoro povero?

E come si fa a far uscire dalla povertà quei lavoratori costretti al famoso “ part time involontario” o gli stagionali che sono occupati solo per qualche mese all’anno?

È ormai chiaro che lavorare potrebbe non bastare ad arrivare alla fine del mese, eppure abbiamo deciso di abolire il reddito di cittadinanza, raccontato come un regalo immeritato a divanisti e fancazzisti che incentivava le persone a rifiutare straordinarie offerte di lavoro a pochissimo l’ora. Siamo passati, o passeremo, al reddito di inclusione, 300 euri circa per studiare o formarsi, sopravvivere e trovare una nuova occupazione con l’aiuto di centri per l’impiego e servizi sociali, sotto organico e praticamente al collasso.

Ora si discute su come contrastare il lavoro povero, con l’opposizione che fa le barricate per avere il salario orario minimo e il governo in grande imbarazzo che fa muro, ben sapendo che i suoi voti non sono nelle ZTL ricche delle città e che senza un reddito di integrazione la povertà rischia di dialogare. Insomma, non ci sono soldi, non c’è crescita e cosa peggiore nonni vedono tutte queste grandi strategie complessive che vadano oltre il navigare a vista. Di inverni demografici e di automazione e sostituzione uomo macchina meglio non parlare. Ci penserà chi verra dopo, o chi verra votato alle prossime elezioni.…

L’economia in Italia non va poi così bene come si dice. Secondo il Global Wealt Report, lo studio sulla ricchezza del pianeta e su come viene ridistribuita nel mondo fatto dal gruppo bancario svizzero UBS, nel 2022 è aumentata la disuguaglianza e per la prima volta dopo tanti anni il PIL è diminuito. Lo stesso è capitato in Italia, dove le povertà e le disuguaglianze sono in costante aumento dal 2010 ad ogg. Nel nostro paese la metà della ricchezza nazionale è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione. Ed in 12 anni non c’è stato verso di invertire, o almeno di rallentare questa tendenza. Certo, le sfide poste dalle disuguaglianze sono impegnative, almeno quanto quelle delle povertà, e rinviano a politiche di redistribuzione spesso impopolari. Ma soprattutto presuppongono una postura da parte dello stato decisamente differente da quella mostrata negli ultimi anni.

Il tema nel concreto è come si fa a ridistribuire la ricchezza e a che prezzo, sapendo ormai che non esiste la misura “risolutiva”, ma esistono una serie di misure che coordinate fra loro hanno un effetto sulla redistribuzione e sulla povertà, generano un contesto economico e sociale favorevole o in grado di generare un determinato tip di sviluppo anziché un altro. Percepisci oggi servono le “agende” come quella dell’ONU sulla sostenibilità, con obiettivi e misure coordinate tra loro per e combinate tra loro per essere efficaci.
Serve pianificare insomma, possibilmente su un orizzonte temporale ragionevole.

Nel caso delle disuguaglianze ad esempio il salario minimo serve, ma da solo non basterà. Occorre una legge sulla contrattazione, bisogna togliere il massimo ribasso dalle gare che il pubblico fa per la fornitura di servizi e di lavoro, serve un reddito di integrazione per garantire una vita decente alle persone che restano indietro nonostante ius lavoro lo abbiano. Serve una legge sulla rappresentatività delle parti sociali e sindacali. Servono politiche attive per la formazione e il lavoro. Serve che il mercato investa e lo stato faccia la sua parte. Ma serve che queste cose e si pensino e si facciano assieme, come le parti di un tutto. Altrimenti restano al massimo misure di contenimento. Incominciando a pensare che il mercato non risolve tutto, almeno qui da noi, e che i tempi, come si suol dire, sono davvero cambiati.

Facciamo un passo indietro, di circa 110 anni….

Nel 1914 a Detroit, Henry Ford lancia una campagna di assunzione rivolta ad operai qualificati annunciando che avrebbe pagato un minimo di 5 dollari al giorno e che la giornata lavorativa sarebbe durata otto ore. Al momento dell’annuncio i salario era pari a 2,34 dollari l’ora e la giornata era di nove ore. La ragione principale era non tanto la difficoltà della società a trovare lavoratori 2,34 dollari l’ora quanto la difficoltà trattenerli in azienda. Il tasso di turnover dovuto soprattutto ad una elevata insoddisfazione tra i lavoratori aveva raggiunto nel 1913 il 370% dopo l’aumento di salario torna ad un fisiologico 16% nel 1915. Il tasso di licenziamento scende dal 62% a quasi lo 0%. Il tasso medio di assenteismo passa dal 10% del 1913 al 2,5% del 2015.

Ford decide di investire la metà dei profitti della società in questo aumento salariale nel 1914, ma l’investimento da ragione l’imprenditore americano: la produttività passa dal 30 al 50%. Ed aumentano i profitti. Il costo per l’azienda per fare fronte al turn-over erano molto elevati, i nuovi assunti andavano formati e integrati nel ciclo produttivo e ogni sostituzione comportava un processo di ricerca e di selezione e soprattutto un nuovo processo di formazione ed integrazione.

Aspettando tempi migliori in cui a qualcuno verrà in mente che serve definire una strategia complessiva, la storiella di Ford e dei 5 dollari l’ora non è la storia del salario orario minimo, ma quella del salario in un contesto economico e produttivo in espansione, dove non esiste il part time involontario ad esempio, e dove aumentare il salario conviene all’imprenditore. Nel nostro caso non è chiaro a chi conviene il salario minimo, chi lo finanzia e come, cioè con quali risorse. Si può aumentare il potere di acquisto del salario tagliando in maniera significativa il cuneo fiscale, oppure chiedendo alle aziende di investire, o entrambe le cose.

Entrambe le ipotesi vanno sostenute in un contesto sempre più fragile economicamente ed economicamente. Siamo un paese che invecchia e che non ha la più pallida idea di come sostenere un welfare decente nei prossimi anni a venire. Gli stipendi in Italia sono fermi da trent’anni a dispetto dell’inflazione e dell’aumento del costo della vita perché tra le altre cose l’Italia negli ultimi 30 anni ha smesso di crescere, e per un paese basato sulla manifattura da export è un problema serio. Insomma non si cresce e le aziende, tolte alcune, non stanno benissimo.

Per la società contemporanea, convinta che il lavoro è il primo strumento per la dignità e la libertà delle persone, il lavoro povero è uno scandalo, Dal lavoro passa, o passava, la redistribuzione della ricchezza e con il lavoro si dava senso alle persone nelle comunità. Oggi non è più cosi, o almeno non è più sempre così. E in prospettiva potrebbe esserlo ancora meno visti i progressi delle macchine e del digitale, destinati a fare una parte sempre maggiore del lavoro che oggi è affidato alle persone.


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