Qualche giorno fa mi sono recata in visita alla Galleria Borghese a Roma.
Vi ero già stata precedentemente ma questa volta ci sono riandata per ammirare la mostra dedicata a Pieter Paul Rubens dal titolo accattivante “Il tocco di Pigmalione – Rubens e la scultura romana” a cura di Francesca Cappelletti e Lucia Simulato. La mostra si avvale di 50 opere eseguite dall’artista proveniente da importanti musei del mondo tra cui: il Prado, la National Gallery, il Louvre, solo per citarne alcuni.
Raccontare le opere è forse pleonastico, dal momento che esse ormai sono conosciutissime e, pertanto, sono diventate icone; ma vale la pena avvicinarsi ad esse per apprezzarne di persona tutto il bello che nessuna critica può più o meno avallare, visto che le sensazioni e le emozioni che ognuno prova in determinate circostanze sono assolutamente personali.
Perché “il tocco di Pigmalione”? Questo è interessante capirlo.
Pigmalione era uno scultore che disdegnava l’amore. La dea Afrodite, per punirlo, lo fece innamorare di una statua che, ovviamente, non poteva corrisponderlo; finché dopo le varie richieste da parte dell’interessato la dea, commossa, trasformò la statua in una donna in carne ed ossa.
Al cospetto delle opere di Rubens si corre il rischio di innamorarsene vista la bellezza e la umanizzazione delle stesse ma noi italiani, senza presunzione alcuna, non possiamo incorrere in questo tipo di pericolo in quanto siamo abituati a convivere con le meraviglie dei nostri grandi autori. Il nostro gusto si è affinato, siamo sì condizionati dalla “Grande Bellezza” ma allenati a simili emozioni quindi resistiamo a qualsivoglia paragone. La Galleria Borghese era la dimora di rappresentanza di Scipione Cappelletti Borghese, cardinale nonché collezionisti di opere d’arte, uomo di grande potere visto che si permetteva di commissionare opere ai più grandi artisti dell’epoca; pertanto, dobbiamo anche a Lui al suo “abuso di potere” se oggi possediamo opere artistiche dichiarate patrimonio dell’umanità. Lo scopo primario della mia visita era quello di soffermarmi maggiormente ad ammirare le opere di Rubens e così è stato. Opere splendide che rilasciano davvero le atmosfere di epoche passate come il Rinascimento e soprattutto le allusioni ottiche teatrali tipiche del Barocco sia nei dipinti sia nella statuaria.
Rubens pittore fiammingo precursore dell’arte barocca, la sua produzione artistica è legata alle corti europee dalle quali fu convocato per la sua fama di artista noto per la sensibilità emanata dai suoi corpi e dalla pienezza delle sue figure. In particolare egli fu convocato dai Gonzaga quale artista di Corte ove rimase per quasi tutto il soggiorno italiano che durò circa otto anni; nel frattempo egli poté osservare le opere di Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio e trovarne ispirazione a complemento delle sue intuizioni barocche già presenti nelle sue opere.
La visita è durata a lungo anche perché, fra tanta arte, ad un certo punto mi sono sentita rapita grazie anche all’allestimento delle curatrici in quanto le opere dialogavano tra di loro, perché messe in relazione le une con le altre. Le sale, in tutte venti, la prima si apre con una scultura del Bernini “Il ratto di Proserpina” del 1621/22 e con “Il Cristo risorto” del 1616 del Rubens. A seguire, senza un preciso ordine cronologico, troviamo passando da una sala all’altra, opere avvincenti quali “La verità” del Bernini 1646-1652 statua in marmo, incompleta; “La Apollo e Dafne” sempre di Bernini, opera meravigliosa; continuando l’autoritratto di Caravaggio in veste di Bacco, ed ancora, continuando incontriamo Raffaello con la sua “Fornarina” e la “Deposizione di Cristo”; Rubens con “Agrippina e Germanico” del 1614, “Susanna e i Vecchioni” e “Le tre grazie” del 1638. Non ultima la sala di Tiziano, bellissima dedicata in modo particolare allo “Amor sacro e all’amor profano” datato 1515.
Mi soffermo su questa opera in quanto la trovo assolutamente straordinaria essa attrae lo sguardo dello spettatore che diventa magnetico e allerta tutti i sensi; le due figure rappresentanti l’amore con lo stesso volto sembrano invitarci a quella allegoria dell’amore, al suo potere, anche se velata da una malinconia sottintesa nello sguardo freddo dell’amor profano. Tale atteggiamento viene giustificato da parte di quest’ultimo, rappresentato da una sposa, in virtù di un lutto subito dalla stessa in vista del matrimonio da parte dello sposo che, suo malgrado, poiché faceva parte del “Consiglio dei X” (uno dei massimi organi di governo della Serenissima) condannò a morte suo padre.
La mostra è stata davvero interessante al di là di quanto si può vedere la cosa più bella è stata percepire ciò che le opere; quindi, gli artisti che le hanno realizzate hanno voluto trasmetterci. Certo ognuno le interpreta a modo suo in base ai suoi concetti e in virtù della sua conoscenza artistica. Ma il bello sta proprio in questo, in questo pieno di luci ed ombre che si alternano rendendo sempre più vivo il dialogo tra pubblico e privato.
Non sempre però gli artisti riescono ad accettare il responso dei critici d’arte. A questo proposito mi piace ricordare un aneddoto capitatomi non molto tempo fa a Milano. A Palazzo Reale vi era una mostra bellissima dedicata a Felice Casorati che constava di ben 14 sale espositive. All’ingresso fu esposto uno scritto dell’autore nel quale dichiarava di non riconoscersi in ciò che i critici scrivevano di lui ma, visto il successo del suo operato grazie anche alle varie critiche, concluse che tutto sommato gli conveniva accettare di buon grado le varie considerazioni degli autorevoli critici.
Ogni spettatore è un critico se si potesse sarebbe bello sentire cosa pensano delle nostre critiche i grandi che ho appena visitato!
Da vedere in Galleria Borghese fino al 18 febbraio 2024.
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