STORIA DELL’IDEA DEMOCRATICA PARTE 3

Teorie del potere e forme di governo

29 ottobre 1647. Sono trascorsi più di ventuno secoli dall’epoca del racconto erodoteo, esposto nell’articolo precedente, e pochi mesi dall’atto provocatorio con cui il Parlamento inglese ha tentato di sciogliere in parte e in parte dividere, inviandone reparti in Irlanda, il New Model Army, il vittorioso esercito cromwelliano che ha appoggiato le rivendicazioni del Parlamento contro l’invadenza assolutista della Corona.

La reazione è immediata: le truppe, a cominciare dai cavalieri, eleggono dei propri rappresentanti, gli “agitatori” (agitators), per organizzare, vera e propria autoconvocazione, un’assemblea chiamata a decidere sul Patto del popolo – il primo, del marzo 1647, di altri che si succederanno e si diffonderanno numerosi – mentre fioriscono ovunque petizioni e si stabilisce uno spontaneo collegamento fra i radicali dell’esercito – dove ai presbiteriani si accompagnano e poi si contrappongono via via battisti, anabattisti, quaccheri e seguaci intransigenti di altre sette religiose – e i civili della City, dai monopolisti delle compagnie d’oltremare e della prospera borghesia commerciale urbana alla massa composita dei produttori indipendenti e degli artigiani delle gilde (è, insomma, l’embrione di quel Terzo Stato in tempestiva e caotica formazione che sarebbe esploso nel secolo successivo).

Nella chiesa presbiteriana di Putney, piccolo sobborgo di Londra che si affaccia sulla sponda del Tamigi opposta a quella dove si alza il “palazzo” del potere, al chiarore delle torce, tra l’odore di cuoio e di paglia, si incontrano, insieme a Lords e gentiluomini di campagna, “scarponi sudici”, ex-sarti, ex-calzolai ed ex-fabbri, mercanti, coltivatori diretti delle Contee, non pochi fra i quali militanti religiosi radicali, come i livellatori, pronti a trasferire direttamente sul piano politico il loro spirito entusiasta e contrattualista, per non parlare degli zappatori, propugnatori di un vero e proprio assetto comunistico della proprietà.

Nell’arco di pochi ma intensi giorni si svolge il dibattito, per la parte che ci interessa, in quella chiesa in cui sono entrati i residui della storia medievale ma da cui usciranno i protagonisti della storia moderna protesa verso il liberalismo e la democrazia. Non a caso, il presbiterio, l’organismo composto di pastori e anziani liberamente eletti dai parrocchiani, simboleggia bene, oggettivamente, con la sua struttura singolarmente democratico-comunitaria (anche se poi gerarchicamente inquadrata), quella storia politica futura che nei vivaci dibattiti di Putney trova i suoi eloquenti incunaboli.

Ancora una volta, come più di due millenni prima in Persia, assistiamo a una fervida fase costituente, espressa da una tumultuosa situazione economico-sociale, culturale, religiosa, rivoluzionaria. E proprio questo spirito costituente, che alimenta la discussione promossa dagli “arrabbiati” dell’esercito del Parlamento, che ormai ha scoperto e rivendica la propria soggettività politica autonoma e indipendente, sembra anticipare di quasi un secolo e mezzo la situazione di emergenza e, anzi, di “eccezione”, con cui gli Stati generali, in Francia, autoproclamandosi Assemblea Nazionale, inaugureranno la grande Rivoluzione.

Nel terrore e nel tumulto di quei pochi giorni, dal dibattito (che, naturalmente, si prolungherà ben oltre) emerge chiarissimo l’obiettivo: discutere e decidere sul governo, a partire dal nuovo fondamento del potere, quel diverso principio di legittimazione per cui, come si esprime un testo di pochi mesi successivi al Patto del popolo del 1647 sottoposto all’approvazione dell’assemblea, “noi riteniamo che i governanti e i magistrati siano stabiliti nel loro ufficio dagli uomini, prima che da Dio, e che non vi è autorità di origine divina se non quella che è stata riconosciuta dal popolo per mezzo di un reciproco accordo (si tratta della petizione del gennaio 1648, che qui si cita da I puritani. I soldati della Bibbia, a cura di U. Bonanate, Einaudi, Torino, 1975, p. 178.). Diritto naturale del popolo alla scelta dei governanti attraverso un contratto sociale che – come sostiene Robert Overton in collaborazione con William Walwyn nella Protesta di molte migliaia di cittadini del libero popolo inglese alla loro Camera dei Comuni (1646) – giunge fino a una esplicita dichiarazione di repubblicanesimo di fronte agli “enormi errori che comporta una monarchia” (I puritani,cit., p. 148): “se i re vogliono dimostrarsi magistrati rispettosi della legalità devono provare la legittimità dell’origine della loro autorità: essa deve provenire da una trasmissione fiduciaria volontaria da parte del popolo” (I puritani,cit., p. 157. Superfluo ricordare quella lex regia de imperio che la tradizione giusromanista trasmette al dibattito medioevale). Si colga lo stretto nesso posto, pur nella distinzione, fra legalità e legittimità).

Ritroviamo, dunque, la contrapposizione della democrazia (repubblicana), come già nell’Otane erotodeo, al governo tirannico o, in ogni caso, assoluto dell’uno.

Questa, dunque, l’atmosfera rovente in cui si collocano i dibattiti di Putney su cui torneremo ma che, per ora, ci interessano solo nella prospettiva dei due significati di democrazia già intravisti nelle pagine dello storico di Alicarnasso, per cui – come osserva Maximilian Petty durante il dibattito – “prima che esistesse il governo, ogni uomo aveva il diritto di votare” (Putney. Alle radici della democrazia moderna. Il dibattito tra i protagonisti della “Rivoluzione Inglese”, a cura di M. Revelli, Baldini & Castoldi, Milano, 1997, p. 84), chiaramente richiamandosi alla democrazia “originaria” come teoria ascendente del potere.
Ed è da questo presupposto radicale che discende poi la vivace dialettica fra coloro che (da Oliver Cromwell a Henry Ireton) si richiamano, in base alla vigente costituzione – non scritta – e alle “leggi di questo paese”, all’impegno istitutivo del “nuovo modello” quale esercito del Parlamento in difesa delle garanzie rivendicate nei confronti della invadente Corona e coloro che, invece, richiamandosi alle leggi di natura e alla legge di Dio (quindi, della coscienza) più radicalmente spingono il discorso fino alla pattuizione di una nuova Costituzione sulla base, appunto, del Patto del Popolo.

Posizione quest’ultima, che, portando alle estreme conseguenze le premesse, sfocia nella repubblica “democratica”, caratterizzata addirittura dal suffragio universale maschile contrapposto a quello censitario difeso dai moderati.

Ma, di nuovo, ciò che mi preme sottolineare è l’affiorare del duplice significato di democrazia: quello “costituente”, che vede i rappresentanti dell’esercito – vero “spaccato del popolo inglese molto più rappresentativo di quanto lo fosse la Camera dei Comuni” (C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del ‘600, trad. it., Einaudi, Torino, 1981, p. 47) – auto-convocarsi in una vera e propria assemblea, appunto, costituente; e il significato “tecnico-istituzionale” della forma di governo prospettata dall’ala oltranzista (livellatori e zappatori), il cui campione è il colonnello Thomas Rainsborough. Ma entrambe le parti convergono nella convinzione che – come dice Cromwell – “la radice e il fondamento della sovranità sono nel popolo e esso le afferma nei Parlamenti” (Putney, cit., p. 59), proprio come echeggiato in Rainsborough, per il quale “il fondamento di ogni legge risiede nel popolo” (Putney, cit., p. 175) o come sostiene John Wildman, che “ogni governo dipende dal libero consenso del popolo” (Putney, cit., p. 89); salvo a dividersi sul significato di quest’ultimo, come appare dall’intervento di Ireton: “In ogni regione, in ogni paese, l’origine del potere di fare leggi, di decidere quale debba essere la legge del Paese, risiede nel popolo”(ma per popolo vanno intesi coloro che rappresentano gli interessi permanenti del Paese).

Non si fermano qui le analogie con la pagina erodotea riportata nel precedente articolo (e con quelle affermazioni richiamate di Aristotele), se, per esempio, prendiamo in considerazione quanto si sostiene nel Patto del popolo libero inglese, firmato da John Lilburne, William Walwyn, Thomas Prince e Robert Overton dal fondo della Torre di Londra dove erano detenuti, il 30 aprile 1647: “Ogni persona sappia obbedire non meno che comandare”.

L’idea centrale, dunque, di questo patto liberamente stipulato tra cittadini (pur da intendere secondo diversi parametri di estensione) sta nel presupposto dell’uguaglianza politica, rivendicata da quel “popolo” che, sconfitta la Corona, è cosciente di essersi riappropriato dell’autorità. Concetto che è ben sintetizzato da quanto si riferisce che William Dell avrebbe detto a Oxford, nel 1646, nella sua congregazione composta in prevalenza di soldati: “Il potere è in voi, il popolo; tenetevelo, non separatevi da esso”.

E questa uguaglianza-parità fra le persone-cittadini ci fa da buona guida per un terzo scenario creato dalla ragione “fantascientifica” o, meglio, “fantapolitica” della seconda metà del secolo XX.


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