SALVIAMO IL CAVALLO

LA RAI TV compie 70 anni, una storia grande che parte dal bianco e nero ed arriva al digitale. E che, come Scrive Giancarlo Governi in un articolo sul settantesimo della RAI TV su “Il Mondo Nuovo” in uscita martedì in edicola e nelle principali librerie e supermercati “non è soltanto storia della comunicazione ma è storia della società italiana, del suo sviluppo e della sua crescita.”

E’ storia degli italiani quindi: “oggi la televisione italiana compie 70 anni, ma quest’anno si celebreranno anche i 100 anni della madre di tutti i media, la Radio. Non si può, e non si deve, raccontare la storia della Televisione senza prima aver raccontato una breve storia della Radio.”

Pubblichiamo di seguito una parte dell’articolo di Governi All’interno de “Il Mondo Nuovo” da Martedì 20 Marzo in edicola 70 anni di RAI Tv

La radio fu usata dal fascismo come strumento di propaganda, per veicolare i modelli di comportamento del regime, ma anche come mezzo di ricreazione. In quegli anni nascono le grandi orchestre e soprattutto vengono lanciati i primi cantanti italiani di musica leggera a livello nazionale (quelli che potranno fregiarsi del titolo “cantante della radio”). Nascono anche le prime radiocronache sportive: Nicolò Carosio, l’inventore della radiocronaca di calcio, inizia la sua attività proprio alla metà degli anni Trenta, imponendo un modello che sarà seguito per molti decenni.

La radio “fece la guerra”, nel senso che fu usata come strumento di propaganda dal fascismo, ma fu usata anche come strumento di sovversione dalla forze della Resistenza, attraverso “Radio Londra” che molti italiani presero l’abitudine di ascoltare clandestinamente nel chiuso delle loro case. Nel dopoguerra, la radio ebbe per un decennio (e forse più, fino all’affermazione della televisione) la stessa funzione che avrà la televisione negli anni del miracolo economico. Fu, cioè, il collante degli italiani che attraverso la radio venivano non solo informati ma anche intrattenuti. Insomma la radio fu al centro della vita degli italiani che la tenevano nel punto più importante della casa, vi si sedevano davanti e la guardavano.

Molti personaggi del teatro e del cinema (primo fra tutti Alberto Sordi, ma anche Billi e Riva, Mario Carotenuto, Franco Parenti e moltissimi altri) realizzarono per la radio trasmissioni di grande successo. In quegli anni nacquero molti generi radiofonici, come la rivista, e nacque anche il Festival di Sanremo. Grazie alla radio di quegli anni, gli italiani conobbero il grande teatro di prosa e la grande lirica.

La radio declinò alla fine degli anni Sessanta, soppiantata dalla televisione. Ma ci fu uno scatto d’orgoglio alla fine dei Sessanta, quando con i suoi programmi andò ad occupare gli spazi che la televisione aveva ancora lasciato liberi. Nacquero in quegli anni programmi come Hit parade, Alto gradimento, Chiamate Roma 3131, Buon pomeriggio…Alla radio nascono e si formano personaggi che diventeranno protagonisti della televisione, primi fra tutti Corrado e Luciano Rispoli.

Raccontare la radio oggi non è fare una operazione di nostalgia, poiché tra l’altro sono ormai pochi quelli che hanno vissuto gli anni ruggenti delle onde medie e corte. E’ fare invece opera di divertente informazione, di ricostruzione di una epoca e dei personaggi principali che hanno “inventato” e realizzato questa grande e popolare forma di spettacolo e di informazione, quella in cui nulla si vedeva ma tutto si immaginava: un mare in tempesta realizzato con una mano agitata in una bacinella d’acqua, una voce “portata” che simulava l’avvicinarsi di un personaggio, una porta cigolante che richiamava ad un pericolo imminente nel castello di Barbablù.

E i mille trucchi della radio, il suo “uccellino” che fu cantato dalle canzoni, i riti di massa, le riviste come Rosso e nero o La Bisarca, che spingevano gli ascoltatori – abbandonata la primitiva cuffia delle radio a galena, che i ragazzi del dopoguerra ancora costruivano con le proprie mani – a mettersi davanti e attorno alla radio come fossero in teatro. L’apparecchio era ormai quello a 5 valvole, la supereterodina con l’ipnotizzante occhio magico e veniva piazzato sulla credenza, o sul controbuffet, come oggi si fa col televisore, mentre i bambini andavano a curiosare dietro, per vedere se c’erano dei nanetti che parlavano e cantavano… «Abbassa la tua radio per favor…» sussurrava Rabagliati e Gigi Beccaria rispondeva: «Quando la radio/trasmette da Torino/vuol dir stasera/t’aspetto al Valentino».

Massimo D’Azeglio, un illustre politico del Risorgimento che fu anche un fine intellettuale, all’indomani dell’unità nazionale disse: “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani”. D’Azeglio sapeva che l’unità era stata fatta fra popoli che poco avevano in comune e che la loro unità risaliva addirittura all’epoca romana, decaduta la quale la Penisola era stata oggetto di un frazionamento che aveva portato coloro che ne ostacolavano la riunificazione (Metternich su tutti) a considerarla una semplice “espressione geografica”. Anche se la aspirazione ad essere nazione era stata ipotizzata addirittura da Dante, cinque secoli prima.

Tutto questo per dire che gli italiani, più che la politica o la scuola che poi fu riservata a pochissimi, li ha fatti la televisione la quale, quando arrivò in Italia alla metà dei Cinquanta si inserì in un contesto estremamente frastagliato. Un contesto fortemente ricettivo perché soggetto alle suggestioni del nuovo mezzo ma difficile da governare proprio per le profonde diversità.

A meno di dieci anni dalla fine della guerra mondiale e della caduta del fascismo, gli italiani non parlavano l’italiano. Le stesse persone colte in famiglia e in privato si esprimevano nel loro dialetto, quasi a sottolineare il fatto che la lingua italiana che avevano appreso a scuola dovesse essere riservata alla letteratura e alla ufficialità burocratica e non alla quotidianità.”

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