DRAGHI DIXIT: IL MERCATO NON BASTA

Il mercato non basta, la crescita non è infinita, le magnifiche e progressive del mondo globale non producono ricchezza e benessere automaticamente (anzi !!!). È arrivato il momento di ripensare la politica fiscale e di redistribuire le risorse, (visto che il lavoro non ridistribuisce più quasi nulla…)

Contrordine compagni, dunque: per tornare a crescere serve tassare, e redistribuire…

Il mercatismo ed il turbo liberismo che ha segnato gli ultimi trent’anni non piace a Draghi: il discorso di Super Mario a Washington, al Nabe, Economic Policy Conference, in occasione del conferimento del premio “Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award” è praticamente un manifesto, potente nell’analisi e nella critica e efficace e concreto nella proposta, sul che fare rispetto alle crisi economiche, geopolitiche ambientali e sociali che negli ultimi anni hanno preso forma, consistenza ed evidenza.

L’analisi è semplice e non è nuova: che il mercato da solo non basti ormai lo hanno capito anche i più entusiasti sostenitori del neoliberismo mercatista, così come è chiaro che serve andare oltre e rimettere al centro dell’agenda politica il tema delle disuguaglianze e della partecipazione. La parte importante del discorso di Draghi sta nella proposta e nel ruolo che lo Stato deve avere: buona amministrazione, o buon governo, e più politica.

Una politica orientata a ridurre le disuguaglianze e le divisioni tra vincitori e vinti che uccidono la democrazia, e a rinvigorire la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Lo strumento per fare questo secondo Draghi è una nuova politica fiscale. Un tabù ed un rimosso collettivo in questi anni.

Vale la pena ascoltare integralmente il discorso di Super Mario o di rileggerne alcuni passi.

“Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale.

Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto.

E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale.” Invece la “convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale” non è avvenuta e le politiche messe in campo hanno avuto “conseguenze sociali -che- si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione”.

In parole povere la globalizzazione sorretta da un pensiero unico dominante che vedeva il mercato come la soluzione di qualunque problema, economico o sociale o politico, non ha mantenuto le sue promesse, “non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi”.

L’effetto dice Draghi, è stato che “la percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti.

Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione.”

In un sistema già sofferente la pandemia prima, la guerra dopo, ha scoperchiato il vaso di Pandora: le contraddizioni di un sistema tutto schiacciato sulla crescita e su una sostanziale incapacità di redistribuire le risorse e la ricchezza generata sono ritornate prepotentemente nel discorso pubblico, dall’emergenza climatica al costo sociale dell’automazione e della digitalizzazione del lavoro.

Conclusione: serve una nuova politica fiscale.

“La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito.
Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria.”

Draghi dixit. Tassare per crescere e ridurre le disuguaglianze per salvare la democrazia quindi.

PS Qualche anno fa si parlò di WEBFARE, cioè di un welfare sostenuto dalla tassazione dei profitti generati dal web e dai dati, non se ne fece nulla, anzi, le big 5 del web sono diventate ancora più ricche ed ancora più potenti. Troppo potenti, una potenza che probabilmente non piace più nemmeno ai nuovi grandi potenti del mondo che dovrebbero apprezzare un sistema di poteri in equilibrio. Se il valore sta nel dato del resto, inutile tassare il lavoro. Necessari tassare chi raffina il dato e che oggi genera il vero valore….

Serve una “politica umanista di salute pubblica. Non è più la speranza apocalittica della lotta finale. Ma la speranza coraggiosa della lotta iniziale: necessita che si restaurino una concezione, una visione del mondo, un sapere articolato, un’etica, una politica. Essa deve animare non soltanto una resistenza preliminare contro le gigantesche forze della barbarie che si scatenano ma anche un progetto di salute terrestre. Coloro che raccoglieranno, la sfida verranno da orizzonti diversi poco importa sotto quale etichetta. Saranno i restauratori della speranza.” (Edgar Morin 2022)


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