CARA AMICA LO SO. LO SO BENE, E TI CAPISCO.

Anche io ho provato lo stesso disgusto e la stessa amarezza di fronte al comportamento di un Senato che in poche ore ha mandato all’aria una terapia d’urgenza rivolta ad un ammalato grave nel momento in cui stava rialzando la testa e cominciava a respirare autonomamente dopo un lungo coma farmacologico.

D’altra parte cosa vuoi di più, proprio l’altro giorno, durante la nostra chiacchierata in macchina dicevamo come “i partiti”, che la Costituzione vuole possano concorrere a determinare la politica nazionale, siano diventati comitati d’affari che chiedono voti a suffragio universale e li ottengono da meno della metà degli elettori. Sono tali comitati a nominare i componenti del Parlamento senza alcun rapporto diretto con gli elettori e solo per il proprio interesse di parte. A questo punto il gioco democratico è già falsato, è cambiato lo scopo per cui si gioca.

Aumentare il propio bacino di voti (operazione legittima) a qualunque costo e con qualunque metodo (operazione illegittima) confonde tutta quella parte della popolazione che non conosce più neanche le basi della struttura istituzionale dello Stato in cui vive e, se la conosce non si fida. Apri il giornale di oggi e leggi della rissa da parte dei segretari dei partiti della coalizione di destra per il nome del prossimo presidente del consiglio. Peccato che il dettato costituzionale imponga tale nomina come prerogativa del capo dello Stato, i partiti possono anche indicare un nome, è la prassi e non la lettera, ma se il Presidente ne scegliesse un altro in grado di avere la maggioranza in Parlamento non sarebbe uno scandalo e nemmeno una posizione illegittima. Qualsiasi discussione in merito serve solo a diffondere ignoranza e mediocrità e a togliere la corrente che alimenta la forza delle istituzioni democratiche dando l’idea che “chi vince comanda”, una variante alle vongole della monarchia assoluta. Ti ricordi per caso di quando Berlusconi urlasse da tutte le sue reti del pericolo del ribaltone? Mi pare fosse il 1994 e la Lega usci dal governo causandone la fine. Il Presidente dette l’incarico a Lamberto Dini che formò un nuovo governo. Le trombe acustiche della destra berlusconiana sancirono l’illegittimità di quel governo non guidato da chi aveva vinto le elezioni e convinsero molti teleadepti distribuendo nel paese una manciata di semi di antipolitica e di mediocrità che generarono piante che oggi sono alberi solidi e imperturbabili. Bene, ragiona con me, la Costituzione dice chiaramente essere legittimo qualsiasi governo che abbia la maggioranza del Parlamento.
Così il marchio di illegittimo, (non riconosciuto dalla legge) è rimasto ed è servito per confondere ulteriormente le idee.

Come sai non temo troppo l’ignoranza. Un ignorante è solo una persona che non ha avuto la fortuna di incontrare i maestri giusti nella vita, temo la mediocrità per due motivi. Un mediocre è felice di esserlo e non riconosce alcuna abilità, alcuna autorità, alcun sapere, in più la mediocrità ha un potere dirompente contro il quale le armi della ragione e della logica sono totalmente spuntate. La logica e la ragione sono i pilastri sui quali abbiamo costruito la civiltà, pensa il pericolo e comprendi il disgusto: tuo e mio. È il mondo dei mediocri che produce quello a cui abbiamo assistito, il Draghicidio, come qualche giornalista lo ha chiamato, è solo una manifestazione evidente di questo pensiero che produce, per sopravvivere, la meritofobia ormai imperante, nel nostro paese, in ogni ordine e grado. La mediocrità produce apparente sicurezza, rende incapaci di ogni ribellione, peccato che il disequilibrio delle idee e la messa in discussione delle proprie sicurezze produca, secondo il mito greco e secondo le scienze cognitive, amore, passioni, sapere, conoscenza. Tutto il contrario, oppure, questo sarebbe panico, tutte cose di cui il pensiero non avrebbe più bisogno.

La mia età mi ha permesso di vedere il tanto vituperato ’68, che certamente ha abbattuto molti muri, come un evento che costruì in me l’idea che la forza della ragione avrebbe prevalso comunque. Non avevo fatto i conti con i privilegi distribuiti ad arte in cambio di voti (lo chiamavamo sottogoverno) che avrebbero radicato trincee inespugnabili di balneari, tassisti, evasori, politici incompetenti e incompetenti in senso generale con funzioni dirigenziali ai quali non puoi più togliere quello che hai elargito se non a costo di un conflitto che sarebbe comunque poi stato vinto da chi avesse promesso gli stessi privilegi alle stesse condizioni. Così sono morti i partiti e nati i comitati d’affari elettorali di cui discutevamo insieme. Nessuno escluso, purtroppo. Anche noi avevamo le nostre trincee immaginarie all’interno delle quali ci sentivamo al sicuro pur non avendone alcun motivo. Era una nostra presunzione ideologica, la nostra mente lavorava come se, voltato l’angolo, tutti sarebbero stati della nostra parte. Si sprofondò in quel clima a poco a poco, fino al momento in cui la scintilla cominciò a provocare ardore nei nostri pensieri.

Facevo il liceo in una città di provincia, il seme che cominciò a germogliare prima di ogni ideologia, era quello delle argomentazioni ipotetico deduttive coerenti, qualcosa che ha a che fare con la lettera che ti ho scritto la scorsa settimana. Cominciavamo a capire cosa fosse la filosofia, non quella che studiavamo a scuola, la storia della filosofia, ma quella che si praticava al “muretto” cercando le ragioni nell’origine del pensiero, nelle pieghe della storia, nel sapere.

Ci si scontrava, certo, il dogma contro la necessità di dimostrare l’evoluzione dei fatti attraverso l’esperienza, due gruppi contrapposti entrambi dalla parte del torto, se volete sapere come la vedo oggi, ma in ogni caso un luogo e un tempo dove dalle sezioni dei partiti alle parrocchie, dai circoli universitari al bar centrale, si faceva cultura.

Si dava voce al nostro trial clinico sulla capacità di argomentare per sconfiggere il male.

E a proposito di cultura, ora ti racconto una cosa. Era il 16 Gennaio 1977, tu avevi circa 10 anni, ero segretario della cellula di fisica del PCI e questo mi consentì di avere un invito per accedere al teatro Eliseo e ascoltare dal vivo le conclusioni del convegno su intellettuali e politica tenute da Enrico Berlinguer. Oggi, se guardi alla storia, una giornata memorabile, uno di quei giorni in cui posso dire c’ero ed apparire ai tuoi occhi più vecchio ancora, pazienza. Si era parlato di “austerità”. L’austerità era una mossa economico politica tesa al risparmio delle spese dello Stato oltre che alla limitazione dei consumi privati che fu imposto per superare una congiuntura economica ed una crisi energetica.
Come vedi te la spiego per esteso per evitare che se dovesse ricapitare per via dei tempi che viviamo tu sappia che l’abbiamo già vissuta.
Nella testa di Enrico Berlinguer, e nella mia in modo convinto, c’era la dichiarata convinzione che l’attuazione di una norma restrittiva potesse essere strumento di depressione o occasione per la trasformazione della società e quindi strumento di giustizia e di libertà, a seconda di chi la indirizzasse e per quali fini ultimi.
Mi sembrava di sentire la parola Krisis che in greco ha una notazione positiva perchè induce ed indica una possibilità di cambiamento. La crisi energetica degli anni ’70 era una crisi del modello di società e era chiaro come la borghesia al potere non fosse in grado di dirigere quel modello per uscire dalla crisi. Il peso che rischia di far soccombere la società intera e con la democrazia e la giustizia sociale almeno nelle forme in cui in quegli anni si era costruita era troppo grande per essere spostato a mano, occorreva costruire una leva, una macchina che necessita di un punto di appoggio per dosare e moltiplicare le forze. Quel giorno, Enrico Berlinguer, individuò la cultura come il fulcro dove poter appoggiare l’asta.

Guarda la differenza con le considerazioni sull’oggi che facevamo insieme, la politica come ampia visione del bene comune contro una politica che è solo ingegneria del consenso, questa diventa un generatore di ingiustizie ed un precipitato di sottocultura.

La cultura non è un genere, un dominio, un ghetto o un club esclusivo che si possa inserire nella storia o nella economia secondo il proprio piacere o la propria convenienza, è il substrato morale di idee, è un modo di fare le cose che produce la capacità di discernimento, che costruisce la coscienza e quindi genera l’azione. Se mi permettete un paragone in un campo che mi è più familiare della filosofia, la cultura secondo Gramsci e secondo il Berlinguer di quel giorno è molto simile a quello che succede in una soluzione chimica quando si genera “un precipitato “, una reazione che produce elementi non solubili. Improvvisamente questo nuovo composto si presenta come un solido all’interno del liquido e cade, sedimenta creando un substrato sul quale ci si può appoggiare anche senza averlo direttamente generato.

Ricordo che Berlinguer, a noi giovani militanti disse “La produzione di cultura sia artefice del rinnovamento”. Quindi un partito politico può e deve essere un produttore di cultura, capisci, produttore, significa farla qui ed ora. Ma produrre cultura significa indirizzare la costruzione di un senso della vita dalle cui radici possa partire un cambiamento. Parole che possono contrapporsi alla meschinità del calcolo politico inteso come sopravvivenza di potere.

Capisci bene che partendo da queste premesse la lettura dei programmi elettorali di oggi mi provoca solo irritazione.

Oggi non ho più quei 25 anni e proprio per questo ho la possibilità di raccontarti le mie sensazioni di ieri e le mie analisi di oggi che coincidono per moti aspetti con le tue, ti scrivo solo per darti un supporto critico a quello che provi come senso di sconfitta. Il venticinquenne di allora ti avrebbe detto di essere al centro di un cambiamento epocale ed inevitabile per la salvezza della civiltà, eravamo pieni di forza, di energia e con alle spalle statisti, visioni e una organizzazione come il PCI. Poi le istituzioni sono state messe in pericolo molte volte, pensa a Moro, e gli eventi sono finiti affastellati gli uni sugli altri come portati da un fiume in piena, indistinguibili rottami che solo una analisi storica precisa potrebbe catalogare.

Berlinguer non parlava di una difficoltà temporanea, di una contingenza, non c’è tattica nel suo pensiero, ma la necessità di contrastare la manifestazione di un collasso strutturale di cui lo spreco e lo sperpero sono un segno e una causa insieme, di cui l’esaltazione dei particolarismi e dell’individualismo sfrenato. Questo messo insieme alla visione di Pier Paolo Pasolini, ucciso appena due anni prima, ma del cui sguardo in avanti eravamo tutti consci e affascinati. In noi che immaginavamo l’afflato di un collettivo costruito per la solidarietà e il progresso sociale non c’era l’idea che tutto potesse frantumarsi in una molteplicità di io senza volto per essere poi un “noi” omologato e indistinto, che significa far parte del branco, affiliati a una tribù costruiti con cose che non ci piacciono pur di essere accettati e non rimproverati dagli altri, per essere come sono gli altri, una crema insapore alla ricerca di piccole certezze purché comprensibili senza sforzo alcuno. Questo “noi” non era il nostro. Cambiare il significato di un pronome costa meno fatica che cambiare la coscienza di una classe di intellettuali.

A proposito di Pasolini ti riporto un suo pensiero del 9 gennaio 1975 registrato in una intervista di Luisella Re che puoi trovare in archivio e leggere per intero. All’artista si chiede una previsione per il futuro, proprio quello che non si può chiedere allo scienziato, Pasolini risponde:

Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come”. 

Pensa ai genitori che aggrediscono i docenti per un voto insufficiente ai figli, pensa all’utilitarismo di chi ha votato il parlamento la fine del governo Draghi e capisci da sola l’utilità di un artista e la forza della mente umana per la quale la cultura di cui ti sto raccontando è una palestra meravigliosa.

Il progresso è lotta, e la lotta per il progresso è incerta e coincide con quello che ti dicevo nella scorsa lettera a proposito della antiscienza, non voglio citarmi, ma se ricordi ho indicato “quelli che preferiscono false certezze alle incertezze” come gli artefici del pattume della nostra cultura di oggi che produce “l’andare avanti a tentoni”.

Ora basta annaspare, questa volta ti do ragione completamente, basta con la ricerca del consenso privo di idee, basta con i programmi elettorali fatti di mance e di privilegi, occorre costruire una civiltà intorno ai valori fondanti, occorre imparare a confrontarsi con altre civiltà sviluppatesi in questi decenni, occorre comprenderne le cause e occorre parlare ai giovani, gli unici in grado di poter cambiare davvero le cose. Il venticinquenne che è ancora in me sa di aver fallito, ma non molla, forse perchè la trincea protettiva del ’68 è ancora solida e scavata, reperto storico, ma insieme segnale di ribellione. Controlliamoli i nostri candidati, a partire dalla fattibilità dei programmi e anche dall’uso del congiuntivo visto che vorrebbero andare a sedersi dove sedettero De Gasperi, Nenni Togliatti, Berlinguer e tanti e tante altri.

Scusa la foga, sai che quando mi prende la mano divento un fiume in piena, se stai leggendo la lettera e sei stanca fermati, un po’ di fresco ed un bicchiere di vino, anche questo serve.

Tuo affezionatissimo
Aldo


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