IL MORTO HA CATTURATO IL VIVO, CONVERSAZIONE CON FERDINANDO ADORNATO

Ferdinando Adornato, laureato in filosofia, giornalista, dopo una militanza giovanile nel Partito Comunista Italiano (è stato direttore della rivista La Città Futura, periodico della FGCI) pubblica nel 1980, con la filosofa ungherese Ágnes Heller, il libro intervista Per cambiare la vita. Ha lavorato a Panorama e a L’Espresso, collabora a la Repubblica come editorialista e pubblica per Rizzoli il pamphlet Oltre la sinistra. Nel 1992 è tra i fondatori e leader del movimento di Alleanza Democratica, viene eletto alla Camera dei Deputati alle politiche del 1994. Nel marzo 1995 fonda il magazine Liberal.

Tra il 1996 e il 2001 Adornato non fa politica in parlamento. Dal 1999 inizia a scrivere anche per Avvenire e per il Giornale, spostandosi nell’area di centro-destra. Alle elezioni politiche del 2001 viene rieletto deputato per la Casa della Libertà, in rappresentanza di Forza Italia.

Quando nel 2008 Silvio Berlusconi annuncia la nascita del Popolo della Libertà come partito unico del centrodestra, Adornato decide di non parteciparvi “non si può liquidare un partito e un progetto politico in tre minuti dal predellino di un’auto”, lascia quindi Forza Italia per aderire all’UDC di Casini, da cui uscirà, insieme allo stesso Casini nel 2017. Non si ricandida più alle elezioni politiche del 2018.

Dal 2005, per tre anni, ho collaborato con lui e con Renzo Foa.

1. il movimentismo nella politica italiana: nasce negli anni cinquanta e continua per tutta la seconda metà del secolo scorso. Il fenomeno della frammentazione dei partiti: quando una corrente diventa abbastanza grande determina una scissione. E’ avvenuto nel Partito Comunista come nel Partito Socialista, nel Movimento Sociale e nel Partito monarchico e nel Partito radicale. Poi in forza italia e nei 5 stelle. Forse in Italia il sistema dei partiti è fragile. 

In realtà, fino alla fine degli anni Settanta l’Italia ha goduto (o sofferto, dipende dai punti di vista) di uno dei sistemi di partiti più forte al mondo. Dc, Pci e Psi organizzavano quasi l’80% dei consensi elettorali e, soprattutto i primi due, disponevano anche di un’ampia e articolata platea di collateralismi. La partitocrazia non era un’invenzione giornalistica, ma la realtà della particolare fisionomia italiana del rapporto partiti-Stato che, fin dal dopoguerra, si era strutturato in un relais sistemico che si potrebbe definire post-fascista, tanto forte era il legame tra burocrazia, famiglie politiche, corpi intermedi e apparati istituzionali.

Certo, nei partiti di sinistra (meno rilevante il fenomeno a destra) lo “spirito di scissione”, malattia endemica dei soggetti politici di origine ideologica, si è più volte esibito nelle sue famigerate “rotture” figlie di una mai sopita “presunzione di purezza” ma, tutto sommato, nessuna di esse è mai riuscita a determinare svolte storiche nella rappresentanza. Con il Sessantotto le cose sono cambiate.

La solidità della partitocrazia cominciò a traballare, come aveva capito, tra i primi, Aldo Moro. Basta rileggere l’articolo che il leader dc aveva preparato per “Il Giorno” e che fu trovato nella sua automobile il giorno del rapimento. Astuzia della storia. Proprio il suo rapimento e il suo assassinio avrebbero determinato un “cambio di paesaggio” nel rapporto tra partiti e popolo che, come si diceva, era già maturo da almeno un decennio. Il nodo della crisi fu proprio la contraddizione tra una società che cresceva in termini di cultura, informazione, stili di vita, innovazioni industriali e tecnologiche e un sistema dei partiti che, proprio a causa della sua invasività, appariva ormai anacronistico.

Sarebbero state necessarie profonde riforme del sistema istituzionale e, non a caso, proprio alla fine degli anni Settanta, dal congresso del Psi di Torino venne lanciata la proposta di una Grande Riforma. Ma nulla si mosse. Perciò, da quel momento in poi, la potenza politica della partitocrazia, giorno dopo giorno, cominciò a franare. La lenta caduta di quell’impero trasformò in enti fragili, e spesso vilipesi, i gloriosi apparati di un tempo. Fino al violento epilogo che venne chiamato Tangentopoli. Oggi viviamo ancora dentro la storia di quell’epilogo.

Nessuna ricostruzione sistemica è stata approntata. Di conseguenza abbiamo perfino assistito a una radicale contestazione della democrazia rappresentativa. Solo altre due volte, nella nostra storia, si era arrivati a coltivare simili sentimenti popolari contro la “casta” parlamentare: al tempo dell’avvento del fascismo e, appunto, nei dintorni del ’68. Ma mentre nei due casi precedenti tali sommovimenti si collocavano ideologicamente contro l’incedere dello sviluppo capitalistico (la prima volta da destra, la seconda da sinistra) nel nostro tempo storico, viceversa, le rivolte antipolitiche hanno sposato le rivoluzioni tecnologiche dei nuovi apparati industriali, fino a diventare paladine di una nuova utopia, quella della democrazia digitale. La velocità del clic contro la lentezza delle procedure politiche.

Allora, la domanda da porsi diventa ancora più inquietante: la civiltà digitale che, indubitabilmente, è fondata sull’ “immediatezza” potrà convivere con la democrazia liberale che, altrettanto indubitabilmente, era ed è il regno della “mediazione”? 

2. la Democrazia Cristiana è rimasta compatta e ha governato per mezzo secolo. Solo perché era Cristiana. Come è potuto accadere. 

La Democrazia Cristiana ha certo governato per un tempo storico lunghissimo. Ma definirla “compatta” non sembra appropriato. Andrebbe piuttosto ricordato, e forse ristudiato, il suo particolare “centralismo democratico” basato sulla strategica articolazione in correnti. Da quelle “di destra” a quelle “di sinistra” esse riuscivano a coprire un tale ventaglio eterogeneo di posizioni da rendere la Dc inafferrabile, come il mitico Proteo. L’aggettivo “cristiana” sembrerebbe definire un partito identitario: viceversa i suoi volti erano multiformi e le sue identità variabili.

Certo, se si fosse trattato di un partito di sinistra avrebbe subito a dir poco una decina di scissioni. Al contrario, la sua forza è stata proprio la capacità di governare quella “unità nella diversità” che ne disegnava l’intima costituzione interna. Tralascio, perché più scontate, le considerazioni sulla rendita di posizione di cui la Dc godeva a causa della collocazione internazionale dell’Italia durante la guerra fredda e anche a causa dei cronici ritardi storici del Pci nell’acquisire una netta identità riformista. Vorrei, infine, annotare che nel sistema post-fascista, cui prima accennavo, la caratterizzazione della Dc come partito-Stato era certamente il pilastro determinante.

A lungo, del resto, nel corso della sua storia, in tanti (compreso Aldo Moro) si sono lamentati di come il “partito dei valori” per antonomasia avesse ceduto il passo a un “partito di puro potere”.  

3. Nel 1958 la visita del presidente della repubblica Giovanni Gronchi a Mosca: ci fu la prima firma per la fornitura di gas russo all’Italia. Era il tentativo di cambiare la politica estera italiana affidando al nostro paese un ruolo di neutralità che aveva le sue radici all’interno della Democrazia Cristiana in cui alcune correnti erano contrarie al Patto Atlantico.

Il “neutralismo” italiano fu una corrente forte, anche se non sempre manifesta, delle classi dirigenti italiane. Nella Dc l’esponente più in vista era certamente Giulio Andreotti, ma anche negli altri partiti, e più in generale nella cultura politica italiana, non mancavano sponde assai significative. Non direi però che tale corrente fosse contraria al patto Atlantico. Piuttosto ritengo che essa rappresentasse tre tendenze di fondo della nostra cultura diplomatica. La prima è la “Realpolitik”: l’attenzione, cioè, pur partecipando alla Nato, di non considerare mai l’Alleanza come un ideologico partito preso, non smarrendo perciò la necessità e la voglia di fare i conti con tutte le potenze in campo.

Mantenendo, così, in ogni caso inalterate solide relazioni di amicizia. Si tratta di una postura che ha avuto peso non solo in Italia, ma in tutta la cultura occidentale. Basti pensare che il massimo interprete di questa tendenza fu Henry Kissinger non a caso protagonista di una storica amicizia con Giulio Andreotti. La seconda, assai meno nobile, era costituita dall’istinto, questo sì tutto italiano, di voler tenere sempre il piede in due scarpe, pronti se necessario a cambiare, anche repentinamente, il nostro posto nello scacchiere internazionale. E’ lo stesso istinto che ci ha reso assai poco credibili nel mondo, essendo una nazione che non ha mai finito una guerra nello stesso campo nel quale l’aveva cominciata. La terza tendenza, infine, assai forte nella cultura cattolica, era rappresentata dal sentirsi investiti, in quanto Paese chiave della Chiesa di Roma, di una missione universalistica che, in quanto tale, rifiutava ogni stringente appartenenza politica e tanto meno militare.

Queste tendenze, però, per fortuna, non sono mai riuscite a incrinare la nostra convinta (e necessitata) partecipazione all’Alleanza Atlantica. Rifletterei piuttosto sul fatto che la firma di quel trattato sul gas russo che ricordi, era figlio del fallimento della Ceca, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, che certamente rappresentava la prima vera idea d’Europa. Quel fallimento è giunto a decretare le sue nefaste conseguenze fino ad oggi, prima con gli accordi Merkel-Putin (per prima responsabilità della pur tanto celebrata leader tedesca) esempio di grave sottovalutazione della strategia geopolitica russa, e poi con il ricatto sulle forniture cui siamo stati e siamo ancora sottoposti da parte di Mosca.   

4. Ucciso Aldo Moro, tentarono di uccidere Berlinguer e Giovanni Paolo II. Contemporaneamente Berlinguer teorizzava il compromesso storico commentando il Cile, rivendicava il partito di lotta e di governo davanti ai cancelli della Fiat e i quadri facevano la marcia dei 40.000: è un periodo della storia del nostro paese.
Chi traeva vantaggio dalla crisi.

Il cuore della storia che ricordi è rappresentato dall’intesa tra Moro e Berlinguer per aprire una nuova fase della vita repubblicana dopo aver dato vita a un primo comune governo di solidarietà nazionale. La strategia del compromesso storico si incontrava così con il progetto moroteo di una “terza fase” che avrebbe dovuto far seguito alla prima, il centrismo, e alla seconda, la stagione del centro-sinistra. Tutto venne stroncato dall’assassinio di Moro. Nessuno sa chi diede l’ordine di ucciderlo. La mia impressione è che i mandanti offrirono “la preda”, con una sorta di macabra asta, ai diversi soggetti che componevano il mercato della criminalità mondiale. E l’asta fu vinta dalle Brigate Rosse, le quali però posero come condizione quella di non volerlo uccidere subito, ma di farlo prigioniero per un periodo di tempo utile a tenere “sotto ricatto” lo Stato italiano. Ma, ripeto, si tratta solo di una mia immaginazione. Come che sia, era del tutto evidente che forze occulte, dell’Est come dell’Ovest, guardavano con forte ostilità qualsiasi “emancipazione” del Pci (e dell’Italia) dai vincoli della guerra fredda. Il risultato fu che, assieme a Moro, nel bagagliaio di quella Renault rossa, com’è stato più volte osservato, si trovò metaforicamente anche il corpo politico di Berlinguer. Il segretario del Pci fu allora costretto, per poter continuare a governare il suo partito, a esaltare la “diversità morale” del Pci e a incamminarsi lungo la strada di un’opposizione assai dura, perfino di stampo operaista, cui fece seguito, come tu ricordi, la marcia dei quarantamila. Furono momenti bui e contorti della storia del Paese.

Nessuno, in realtà, trasse vantaggio da quella crisi. Non la Dc che, oltre a perdere il suo leader più intelligente e prestigioso, si trovò di colpo senza strategia e dovette cominciare un lungo e faticoso braccio di ferro con il Psi. Non il Pci che, oltre ad aver subito un duro colpo politico con la fine dell’illusione governativa, non sarebbe mai più riuscito ad imboccare la “via riformista” rimanendo soggiogato nella gabbia del confronto-scontro con Craxi. Una sorta di amore-odio dal quale il Pci non riuscì mai a liberarsi, costretto in una sorta di “nec tecum nec sine te vivere possum”. Di lì a poco il paesaggio politico italiano sarebbe cambiato e tutti i partiti che avevano retto la Prima Repubblica scomparsi. E non c’è dubbio che l’atto originario di questa “rivoluzione” fu l’assassinio di Moro.

5. Quando iniziò la consapevolezza nel gruppo dirigente del Partito Comunista che la storia del Comunismo volgeva alla fine. E quali furono le ragioni per le quali Berlinguer si rifiutò di concorrere alla unità della sinistra proposta da Craxi.

Sarei tentato di rispondere mai. Solo Enrico Berlinguer, secondo me, aveva davvero chiaro che il Pci, rimanendo nel “campo comunista” non sarebbe mai potuto andare al governo. E, dunque, viveva nell’ansia di “smarcarsi”. Tanto per capirci, se la direzione comunista avesse potuto votare la sua famosa intervista a Pansa sulla Nato, non l’avrebbe certo approvata. In realtà non ci fu mai, anche dopo il 1989, una chiara consapevolezza dell’ “errore comunista”. Perfino al tempo del cambio di nome, la mai sopita “doppiezza” riuscì ad attribuire a quella svolta un carattere storicamente obbligato e, dunque, in fondo, meramente tattico. 

Prova ne sia che il funerale di quella che era stata una delle più grandi storie del Novecento non fu accompagnato da nessuna solenne riflessione. Da nessuna orazione funebre degna di questo nome. Il comunismo era un sogno, poi diventato un incubo: ma nessuno dei suoi protagonisti ebbe mai il coraggio di sdraiarsi sul lettino dello psicoanalista. Ivano Fossati in Una notte in Italia cantava “delle idee che vanno a morire senza farti un saluto”.  Il comunismo italiano è finito esattamente così. Il vero paradosso fu che i vincitori di quella storia, e cioè i socialisti riformisti, pagarono anche loro il prezzo di quella nuova fase della storia politica nella quale la parola sinistra si trovava ormai in fuorigioco.

6. Quali e quanti furono i tentativi di colpo di stato in Italia a partire dal 1945. E perché fallirono tutti. E perché l’unico riuscito è quello di Tangentopoli. Chi aveva interesse a destabilizzare il sistema politico italiano. Quali sono stati e sono tutt’oggi gli elementi di destabilizzazione del sistema Italia: per quali motivi e con quali fini.

Non sono mai stato persuaso del fatto che l’Italia abbia rischiato davvero un colpo di Stato. Da Junio Valerio Borghese a Gladio credo piuttosto che si sia trattato di movimenti interni agli apparati dello Stato pilotati da qualcuno che intendeva ricattare qualcun altro. Tangentopoli, invece, è tutta un’altra questione.

Tu lo chiami “colpo di Stato” e capisco perché. In fondo è stata Tangentopoli a seppellire tutti i partiti che avevano guidato l’Italia nel dopoguerra, circostanza inedita, che non ha eguali in nessun altro Paese occidentale. Personalmente mi trattengo dall’usare quell’espressione perché ho nitida, davanti agli occhi della memoria, la storia del lento suicidio delle nostre classi dirigenti. Nessuno ha mai avuto chiaro il rischio che correva l’Italia rimanendo a lungo senza riforme. Ho già richiamato come nel 1978 a Torino il Psi avesse lanciato la Grande Riforma.

Quello era il tempo giusto per cambiare l’assetto dello Stato e il rapporto tra partiti e popolo. Ma com’è noto, lo ripeto, non se ne fece nulla. Eppure se un corpo malato resta senza cure, il tracollo è inevitabile: e il corpo politico non è diverso dal corpo umano. Dico questo per darti una prima risposta sul perché Tangentopoli ha vinto. E’ arrivata a colpire un corpo sfibrato, esangue, ormai privo del consenso necessario per governare una democrazia matura, e per giunta difficile come quella italiana. La seconda risposta è purtroppo molto semplice: ha vinto perché è stato costruito, per la prima volta, e in modo straordinariamente efficace, un circuito mediatico-giudiziario (come poi è stato chiamato) che ha trasformato legittime inchieste giudiziarie in un processo di popolo contro il Potere. Non parlerei per questo di colpo di Stato, semmai di rivoluzione, nel senso giacobino del termine. Una certa imprenditoria stanca della burocrazia politica e ansiosa di una modernizzazione istituzionale, il nuovo grande ceto medio in crescita di aspettative, l’informazione figlia del ’68 che si immaginava nel ruolo di quarto potere “all’americana”, sapendo, però, che, una volta fatta fuori la politica, avrebbe potuto dominare incontrastato il campo. Tutti questi elementi hanno cooperato a far sì che i magistrati potessero tagliare il potere come il burro. Essi si sono dunque sentiti investiti di una missione salvifica: e laddove si creano sentimenti del genere, rispettare le regole e la verità diventa sempre un dettaglio. Si sa, il fine giustifica i mezzi.

Come in Dieci piccoli indiani di Agatha Christie sono stati tanti a sferrare i colpi mortali sul corpo della Repubblica italiana. Senza dimenticare ciò che dicevo prima: la predisposizione al suicidio di una classe politica, incapace di riforme e pigra nel leggere correttamente i segnali del tempo storico. Chi aveva interesse nel mondo a destabilizzare l’Italia, aveva già raggiunto il suo scopo con l’eliminazione di Aldo Moro. Dopo di che gli italiani hanno fatto tutto da soli. Con una tenacia pari alla cecità. Infatti, oggi il sistema è destabilizzato negli stessi termini di allora.

Se era grave non aver riformato lo Stato vent’anni dopo in seguito all’emersione dei primi allarmi, alla fine degli anni Settanta, figuriamoci oggi che ne sono passati quaranta!  Quasi mezzo secolo senza riforme in una situazione nella quale i circuiti della democrazia non funzionano e i partiti non esistono più. Non a caso, per ben due volte nell’ultimo decennio, abbiamo dovuto sospendere la “normale” (si fa per dire) dialettica politica e chiamare al capezzale del malato due demiurghi extrapolitici, prima Monti e poi Draghi. 

7. Il fallimento dell’azione politica e culturale di Gianfranco Fini: traghettare il vecchio Movimento Sociale postfascista in un moderno partito della destra nazionalista e conservatrice. 

Non parlerei di fallimento. Quale che sia il giudizio sugli avvenimenti, anche giudiziari, che hanno segnato la fine della sua carriera politica, non si può negare che il fondatore di Alleanza Nazionale abbia avuto un ruolo storico nell’emancipare la sua parte politica dal ghetto in cui la storia  l’aveva relegata. La svolta di Fiuggi rappresentò, nel ‘95, il primo significativo passo verso la “normalizzazione” della destra, che fece allora la pace con il mercato e il capitalismo, mentre Fini dichiarava di considerare il fascismo il “male assoluto”. E’ perciò, del tutto evidente che anche la nascita e lo sviluppo di Fratelli d’Italia, compreso l’efficace protagonismo di Giorgia Meloni, sono comunque figli della sua azione. Il suo imperdonabile errore (nel senso che neanche lui se lo perdona) fu, viceversa, l’adesione al Pdl. Dopo che Berlusconi era salito sul famoso predellino per annunciarne la nascita, Fini aveva giustamente commentato “siamo alle comiche finali”. Evidentemente erano solo semi-finali perché poi decise di sciogliere An e aderire al “nuovo” partito. Se non l’avesse fatto, probabilmente, sarebbe ancora in campo. In quel periodo, prima della nascita del Pdl, cercai, nell’occasione di numerosi incontri convocati ad hoc, di convincere Fini e Casini a costituire un nuovo comune soggetto politico che avrebbe potuto presumibilmente contare sul 15% dei consensi. Un soggetto che, collocandosi nella parte centrale della Casa delle libertà,  lasciasse Forza Italia e Lega sulla sponda destra dell’alleanza. Devo dire che ci siamo andati vicini.

Ma, alla fine, vecchi reciproci pregiudizi hanno avuto la meglio. Peccato. Sarebbe stata un’operazione assai positiva, non solo per i protagonisti ma anche per l’insieme del sistema politico italiano. Voglio infine annotare che, personalmente, ho molto apprezzato l’umiltà con la quale Fini ha lasciato la scena politica dopo decenni di protagonismo. Un decoroso silenzio l’ha accompagnato lontano dai riflettori. Non è stato mai semplice, per un politico, gestire il proprio tramonto, specie se ancora in età attiva. Lui l’ha fatto con grande dignità. Gliene va dato atto. 

8. Il ruolo della comunicazione e dell’informazione nella formazione dell’opinione pubblica: nasce nel servizio pubblico RAI la tv populista (Samarcanda). Per quale ragione la stampa italiana e la tv non sono mai state autonome dai grandi gruppi industriali e dai partiti politici. Per anni si è discusso, polemizzato e legiferato sul sistema televisivo nazionale. L’attenzione dei partiti si concentrava sul duopolio RAI-Berlusconi. Poi un giorno, governante Berlusconi, Murdock introduce Sky nel sistema e qualche tempo dopo, una dopo l’altra, entrano nel sistema televisivo nazionale otto major USA senza che nessuno fiati.

L’imprenditoria privata italiana si è raramente trovata in condizioni di effettiva autonomia, in un Paese nel quale il sistema delle partecipazioni pubbliche la faceva da padrone. Analogamente, il giornalismo italiano, cartaceo o televisivo, salvo rare eccezioni, ha sempre svolto una funzione “integrata” alla politica. Il combinato disposto di queste due “tossicodipendenze” ha fatto in modo che l’imprenditoria giornalistica non abbia mai potuto assumere un ruolo simile a quello svolto in altre democrazie occidentali. Tant’è vero che quando Berlusconi sconvolse il panorama creando Mediaset, il primo impulso del sistema fu quello di cercare di stabilizzare nuove forme di “cooperazione politica”. Per questo motivo lo stretto rapporto del Cavaliere con Bettino Craxi fece nascere la guerra delle tv, che determinò perfino la caduta di un governo. Tale guerra ovviamente si rinvigorì quando, alla fine della Prima Repubblica, Berlusconi, dopo aver tentato una “liaison” con Segni, decise di rappresentarsi in prima persona anche nel palinsesto politico. Se torniamo con la mente ai decenni di questa storia ci accorgiamo come anoressia di innovazione, approssimazione, provincialismo e vassallaggio politico siano state le vere madri delle contraddizioni che descrivi. In buona sostanza, il simbiotico legame tra Potere, Industria e Informazione ha reso l’Italia una sorta di caricatura di dittatura, in ogni caso abbastanza distante dai rapporti standard di una “normale” democrazia liberale. Vorrei poi ricordare come il piccolo schermo sia stato, da sempre, il vero Dio della nostra vita pubblica. Dai tempi del bianco e nero fino all’avvento dei social che ha ormai cambiato l’intero contesto. Prova ne sia che, nei decenni scorsi, anche il grande giornalismo cartaceo ha finito per riprodurre il modello di “infotainment” delle tv.

Forse su importanti organi d’informazione, come il New York Times, Le Monde, il Frankfurter Allgemeine, The Times, troviamo notizie di spettacolo, costume, cronaca nera, sparate in prima pagina a titoli cubitali, come spesso e volentieri ci capita sul “Corriere della Sera”, “Repubblica” o altri quotidiani italiani? Eppure, nonostante questi trucchi “popolari”, le vendite sono continuate a scendere. Si pensi infine al fatto che abbiamo scoperto la modernità dei canali tematici o delle testate specializzate solo dopo l’avvento di Sky. Insomma, dal punto di vista dell’informazione siamo sempre stati un Paese di serie B. Facciamocene una ragione.

9. Dal PCI a Liberal nel 1995 a la nuova strada nel 2003 con forza italia e infine il partito di Casini. Il perché di un simile percorso. “per non essere più nè ex nè post” hai scritto. Basta questo?

No, non basta. E’ difficile parlare di se stessi, ma ci provo. Dovrai però avere un po’ di pazienza, perché devo partire da lontano….Entro al liceo nel 1968. Aderire allora al Pci, se da una parte significò una “rottura” con la mia famiglia, dall’altra rappresentò per me un rifiuto dell’estremismo extraparlamentare che, come sai, era in gran voga nella generazione di quel tempo. Ci rimasi all’incirca dai 16 ai 29 anni. Andai via dopo essere entrato in frizione con la direzione del Pci per le posizioni che assumevo attraverso il settimanale da me fondato con l’evocativo nome di “Città Futura”. Ero stato attaccato da Berlinguer nel Comitato Centrale e allora capii che tra il Pci e il concetto di libertà, che pure era stata la molla della mia adesione, c’era un discreto baratro. Come è ovvio mi sentivo disilluso e amareggiato, perciò decisi di abbandonare del tutto la vita politica per dedicarmi al giornalismo. Eppure, ripensando a quegli anni, resto comunque grato a quel partito per aver contribuito in modo determinante alla mia crescita.

Allora in politica (non solo nel Pci) al contrario di oggi, era necessario frequentare lo studio ed esibire una qual certa postura di serietà. Cose che, credo, mi sono rimaste dentro, perché in definitiva sono state il mio “romanzo di formazione”. Giornalismo allora: prima Panorama, poi l’Espresso e “Repubblica”. Ma la politica, una volta amata, ti resta nell’anima. Così quando Segni scese in campo con i suoi referendum partì il richiamo della foresta. E, siccome nel 1991 avevo scritto “Oltre la sinistra”, invocando la nascita di un Partito Democratico sul modello americano, decisi di passare dalle parole ai fatti e fondai Alleanza Democratica come nucleo embrionale di un progetto che poteva unire Segni e la parte riformista del Pds, assieme ai socialisti liberali e ai repubblicani.

Lo spazio visibilmente c’era ed era grande: tanto che, con questo schema conquistammo molte grandi città, da Roma a Genova a Torino. Ma prima delle elezioni del 1994, il Pds si tirò indietro, pensando di poter vincere da solo. Non aveva però fatto i conti, com’è noto, con la forza immaginifica di Berlusconi. In ogni caso il progetto di un grande Partito Democratico era ormai fallito. Sarebbe stato ripreso molti anni dopo, in modo non solo tardivo ma anche claudicante. Rimasi fino al 1996 in Parlamento, poi ne uscii e fondai liberal, ritenendo che tale fallimento fosse stato dettato soprattutto da un deficit culturale dei partiti italiani, in specie di cultura liberale. Vedi, Giampaolo, sbagliato o giusto che fosse, il mio sogno era quello di un Paese finalmente pienamente occidentale retto da un moderno bipolarismo. Diciamo meglio: il sogno, in realtà, era quello di un Paese politicamente semplificato, bipartitico. All’americana o all’inglese (all’epoca si poteva dire anche alla francese o alla tedesca, oggi meno). I cinque anni successivi, nei quali mi dedicai a liberal, sondai allora la possibilità che, fallito l’inizio a sinistra, il progetto bipartitico potesse prendere le mosse dal centro-destra. Ottenute rassicurazioni in tal senso da Berlusconi accettai allora la candidatura del Cavaliere.

Devo dire che, nel corso della legislatura 2001-2006, ci siamo andati vicini, con tanto di Costituente convocata e di Carta dei valori scritta di un Partito che avrebbe dovuto chiamarsi Partito delle libertà. Ma, alla fine, anche da quella parte del campo, prevalsero pigrizie e miopie. Così quando il Cavaliere, nel 2007, salì su quel famoso predellino a Piazza San Babila, lanciando l’idea dell’ennesimo partito carismatico, non certo dotato di stabili regole democratiche, capii che anche lì la storia era finita e lasciai Forza Italia. E dopo aver proposto, come ti ho già raccontato, quel nuovo progetto comune ad An e Udc, una volta che Fini entrò nel Pdl, restai con Pier Ferdinando. Credo risulti chiaro dal mio racconto che a me non stava tanto a cuore la vittoria della sinistra o della destra (concetti che con liberal avevo cercato di superare) quanto la vittoria di un’Italia moderna nella quale la democrazia dell’alternanza fosse fondata su basi politiche e culturali solide. Insomma, certamente ho voltato la gabbana alla sinistra, come mi è stato ripetutamente rimproverato, ma non ho mai voltato la gabbana al progetto bipolare che era il mio unico pensiero forte. Era quello che mi stava a cuore e ho cercato di perseguirlo, in tutti i modi e in tutti i campi di gioco, con intransigente coerenza. Si è trattato però, come ormai oggi è ampiamente dimostrato, di un fallimento totale.

“Questo di tanta speme oggi ci resta” direbbe il poeta. All’Italia non è riuscito di dar vita, dopo la Prima Repubblica, a un nuovo assetto dello Stato e del sistema politico. Tutti i partiti hanno preferito restare risucchiati dal passato, preferendo rimanere ex o post delle loro vecchie ideologie piuttosto che costruire un futuro nuovo e libero. Come Hegel e Marx avevano profetizzato “il morto ha catturato il vivo”.
La vendetta contro tali arrugginite paure si è purtroppo poi materializzata con il discredito generalizzato della politica. Forse ormai è troppo tardi: ma l’unica chance rimasta, fallite tutte le riforme elettorali, è quella di riuscire a passare all’elezione diretta del Capo dell’Esecutivo.
Che, non a caso, la Meloni, unica vera leader politica in campo (l’unico altro è Renzi) ha nel suo programma. Solo uno choc di questo tipo potrebbe forse costringere il sistema a mutar forma e sostanza. Ma il mio, ormai, è appena un sussurro.
Di illusioni di questo tipo, infatti, è lastricata la via dell’Inferno, cioè dell’inafferrabile caos politico nel quale siamo ormai immersi.


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