IL GOVERNO CI HA MESSO LA FACCIA…MA ERA MEGLIO LA TESTA

“[…] In passato lo Stato ha preferito occuparsi di altro, erano talmente complesse che metterci la faccia era considerato pericoloso. Noi mettiamo la faccia su materie complesse, difficili da risolvere”.

Così Giorgia Meloni risponde alle vicende non solo di Caivano ma anche di Palermo e in generale di tutte le periferie. Che le materie in questione siano complesse sono pienamente d’accordo. Che metterci la faccia sia ciò che basti a risolverle sono pienamente in disaccordo. Perché più che la faccia, questo governo sembra averci messo il pugno, il proverbiale pugno di ferro. Anche se sono state presentate come “Decreto Caivano” ad essere state approvate il 7 settembre sono Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile. Già parlare di ‘urgenza’ fa capire quanto non sia stato solo “lo Stato del passato” a non aver messo testa sulla formazione della persona. Ma sorvoliamo per un attimo gli ultimi cento anni di storia della scuola italiana.

Di questo decreto solo una sezione tocca positivamente la scuola. Il decreto prevede, infatti, un potenziamento dell’organico attraverso incentivi sottoforma di punteggio agli insegnati. L’abbandono scolastico, unico tema in effetti di povertà educativa nel decreto, diverrebbe punibile con fino a due anni di reclusione. Per il resto le parole d’ordine del decreto sono vietare e punire.

Si parla di Daspo urbano (divieto d’accesso a particolari aree della città), di divieto dell’uso di cellulari, d’introduzione di cauzione cautelare e pericolo di fuga per i quattordicenni, di perdita di potestà genitoriale, della possibilità di trasferire minorenni dalle strutture per i minori alle carceri (tanto lo spazio c’è, il personale anche e l’offerta rieducativa pure…almeno finché non ci sarà un’altra urgenza), e in generale di un insieme di misure che rende più semplice l’arresto da parte delle forze dell’ordine. Non è riuscito ad entrare nel decreto la proposta della Ministra Roccella sul divieto d’accesso ai siti porno da parte dei minori.

Tolti di mezzo i problemi (perché chiunque sostenga la valenza rieducativa delle carceri italiane dimostrerebbe di non avere la testa e perderebbe pure la famosa faccia), il Governo pensa di aver bonificato. Ma la criminalità minorile è anche il risultato del disagio giovanile e della povertà educativa e il pugno non risolve, al massimo estirpa non la criminalità, ma i criminali. E in contesti che non sono solo degradati ma anche degradanti, la chirurgia sociale non può essere una risposta valida. Occorre curare il sistema, non solo la parte. Il rischio è, altrimenti, quello di continuare ad amputare un pezzo alla volta.

Mi sarei sentito italiano e lo sarei stato per fortuna, come cantava Gaber, se ieri avessi letto la notizia che a fronte non solo degli ultimi casi di cronaca, ma della generale “frattura culturale” come la descrive il New York Times che il nostro Paese sta vivendo il nostro Governo avesse varato un decreto in cui il disagio giovanile, la povertà educativa e la criminalità minorile fossero stati affrontati con una riforma della didattica, con l’introduzione dell’educazione sessuale e sentimentale ad esempio e per iniziare, con un potenziamento non solo dell’organico della scuola, ma anche della sua linfa, ovvero degli studenti. Mi sarebbe piaciuto leggere che il governo avesse stanziato degli aiuti alle famiglie di questi ragazzi e ragazze; perché non è solo una bella strofa dei Pinguini Tattici Nucleari che “gli atti di violenza non tardarono a venire. Quando manca da mangiare solo l’odio si può ingerire”.

Sicuramente anche la collettività ha una grande responsabilità, perché argomenti così politici come l’istruzione, l’educazione e in generale la formazione e la dignità della persona non possono essere temi solo di decreti. E quindi mi autodenuncio quando dico che io non mi sento italiano, perché in questo caso, purtroppo, lo sono. Come lo sono le vittime, come i carnefici.


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