IL PUNTO DI
Dalle mele di Lagnasco e di Saluzzo al Barolo e agli altri grandi vini del nord Italia, ambasciatori del Made in Italy nel mondo. Il sistema dei caporali nell’agricoltura in Italia è legato a quello dei ghetti e delle baraccopoli sparse per il paese.
Tra i progetti finanziati dall PNRR ci sono quelli per superare i ghetti dove mettere i braccianti stranieri e 200 milioni sul piatto. Quasi tutti ancora da spendere…
NEIVE-ALBA
Per fare il Barolo, ambasciatore del Made in Italy nel mondo, ci vanno i braccianti sui campi. Che devono costare poco, nonostante il valore aggiunto del prodotto e il blasone del territorio. Lo stesso per il vino del Veneto. Il lavoro nei campi non è propriamente il più ambito dagli italiani, anzi, quindi per trovare manodopera disponibile bisogna cercarla dove c’è.
Questo principio vale anche per la frutta, gli ortaggi in serra, i pomodori, e si diffonde ovunque ci sia agricoltura, intensiva o estensiva poco cambia. Con l’aggiunta che la manodopera in agricoltura serve soprattutto in certe stagioni dell’anno, e che se non si raccoglie per tempo, si corre il rischio di buttare via il lavoro di un anno. Con le conseguenze immaginabili tanto per i prodotti quanto per i consumatori.
La storia di Satnam Singh, morto dissanguato in provincia di Latina, nel Lazio è uno dei tanti, forse il più disumano tra quelli raccontati dalla stampa. La cronaca di questa settimana ad esempio racconta dell’indagine “iron Road” su una vicenda di “ordinario” caporalato sui braccianti sfruttati nelle Langhe con pestaggi e malversazioni tra i vigneti pregiati delle Langhe. Il bastone di ferro è l’arnese utilizzato per picchiare un bracciante a Neive. Ad oggi gli indagati sono tre: un marocchino, un macedone e un albanese con una cinquantina di lavoratori identificati, perlopiù africani, ammassati in fabbricati fatiscenti in condizioni igieniche precarie e costretti a versare un affitto, che veniva trattenuto dalla loro paga, circa 4,5 euro all’ora spesso per 15 ore di lavoro nelle vigne del Barolo o del Moscato.
SALUZZO, LAGNASCO, CAVOUR
Il Piemonte non è nuovo alla questione del lavoro nero, o grigio, nei campi. E da queste parti è chiaro il legame tra il fenomeno del caporalato e quello della concentrazione abitativa dei migranti in baraccopoli che sono veri e propri ghetti indegni di un paese civile.
Saluzzo è a pochi chilometri ad Ovest rispetto ad Alba. Sede di un antico marchesato, città ricca e a forte vocazione agricola. Nota per la produzione di frutta, soprattutto di mele. Famosa la città di Lagnasco nel Saluzzese, famoso il festival della mela che si tiene a Cavour in autunno.
Saluzzo è uno dei comuni dove in questi anni sono sorti i famosi ghetti per ospitare i braccianti stagionali, indegne baraccopoli fatte di tende e di lamiere ai bordi dei centri abitati.
A Saluzzo piu di 10 anni fa, nel 2013, centinaia di braccianti, migranti provenienti perlopiù dall’Africa, si accamparono nella zona del Foro Boario. Ad occuparsi di queste persone praticamente solo il volontariato, in testa la Caritas locale, che allestì altri campi nella zona campi per contenere una situazione che peggiorava ogni anno di più, perché i lavoratori vivevano tra i rifiuti al punto che la tendopoli fu ribattezzata Guantanamo.
Nel 2018 vista la situazione insostenibile il Comune decise di sistemare i braccianti nell’ex-caserma Filippi, che fu trasformata in una sorta di centro di accoglienza per 368 persone, con letti, servizi igienici, docce e attrezzature per cucinare, esperimento poi interrotto per il covid, con i migranti ancora una volta costretti a dormire accampati dove capitava.
I GHETTI
Il fenomeno dei Ghetti, da Saluzzo a Rignano a Rosarno è noto alla politica e all’amministrazione al punto che nel PNRR sono stati previsti 200 milioni di euro per realizzare strutture di accoglienza da destinare ai migranti impegnati nell’agricoltura, strutture la cui realizzazione è in grave ritardo. Al punto che anche quest’anno si registrano tutte le avvisaglie del verificarsi di una situazione già vista e tristemente nota.
Gli stanziamenti del PNRR servono a superare gli insediamenti abusivi dove vivono migliaia di lavoratori agricoli, per lo più stranieri e spesso sfruttati, eppure questi fondi sono bloccati da mesi. Nel giugno del 2022 uscì un rapporto sulle condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare”, report curato da ANCI, associazione dei comuni d’Italia e dal Ministero del Lavoro.
Lo studio contiene una mappatura dei ghetti, con 150 insediamenti non autorizzati sparsi in Italia in cui vengono ospitati circa 10.000 immigrati: casolari, palazzi occupati, baracche, tende e roulotte. I soldi del PNRR servono a sostituire questi ghetti indegni e pericolosi con aree “attrezzate” fatte di moduli abitabili in aree dotate dei servizi necessari, acqua, servizi igienici e luce.
Il report e la mappatura dei ghetti serviva per definire le situazioni, comunque note da anni, su cui intervenire concentrando le risorse. Ad ogi i 200 milioni del Pnrr non sono stati spesi, e la situazione dei migranti e degli stagionali in agricoltura è sostanzialmente la stessa di sempre, nonostante alcuni ghetti simbolo del degrado siano stati smantellati o in via di superamento.
Nel 2022 i comuni dove è stata rilevata la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare erano 608, tra questi in 38 si registrano i cosiddetti “insediamenti informali” o “insediamenti spontanei”, in altri termini strutture abusive e comunque non autorizzate, che secondo il rapporto richiedono interventi “prioritari”, quasi tutti nel Sud Italia.
UN PRIMATO EUROPEO: BORGO MEZZANONE
La baraccopoli di Borgo Mezzanone, frazione pugliese che ospita braccianti e migranti da tutto il mondo dopo trent’anni è stata smantellata. Il ghetto era soprannominato “La Pista”, perchè si era sviluppato nell’area della pista di atterraggio dell’ex aeroporto militare usato durante la guerra del Kosovo. Borgo Mezzanone è 20 minuti di macchina da Foggia raggiungibile attraverso una strada invasa da da montagne di spazzatura, liquami di ogni tipo e carcasse di animali morti.
Dal 2003 al 2013 il ghetto cresce esponenziale e le baracche si estendono lungo tutta la vecchia pista di atterraggio, con punte di 5000 persone nei mesi di raccolta del pomodoro, fino ad essere la baraccopoli più grande d’Europa dopo lo smantellamento de “La giungla” di Calais nell’ottobre 2016.
La Pista ospitava all’inizio albanesi e romeni, poi nigeriani, camerunensi e somali. Nel ghetto in media vivevano 4000 persone, in un non luogo in cui c’erano posti di ritrovo, ristoranti, bar, minimarket, una moschea e una chiesa pentecostale. Il prezzo medio di un posto letto era 30 Euro al mese, piu 70 euro per l’allaccio alla luce, abusivo e pericoloso come come tutto il resto nel Ghetto. Molti luoghi di ritrovo per una economia sommersa un contesto di illegalità e di abusivismo: alcuni locali erano gestiti dalle “mamy” nigeriane che procurano ai clienti droga, prostitute e altro. Il mercato degli stupefacenti sintetici e dei farmaci era fiorentissimo: non solo hashish e cocaina, ma anche il Rivotril, il famigerato Anafranil, l’MDMA Ecstasy e vari altri farmaci venduti di contrabbando tra cui il tramadolo*, la “droga del combattente” o “delll’Isis”, da sniffare all’occorrenza per reggere a ritmi di lavoro impossibili. Ovviamente nel ghetto c’erano i caporali a caccia di braccia nuove e di energie fresche.
Gli esperti dicono che cancellare un ghetto è impossibile, e che il disagio lo si può spostare o mescolare, ma non eliminare. La scelta di concentrare e ghettizzare come fino ad ora si è fatto però sembra davvero fuori dalla storia. Per smantellare la baraccopoli il Pnrr ha disposto oltre 50 milioni di euro: sono arrivate le ruspe e sono state avviate le bonifiche. Un primo passo sicuramente importante, ma che non basta ovviamente. Gli insediamenti sono veri e propri GHETTI strutturali, parte di un sistema di sfruttamento del lavoro funzionale alla “tenuta” di un sistema stretto tra il basso valore aggiunto della produzione, le dinamiche del della distribuzione e la fragilità delle imprese del settore.
L’agricoltura in Italia vale in termini di occupazione circa un milione di addetti per 413 mila imprese agricole, in termini assoluti i lavoratori dipendenti sono il 3,4% degli occupati in Italia.
Il valore del comparto è significativo: il fatturato dell’agroalimentare sfiora i 600 miliardi mentre il valore aggiunto è pari a 335 miliardi, ovvero il 19% del PIL nazionale.
L’eccellenza del made in Italy e della sua enogastronomia dovrebbe passare anche dalla qualità del lavoro delle persone senza le quali il barolo semplicemente non si farebbe più.
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