ELZEVIRO #3 CHIACCHIERA

La chiacchiera: parole vane, discorso fatto per passatempo, abbondanza di parole, parlantina, fare due, quattro chiacchiere; parlare del più e del meno; dal francese claque, ovvero il batter le mani, claque, lo scoppiettare, quindi dall’inglese to clack, strepitare, quindi al tedesco klagen, lamentarsi.

Secondo gli etnoantropologi, la chiacchiera può essere vista come una forma linguistica di “grooming”, ovvero quel comportamento di pulizia reciproca osservato tra i mammiferi, che serve a consolidare legami e riaffermare gerarchie all’interno di un gruppo sociale. Analogamente, nelle interazioni umane, la chiacchiera crea e rafforza connessioni, favorisce la coesione del gruppo e aiuta a regolare le dinamiche sociali. Attraverso di essa, le persone condividono informazioni, esperienze e opinioni, aggiornandosi sugli eventi e sugli stati emotivi del gruppo. Sebbene spesso il contenuto possa sembrare banale, come parlare del meteo o di notizie quotidiane, l’effetto principale è il rafforzamento del senso di appartenenza e della fiducia reciproca. In questo senso, la chiacchiera funge da “manutenzione” dei legami sociali, dove il contenuto specifico è meno rilevante rispetto al contesto di connessione che si crea.

Per questa funzione di ‘tolettatura’ la totale infondatezza della chiacchiera, da un punto di vista linguistico, non è un impedimento per la sua diffusione pubblica bensì un fattore determinante. La chiacchiera infatti dà la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere, e garantisce dal pericolo di fallire in questa appropriazione. E’ alla portata di tutti e non solo esime da una comprensione, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto e nulla di vero.

Quindi il discorso dell’umano ha in sé la possibilità della chiacchiera e, come tale, di non agire una comprensione del mondo, anzi di chiuderlo e di coprirlo in un grande chiacchericcio.

Ma la chiacchiera non è il risultato di un inganno voluto, essa non ha il modo di essere della ‘presentazione consapevole’ di qualcosa per qualcos’altro. Basta dire e ridire perché si determini il capovolgimento dell’apertura in chiusura. Infatti ciò che è detto viene senz’altro assunto come <dicente qualcosa>, cioè coprente. Per questo la chiacchiera, ‘rifiutandosi’ di risalire al fondamento di ciò che è detto, è sempre e precisamente un procedimento di chiusura.

Nella nostra letteratura esiste un uomo che viaggia su un tram, rappresentato come “posseduto” dalla chiacchiera e dalla ripetitività della vita moderna. L’uomo sembra quasi inconsapevole, immerso nella routine e nel chiacchiericcio interiore o esteriore che lo isola dalla vera comprensione della propria esistenza. – In un tram elettrico, il giorno avanti, m’ero imbattuto in un pover’uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente. — Che bella invenzione! — mi aveva detto. — Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano. Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover’uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n’andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc.

Da qui il termine proprio della Milano del miracolo industriale che descrive una persona che chiaccherando troppo produce saliva in eccesso, assumendo un aspetto poco gradevole. Il “bauscià” per l’eccesso di parole, si ritrova nel chiacchericcio, con la bavetta alla bocca, in una tolettatura sociale ma non significante. Dimostrando di aver bisogno di manutenzione – si come una macchina – ma non raggiungendo alcuna significazione.


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