UN’INFINITA CONVERSAZIONE

di Dalisca

Siamo nella settimana dedicata ad Halloween, il tempo in cui gli spiriti aleggiano per le strade, per le case, per i boschi creando panico e disperazione perché niente è più pauroso dello sconosciuto, di colui che viene da lontano.

Al Teatro Vascello di Roma è stato presentato la scorsa settimana, sotto l’egida di Roma Europa Festival, un lavoro realizzato da gruppo Motus: Frankenstein diptych (love story + history of hate).

L’opera, presentata in prima visione dallo storico gruppo fondato a Rimini nel 1991 da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, tratta di una delle creature ovvero “il mostro e il suo creatore Victor” più significative inventate da una scrittrice britannica Mary Shelley, figlia della filosofa Mary Wollstonecraft, antesignana del femminismo vissuta a cavallo tra due secoli 1797-1851.

La sua filosofia risente dell’illuminismo nonché, grazie anche alla sua unione con Percy Bysshe Shelley, poeta britannico tra i più romantici dell’Ottocento soprannominato per questo: “poeta nordico dal cuore latino”, dei concetti filosofici di quel secolo.

“Esisterò per sempre” ripete la creatura.

Una creatura strana che turba i sogni della scrittrice viene rappresentata attraverso il filtro della compagnia sopra citata e restituita al pubblico come un’idea “il cui vento continuerà a soffiare per sempre”, una continua ricerca dell’io, un riferimento interiore in grado di soddisfare il desiderio di andare oltre.

L’opera consta di due capitoli la prima parte (love story) della durata di 60 minuti e la seconda (history of hate) della stessa durata con un breve intervallo di separazione.

Nel primo capitolo si esplora il confine tra umano e non  umano con immagini confuse ottenute soltanto con teli bianchi che, agitati dal vento e accompagnati da  musiche appropriate, creano un’atmosfera alienante e tempestosa tipica di una persona che, in preda a strani sogni, rimane insonne per tutta la notte.

Nel capitolo successivo (history of  hate) si esaminano i motivi per cui, ad un certo momento, l’amore prima declamato si trasforma in odio e violenza e la “creatura” rimasta inascoltata, come nel  romanzo di Shelley, si trasforma in un mostro che invano cerca un posto nel mondo.

Durante lo spettacolo il pubblico rimane rapito da atmosfere che, oserei definire, surreali, ma che, comunque, dato gli argomenti e la recitazione adeguatamente consona, risvegliano in lui zone d’ombra che spesso vengono offuscate dal tran-tran quotidiano ma che albergano nei più reconditi anfratti dell’essere umano. Ecco, quindi, il miracolo. Improvvisamente risvegliati da un sonno atavico ogni spettatore, ogni singolo uomo a modo proprio, si cala in quello stato di ipnosi generale che gli consente di entrare in contatto con sé stesso.

Continuando nella seconda parte le luci diventano più lugubri e il video proiettato sulla quinta ci  mostra l’immagine di un bosco e di una donna in abiti ottocenteschi (Mary Shelly) che vaga tra gli alberi in cerca della sua collocazione.

Il suo cercare è un cercare pace, quiete in un mondo cattivo e violento che ha smarrito la parte migliore di sé, cioè quella umana: l’un contro l’altro armato in preda ad un istinto irrefrenabile di distruzione per tutto ciò che ostacola il suo intento animalesco.

Il riferimento al nostro tempo è molto chiaro, l’odio che ci attanaglia e le guerre in atto fanno sì che oggi non ci si fida più nemmeno di sé stessi intenti come siamo alle altrui e alla nostra distruzione, non vi è alcun segno di speranza nelle azioni e nelle parole dei protagonisti che avvertono la necessità di un cambiamento radicale della società e con essa dell’Homo Sapiens.

Alla fine, una voce disperata si leva e chiede: dove sei? Dov’è l’uomo?

L‘ensemble risulta prolisso, in particolare la seconda parte laddove si poteva tagliare lasciando più spazio al pubblico per riflettere e trovare in sé la soluzione migliore.

A volte la bravura e la maturità stanno proprio nel sapersi fermare per tempo, quando è necessario, come riteneva un grande regista, bisogna sacrificare anche le parti migliori di un’opera per non affastellare troppo la pièce.

Non sempre mostrare il tutto premia!


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