BANCHE, CONCORRENZA GLOBALE E POLITICHE EUROPEE

il grande disgelo bancario” verso dove, per cosa e con chi?

MAURIZIO BARAVELLI

La “Grande Partita” bancaria non è iniziata l’altro ieri con l’OPA di Unicredit (con soci primari americano e francese) su Commerzbank (tedesca) e non finirà oggi con l’OPS su Banco BPM a sua volta impegnato con una OPA su Anima (risparmio gestito) e la quota di rilievo in MPS. “In parallelo” abbiamo anche Generali che sta per unire le forze con Natixis Investment Managers (gruppo francese delle banche popolari) nel risparmio gestito al fine di “galleggiare” nella concorrenza con altri colossi europei come Ubs (svizzera), Allianz (tedesca) ed Amundi (francese). Certo, siamo in presenza di un sistema bancario nazionale “gonfio di utili miliardari” post Covid e grazie all’aumento dei tassi di interesse (ora in discesa), che andrebbero investiti per far crescere l’economia e non in operazioni “strutturali e strategiche” larvatamente di tipo speculativo.

“Grandi iceberg bancari” europei che si muovono alla ricerca di riposizionamenti strategici per una stabilità e forza competitiva in un’epoca di “scioglimento dei ghiacci” che si erano stabilizzati entro i confini nazionali prima e continentali poi: guardando in particolare alle forze titaniche degli iceberg bancari americani e cinesi in movimento negli oceani globali. Gli USA (con 100 milioni di abitanti in meno della UE) hanno visto aumentare in soli 15 anni il Pil dell’80% rispetto a quello UE rimanendo frammentata nei suoi 27 isolazionismi (con 27 eserciti, 27 sistemi bancari-finanziari, 27 sistemi industriali, 27 sistemi educativi, 5 borse valori). Quindi la strada della de-frammentazione sembra da perseguire e rapidamente. Ma le domande su queste operazioni continentali sono sempre le stesse: per fare cosa? Aumentare la concorrenza attraverso l’espansione delle economie di scala e/o l’efficienza operativa grazie un diverso posizionamento sui mercati del credito per una maggiore dominanza territoriale?

E poi, nell’interesse di chi, ossia di quali soggetti coinvolti da queste mega-operazioni? L’interesse dei singoli azionisti e/o anche dei risparmiatori e/o dell’ecosistema bancario-finanziario europeo? Risposte non facili. Sul caso Unicredit-Banco BPM, siamo in presenza di “operazioni di mercato” dalle quali la politica dovrebbe tenersi distante (seppure non rinunciando a esprimere il proprio “supporto sistemico e di visione” purché si sappia quale è). Doppia o tripla manovra di Unicredit che muove in primo luogo su Commerzbank (come espansione/diversificazione) con un’operazione che nei fatti si è dimostrata “ostile” e percepita tale dai tedeschi (sia dalla banca che dalla politica); così di fronte alle “incertezze” sul Reno, l’ad Orcel si dirige su Banco BPM che a sua volta ha lanciato un’OPA su Anima (grande operatore del risparmio gestito) e su MPS (in questo secondo caso con il consenso del Governo ma non nel primo caso, anche perché non ce ne era alcun bisogno). Il risparmio gestito costituisce un business che sta interessando i grandi gruppi europei e quindi rientra nella manovra complessiva di UniCredit di espansione diversificata. Certamente, la creazione di un terzo polo bancario italiano sarebbe effettivamente più utile, sul piano dei benefici del mercato e della concorrenza, rispetto alla crescita dimensionale dell’attuale secondo gruppo bancario italiano che salirebbe pertanto in prima posizione in Italia e alla terza in Europa. La questione del contendere riguarda, anche il controllo del “risparmio gestito” che è un business molto promettente in termini di sviluppo e profitti. Senza considerare che si tratta di “montagne di risparmi” che sono spesso “mal gestiti” visto che prendono anche la via degli USA invece di essere impiegati in Italia e in Europa. Quanto alle mosse strategiche, il fine prevalente appare chiaramente quello dell’espansione dimensionale per conseguire economie di scala e realizzare misure di efficientamento con l’obiettivo finale di migliorare la redditività unitamente al rafforzamento delle posizioni competitive nei territori potenziando servizi a imprese e risparmiatori.

Era “interconnessa” la doppia-tripla operazione di UniCredit? Questo non lo si può stabilire in modo certo. Ma è chiaro che, nell’ottica di una continua ricerca di occasioni di espansione dimensionale, ogni opportunità che si presenta va colta al volo prima di perderla, anche perché le buone occasioni non sono poi così frequenti. Nel caso del tentativo di acquisizione della banca tedesca (la cui partecipazione attuale è considerata da Unicredit un investimento), ci sono state reazioni contrarie da parte della Germania ma valutazioni non contrarie (verosimilmente favorevoli) da parte delle autorità di vigilanza europee che ritengono che la presenza di grandi banche sia da promuovere (anche con la spada di Damocle del “too big to fail”); mentre l’OPS nei confronti di Banco BPM, al di là delle reazioni del Governo italiano interessato a promuovere un terzo polo con MPS (di cui il Tesoro è ancora azionista), i giudizi non sono tutti convergenti soprattutto perché sarebbe auspicabile evitare un sostanziale nascente duopolio bancario.

Quanto alla presenza di un più grande gruppo bancario nazionale può certo aumentare la stabilità finanziaria, ma finchè non impatta con un “rischio sistemico”. Quanto alla sua efficienza, è tutta da dimostrare; tenuto conto che quando aumenta la complessità aziendale la qualità del servizio alla clientela non è detto che migliori sempre e con costi calanti. Insieme, la doppia operazione rafforza la strategia di sviluppo dimensionale che rientra nell’ottica dichiarata di Unicredit di diventare il più grande gruppo bancario europeo. Gestire l’aumento di complessità di due contestuali merger, ammesso e non concesso che entrambi vadano in porto, per di più riguardanti due fronti diversi (nazionale e internazionale) è impresa certamente non semplice. L’approccio più opportuno è quello di valorizzare anzitutto al meglio il merger nazionale che non deve essere depotenziato dall’espansione internazionale con l’emergere di un gigante europeo che deve affrontare effetti probabilmente non tutti di tipo virtuoso, da gestire nell’ambito di un modello imprenditoriale che deve essere unitario.

Se così non fosse, saremmo in presenza di operazioni di pura speculazione senza una visione di modello di business sostenibile né economicamente nè socialmente. Se queste sono riflessioni su ipotesi e supposizioni strategiche, stando sempre sulla linea di possibili scenari ci si può domandare come si collocano questi “movimenti” nei processi evolutivi del capitalismo europeo. È probabile che, alla luce della visione di un’Europa che necessita anch’essa dei suoi “campioni” finanziari e industriali, per competere con i colossi mondiali, ci stiamo avviando verso un nuovo capitalismo, che potremmo definire neo-fordista.

Questo guidato da una visione dirigista grazie a un quadro normativo e misure verticistiche che ne plasmerebbero la configurazione in modo da renderlo competitivo, sul piano produttivo e finanziario. Il rafforzamento dei settori strategici richiede di mobilitare il risparmio privato verso il mercato dei capitali europeo, quale condizione indispensabile per promuovere la crescita dimensionale e l’attuazione di una politica industriale comunitaria che richiede una coerente politica bancaria europea (si veda il Rapporto Draghi sulla competitività dell’Unione Europea).

Secondo la teoria “regolazionista” i cambiamenti di paradigma socioeconomico avvengono grazie all’intrecciarsi di diversi meccanismi che risultano tra loro coerenti. L’economia e la società fordiste si sono formate, nell’esperienza americana, grazie a un sistema industriale efficiente e a misure di sostegno da parte dello Stato ma anche a relazioni industriali, a un sistema finanziario centrato sul mercato dei capitali (borsacentrico), nonché a un quadro regolatorio complessivo coerente con lo sviluppo di tale sistema industriale.

Si potrebbe allora pensare che altrettanto possa avvenire nella costruzione di un’economia e di una società europee neo-fordiste sostenibili, le quali richiedono adeguate modalità di regolazione sul piano finanziario, istituzionale, sociale e soprattutto politico (che rimane bancocentrico). Il quadro regolatorio di questo possibile nuovo modello di capitalismo europeo sostenibile si sta già imponendo alle imprese e alle banche che devono rispettare i criteri Esg (environmental, social, governance), poi aggiunto a un sistema normativo europeo già complesso sul piano non solo finanziario ma anche economico e sociale. Ma la visione “regolazionista” risulta anche dall’impatto normativo delle misure dirigistiche necessarie per realizzare gli obiettivi della politica industriale europea orientata a realizzarne l’indipendenza: energetica, commerciale, tecnologica e finanziaria.

L’approccio liberista presupporrebbe che l’assetto e la condotta del sistema bancario si allineassero spontaneamente alle nuove esigenze dell’economia europea in trasformazione. Ma questo allineamento agli interessi collettivi non è detto si verifichi secondo condotte volontarie, per cui la regia della leva finanziaria resta al centro del cambiamento, richiedendo l’attuazione di una politica bancaria che sia di sostegno e integrazione della politica industriale. Evidente allora la necessità di misure che modifichino l’attuale struttura del sistema bancario e finanziario contemperando dimensioni adatte alla concorrenza globale senza tuttavia sottrarre varietà e pluralità nei supporti a imprese e famiglie e di prossimità territoriale. Poiché il mercato e la concorrenza tuttavia non devono venire meno, la strada più opportuna sarebbe quella dell’adesione e della collaborazione da parte dei grandi banchieri e delle istituzioni finanziarie europei.

Ciò significa che i banchieri dovrebbero essere coinvolti nella nuova governance economica comunitaria che pare però essere ancora molto parziale, come questa doppia-tripla operazione di Unicredit sembra mostrare, non tanto perché risulta orientata da obiettivi essenzialmente privatistici, del resto non può essere diversamente, ma perché questi “movimenti” dimostrano la debolezza di una forte impreparazione e frammentazione della politica che dovremmo contribuire a ridurre, innanzitutto “condividendo sovranità’”.


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