NON SI PUÓ DELEGARE LA PRODUZIONE DI CIBO

E’ finita l’epopea della globalizzazione, ovvero di un’epoca, iniziata negli anni 1990, in cui si credeva che il commercio potesse appianare ogni divergenza e che il mercantilismo, evoluzione del capitalismo, potesse diventare l’ideologia dominante.
L’epidemia da Covid-19 e poi la guerra russo-ucraina ci hanno destato da un sonno profondo. La caccia alle mascherine del marzo 2020 fa il paio con quella al gas e all’olio di girasole di queste settimane. In caso di crisi si torna alle fondamenta:  energia, salute e cibo.

A livello globale non mancano le derrate agricole ma l’eccessiva specializzazione le ha concentrate in poche aree del mondo. Se il Canada smettesse di venderci il grano duro dovremmo dire addio alla pasta, così come stiamo facendo per l’olio di girasole che viene dall’Ucraina. La produzione di ciascun cibo si concentra laddove vi sono condizioni climatiche, politiche, sociali e agronomiche che ne permettono il commercio al costo più basso possibile, mettendo automaticamente fuori mercato altre aree, magari ugualmente vocate, ma meno strutturate.

I dazi e le Politiche agricole comunitarie con gli aiuti diretti, ormai quasi smantellati, servivano a preservare il tessuto produttivo, aumentando la possibilità di resilienza rispetto a crisi che oggi sono sanitarie e geopolitiche ma domani potrebbero divenire climatiche. Dazi e sovvenzioni sono anche stati usati a sproposito, tenendo artificialmente in vita sistemi economici non più sostenibili ma, come spesso accade, anziché riformare e correggere le aberrazioni dello strumento, si è scelto di eliminarlo. Insomma si è buttato via il bambino con l’acqua sporca. Facciamo un esempio concreto, che può toccare lo stomaco di tutti. Senza olio di girasole ci si può rivolgere al più costoso ma ben più salutare olio extra vergine di oliva.
Oggi l’Ucraina produce il 60% dell’olio di girasole mondiale, come la Spagna produce il 50% dell’olio di oliva globale.
La produzione iberica è concentrata in Andalusia, una regione poco più grande di Puglia e Basilicata. Disastri climatici, come siccità o ondate di caldo, e fitosanitari, come la Xylella fastidiosa del nostro Salento, metterebbero a rischio metà della produzione mondiale di olio di oliva come la guerra russo-ucraina ha messo a rischio gli approvvigionamenti di olio di girasole. Le tanto vituperate politiche protezionistiche servivano anche a distribuire il rischio di fronte a eventi imprevisti e imprevedibili. La caduta del Muro di Berlino, e il cieco euforismo che ne è seguito, ci ha illuso di poter vivere in un quieto e pacifico villaggio globale.

I limiti di questa visione li stiamo sperimentando negli ultimi due anni.
La globalizzazione nata negli anni 1990 è stata un’ubriacatura collettiva.
Ora dobbiamo riprenderci, molto in fretta, dalla sbronza, guardando il mondo per quello che è, non per quello che ci piacerebbe fosse. Non credo sia la fine della globalizzazione, ovvero della circolazione di idee e merci, ma certamente è il tempo di disegnare una re-globalizzazione.
Partiamo dalle fondamenta: energia, salute e cibo.
Compito della politica di ordine mondiale, è evitare la concentrazione, favorendo la diversificazione del rischio. Compito della politica nazionale, o comunitaria, è creare un equilibrio armonico del tessuto produttivo che, se non autosufficiente, almeno sia resiliente ad eventuali crisi.
Proprio in ambito agroalimentare, in Europa specialmente, ci siamo illusi che la produzione di cibo potesse essere delegata, occupandoci invece degli aspetti ambientali e naturalistici dei territori.
La nostra ricchezza e benessere ci ha allontanato dalle fondamenta.
La mancanza dell’olio di girasole dagli scaffali ci ha riportato alla cruda realtà.


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