CRUDO E COTTO SONO ENTRAMBI PROSCIUTTI?

Oggi voglio scrivere sull’origine del termine prosciutto perché l’etimologia di una parola ne racconta la storia, ci dice come è nata e come si è trasformata nel tempo.

I latini dicevano: nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono la conseguenza delle cose.

Il prosciutto si chiama così perché la coscia di maiale trattata con il sale si prosciuga nel corso dei mesi. La sua denominazione deriva dalla particella pro che indica un’anteriorità e dal verbo latino exsuctus (spremuto, asciugato, inaridito), ma anche da prae-suctus (succhiato) o per-exsuctum e tutti indicano una lavorazione che porta al prosciugamento della carne.

La preparazione del prosciutto, nota già agli Etruschi, è descritta da Marco Porcio Catone (234-149 a. C.) che spiega la salagione dei prosciutti (pernae) alla maniera di Pozzuoli e da Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.) che ci descrive quella delle pernae comacinae, alla maniera di Como. Mentre da Polibio (206-118 a. C.) e Strabone (63-23 d. C.) sappiamo che si producevano prosciutti anche in Gallia Cisalpina, Frigia, Licia e Spagna.
Gli antichi romani denominavano i prosciutti pernae le gambe, petasones le spalle salate e pernarius il mercante di prosciutti. Il termine greco invece è καμπή, vuol dire articolazione e indicava la coscia conservata con il sale. Lo ritroviamo nelle lingue neolatine come lo spagnolo Jamon e il francese Jambon mentre l’inglese ham deriva dal protogermanico hamma cioè “gambo”.

Se la coscia di maiale conservata con il sale rimane un cibo prevalentemente popolare in tutta Europa, in Italia è considerato un cibo di pregio e, per questo, soggetto a furti. Proprio a causa di questi ultimi, il nuovo termine presciutto compare in citazioni in lingua volgare. Il termine è documentato a datare dal 1300, epoca in cui si cominciava a scrivere delle tecniche di trasformazione degli alimenti in termini specifici.

Il termine prosciutto è comunque generico, accoglie una grande varietà e qualità di prodotti che si differenziano nel nome con il luogo di origine e hanno diverso valore che dipende dalla preparazione, dal maiale, dal tipo di lavorazione e stagionatura, dal clima e dall’ambiente.

Nella gastronomia italiana il termine prosciutto indica anche la coscia fresca del maiale e le varianti arrosto e affumicate, come il Prosciutto di Praga messo in commercio nella seconda metà dell’800 da Antonín Chmel, imprenditore boemo proprietario di una fabbrica di affumicatori.

Al contrario del Crudo, il prosciutto Cotto può essere preparato anche con carni di tagli diversi dalla coscia ed essere più o meno idratato. E proprio la percentuale d’acqua è il valore chiave che definisce la qualità di questo prodotto. Un po’ di numeri ci aiuteranno a capire le differenze.

Posto che la carne fresca ha circa il 70% di acqua, il prosciutto Crudo (prosciugato) ne contiene circa il 50%, mentre il prosciutto Cotto di alta qualità può superare la percentuale della carne ma non deve oltrepassare il 75,5%. Il prosciutto scelto, invece, può contenere fino al 78,5% di acqua, mentre il prosciutto cotto semplice può arrivare fino all’81%.

Ma allora il prosciutto cotto, che tra l’altro può contenere anche parti diverse dalla coscia e più acqua della carne fresca, può essere classificato nella categoria dei prosciutti? Nel suo significato di prosciugati? Ovviamente no.

In realtà il Cotto è un salume, anzi uno dei salumi più famosi d’Italia, apprezzato in tutto il mondo, anche se da noi viene visto ancora come un prodotto di qualità inferiore.

Il Ministero dello Sviluppo Economico lo definisce un “salume non insaccato e parzialmente ricoperto da cotenna” e lo divide in tre tipologie distinte:

  1. prosciutto cotto di alta qualità in cui devono essere identificabili almeno 3 dei 4 muscoli principali della coscia intera di suino e il tasso di umidità deve essere compreso tra il 75,5 e il 76,5%;
  2. prosciutto cotto scelto in cui devono essere identificabili almeno 3 dei 4 muscoli principali della coscia intera e il tasso di umidità deve essere compreso tra il 78,5 ed il 79,5%;
  3. prosciutto cotto semplice ottenuto dalla coscia del suino il cui tasso di umidità deve risultare compreso tra l’81 e l’82%.

Tali denominazioni disciplinano la produzione e la vendita del prosciutto cotto su tutto il territorio nazionale.

L’origine del Cotto è molto probabilmente nordica. I primi a cuocere il maiale in sezioni anatomiche separate sono stati i popoli del Nord, prima ancora che nascesse l’Impero. Un’ipotesi plausibile è che i legionari romani abbiano acquisito le prime nozioni sulla preparazione del prosciutto cotto dai Galli, dai Longobardi o da altre popolazioni barbare assorbite gradualmente nel territorio. Ipotesi rafforzata dal fatto che, ancora oggi, i migliori prosciutti cotti provengono dal Nord Italia: Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna.

La lavorazione del prosciutto cotto non è molto lunga, prevede però ben 7 fasi distinte. A differenza del crudo il cotto è disossato e ha un colore molto diverso dalla carne proprio per via della lavorazione.

In estrema sintesi, per ottenere un prosciutto cotto occorre disossare le cosce di maiale e salarle con una salamoia composta da aromi, sale e una minima dose di nitriti per conservare il prodotto. Successivamente avviene la zangolatura, ovvero il “massaggio” alla coscia per distribuire la salamoia tra i tessuti; poi la pressatura negli stampi e la cottura a vapore. Ci sono anche varianti di prosciutto arrosto, la cui produzione cambia solo nella fase finale per il metodo di cottura.

Come riconoscere un prosciutto cotto di buona qualità?

Il prezzo non può essere l’unico fattore di scelta. Per portare a casa un buon prodotto, non occorre essere salumieri e le caratteristiche cui dobbiamo fare particolare attenzione sono:

  1. l’aspetto: un prosciutto “troppo” bello da vedere non sarà buono da mangiare. Il prosciutto cotto non dovrà avere un aspetto plastico o lucido: meglio un prodotto dal colore rosato opaco e non uniforme con marezzature e venature visibili, con differenti gradazioni di colore che rispecchiano le diverse parti della coscia del maiale. La regola insomma è: “brutto ma buono”.
  2. Il grasso: nel prosciutto cotto il grasso è sinonimo di buona qualità perché conferisce alla carne il giusto grado di scioglievolezza e sapidità. La quantità di grasso cambia in base all’origine del prosciutto: i maiali allevati in Italia ad esempio presentano più grasso rispetto a quelli allevati in altri paesi europei come Olanda e Belgio.
  3. Il profumo: un prosciutto cotto di buona qualità presenta un profumo deciso ma non pungente; una fragranza intensa di arrosto ma non troppo forte.
  4. Il sapore: il sapore di un buon prosciutto cotto oscilla tra il sapido e il delicato.
  5. La consistenza: se è di buona qualità, il prosciutto cotto “si scioglie in bocca”, non deve risultare mai secco o appiccicosoLa fiducia: se non è possibile controllare la provenienza del prosciutto che stiamo acquistando non possiamo fare altro che fidarci del nostro salumiere.
  6. Il prosciutto, sia crudo che cotto, resta un alimento decisamente costoso. Al supermercato il prezzo del primo va dai 15 euro, per i più economici, fino ai 150 euro e oltre e quello del secondo da circa 10 a oltre 50 euro al kg. Inoltre, il prosciutto cotto spesso è venduto come prodotto civetta, sottocosto, ma osservando attentamente l’etichetta è possibile individuare su ogni confezione una delle diciture previste dal decreto legge del 21/09/2005 che definisce le tre categorie merceologiche così da acquistare il miglior prodotto della categoria senza farsi abbagliare dalle offerte.

Ogni specialità alimentare ha la sua bella storia da conoscere e condividere per saperne di più su cosa ci viene offerto dal mercato alimentare ed essere in grado di districarci un po’ meglio tra le molte possibilità di scelta.

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