LA DIGNITÀ DEL “FINE VITA”

Scrivere del “fine vita” non è un argomento agevole né tantomeno piacevole. Il vivere rimane sempre non un “possesso” ma un “dono” irripetibile, unico e affascinante, sicché come avventura andrebbe sempre apprezzato con amore, fiducia e impegno per essere valorizzato al meglio e trarre da esso quanto di più significativo e bello si possa prendere. Però c’è anche il rovescio della medaglia, cioè l’esperienza della sofferenza e per tutti, prima o poi, anche quella della morte fisica. Il problema si pone allora con una domanda ben precisa: come si desidera morire, cioè porre fine a questo cammino senza attraversare il tunnel del dolore?

Per dare una risposta occorre precisare subito due cose. La prima è che ognuno si deve sentire sempre libero di compiere le proprie scelte in maniera responsabile, anche quelle relative alla fase finale della personale esistenza, eventualmente con il cosiddetto “Testamento biologico”, previsto peraltro dalla L. 219/2017. La seconda è che ogni Vita possiede al suo interno una profonda dignità. Come conciliare tutto questo eventuale conflitto?

Quando si ha la piena consapevolezza di essere sul punto di giungere al termine dell’individuale viaggio terreno, per evitare o almeno alleviare lo stadio di una sofferenza magari insopportabile, le soluzioni potrebbero essere tre: l’eutanasia (attiva, passiva, non-volontaria, involontaria), il suicidio assistito e le potenziali cure palliative di accompagnamento con sedativi o analgesici (Terapia del dolore). In tutti e tre i casi occorrerebbe sempre escludere l’intervento diretto del medico o del personale sanitario con la disidratazione e la sottrazione di cibo (Giuramento di Ippocrate). L’eugenetica, anche se camuffata, non andrebbe assolutamente perseguita: già si sono viste nella Storia tante aberrazioni in tale senso a partire dall’antica Grecia e dalla stessa Roma per finire al nazismo, al razzismo o al fondamentalismo esasperato dei nostri ultimi tempi.

In altre Nazioni esistono queste pratiche di accompagnamento al “fine vita” (L.145/2001: ratifica della “Convenzione di Oviedo” del 1997), sempre però con il consenso informato da parte del soggetto interessato che può delegare una persona di sua fiducia in caso di impossibilità a decidere in maniera esplicita da solo. Nella nostra Italia non ancora si riesce a legiferare in materia, anche se sarebbe auspicabile una disposizione chiara e non ideologica in tale senso, perché ogni momento di vita conserva la sua dignità, compresa quella importante della sua fine. Ci sono unicamente gli art. 13 e 32 della Costituzione a garantire una libertà di cura e l’art. 1 della L. 219/2017, dove si tende a precisare più il “come” che il “quando” morire. Come anche non si è espliciti nella Sentenza della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019 dove si parla della “non punibilità” verso chi agevola la volontà suicida liberamente espressa dal malato grave.

Quando poi ci si rende conto che bisogna solo prendere atto dell’impossibilità di ricorrere a mezzi per salvare la vita, perché semplicemente non esistono o sono inutili come nell’accanimento terapeutico, e quando il soggetto è assalito da profonde sofferenze, allora qui una duplice iniziativa sarebbe necessaria: innanzitutto quella di incentivare maggiormente la ricerca scientifica in vista di soluzioni il più possibile incisive ma meno invasive al sollievo del dolore con terapie adiuvanti mirate alla minore sofferenza del paziente ma anche alla sua maggiore lucidità e poi evitare assolutamente di lasciare l’ammalato alla sua emarginazione in solitudine, ma creando e predisponendo ambienti più umanizzanti per loro, dove la morte è vista, diciamo così, con dignità e certamente non come isolamento e abbandono.

Questa condizione sarebbe la più umana e civilmente accettabile. Rimane, però, sempre il duplice dramma: quello interiore delle persone attorno all’ammalato per via della coscienza d’impossibilità a dare una risposta concreta al desiderio di vita e quello dello stesso paziente nel notare come intollerabili le sofferenze cui sta andando incontro. E allora quale potrebbe essere la risposta da offrire? Il conflitto interiore qui, purtroppo, permane e anche forte, sicché un approfondimento della riflessione in merito andrebbe comunque operato nel tempo sia sul piano etico che giuridico: ciò anche in vista di trovare e offrire vie d’uscita che siano possibilmente le più mature, accettabili e condivisibili. Questo, comunque, resta un problema ancora aperto.

Come la nascita così la fine sono due momenti importantissimi nel decorso del vivere e, io aggiungerei, sacri e come tali andrebbero trattati e rispettati. Bisognerebbe sviluppare una nuova cultura, più adulta e più attenta alla necessità di dover onorare maggiormente la sacralità dell’essere vivente, trattandolo “prima, durante e dopo” con il più accorto amore e sentimento di rispetto nei confronti della sua unicità. Qui bisogna tenere presenti anche gli affetti che si sono creati attorno a chi sta per lasciare questa esperienza terrena e anche questi andrebbero tenuti in conto con il dovuto senso di delicatezza.

I pellegrinaggi all’estero per la ricerca di una “buona morte” a mio parere non costituiscono la soluzione: non esiste una morte buona, perché essa mai tale è, ma solo la constatazione rassegnata della fine di un cammino e di un’esperienza, peraltro unica e irripetibile, con tutto il complesso mistero e le innumerevoli domande che essa comporta. Occorre piuttosto rivedere un po’ il tutto in una luce diversa e di maggiore sensibilità: la fine di un essere umano non è mai un gioco, ma implica sempre una lacerazione, una sorta di frattura che avrebbe bisogno solo di essere attraversata e accompagnata da una vigile e acuta finezza. Si perde un rapporto, una relazione di affetto, una vicinanza in quanto a dialogo e come tale, quando questo fisicamente sembra essere interrotto, non rimane allora che tacere con il silenzio.

Di fronte a queste situazioni che non prevedono in concreto soluzioni praticabili, dopo aver fatto del proprio meglio per risolvere il tutto in maniera positiva e, per non contravvenire al “Giuramento di Ippocrate”, dopo aver lasciato sempre a disposizione del soggetto cibo e acqua, non resta che l’accettazione della realtà. Sarà duro, ma, purtroppo, è così! Non bisognerebbe, però, riservare qualche volta un po’ di spazio anche a un eventuale e magari misterioso intervento da parte di un Qualcun Altro? Chissà!

Mi piace chiudere queste brevi riflessioni con un pensiero del grande poeta indiano R.Tagore: “Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno”.


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