UN MONDO DIVERSO?

UN PROGETTO ANCORA DA REINVENTARE

Che la realtà stia profondamente mutando è una constatazione che è sotto gli occhi di tutti. Nella Storia ci sono sempre stati dei momenti di svolta e di maturazione nelle sensibilità e della conseguente necessità di predisporre un nuovo modello di scelte e quindi di organizzazione della società. Molto dipende dalla scommessa sulla capacità progettuale di chi è chiamato ad agire, cosa che riguarda vari settori.

Nel modo di essere dell’uomo singolo, della sua etica, del suo particolare approccio nel come vede e affronta le sfide del mondo moderno. Se centrato unicamente sull’ego e non su una visione solidaristica dell’esistere, allora non si fa che affermare una espansione egoistica della persona senza donare agli altri quanto si va eventualmente costruendo di positivo nel vivere. Il processo di digitalizzazione e di potenziale isolamento al quale si è oggi sottoposti non dovrebbe far dimenticare la necessità di rapporti umani un po’ più ravvicinati per realizzare un arricchimento reciproco in quanto a umanità. L’uomo non è una macchina né un’isola, ma ha bisogno di esprimere anche la potenzialità della sua interiorità emotivo-affettiva e della libertà creativa nel suo modo di pensare. È un processo lungo questo, ma necessario se si intende salvare la singolarità della vita.

C’è poi l’aspetto culturale del rinnovamento della storia e quindi della comunità umana. Non sembra ci sia sempre originalità nel produrre idee, nella ricerca o nell’incentivazione a maturare la qualità delle menti. Troppo spesso oggi non si va a individuare ciò che si vuole o si dovrebbe volere. Il più delle volte si preferisce vagare nel vuoto, affermando e promovendo l’immagine più che la sostanza dell’Essere. Un vero progresso nella conoscenza invece è fatica, confronto, interazione con altre opinioni, progettazione e lavoro in équipe: così una società si evolve.

Oggi non siamo tanto schiavi del pensiero unico o, come dice Bauman, di quello liquido, quanto piuttosto occorre superare l’angoscia della paura o del non-pensiero, non accettare acriticamente un prodotto già formulato e quindi cristallizzato. L’utilizzo della digitalizzazione, con la velocizzazione nella trasmissione dei dati, dovrebbe produrre una migliore qualità nella cultura, senza più ripetere il già acquisito.

È auspicabile allora un maggiore coraggio nell’analisi, nel confronto e nella libertà di muoversi per nuovi sentieri mai seguiti prima, immaginando e praticando magari un pensiero divergente rispetto a quello divenuto dominante. Di strada qui c’è tanta da compiere per sperare di avere un autentico salto di qualità. Gli intellettuali sono chiamati qui all’opera!

Il processo di digitalizzazione. Secondo uno studio condotto qualche tempo fa (2017) dall’Università di Losanna risulta che il 50% della popolazione mondiale utilizza Internet (3 miliardi e mezzo), il 37% è sui Social Media (circa tre miliardi), il 66% utilizza il cellulare (5 miliardi circa), il 45% è sui PC, il 50% si serve di Smartphones. Per quanto riguarda l’Italia, i dati Istat evidenziano che nella fascia di popolazione compresa tra i 25 e i 34 anni, il 36,9% è in possesso di competenze digitali alte, mentre il 32,8% di competenze medie. Il quadro muta quando si osserva la fascia di età tra i 55 ed i 64 anni all’interno della quale solo il 18,7% è in possesso di competenze alte, mentre il 40% ha solo quelle basse.

Questa è la realtà. Il digitale è diventato così una cultura, un modo di guardare al mondo e alla posizione dell’uomo in esso o, come dice Luciano Floridi, siamo alla “quarta rivoluzione con l’infosfera che sta trasformando il mondo”. La tecnologia (”Un essere tra”: Floridi) non deve essere, però, mai neutra: nella sua natura di intermediaria con la realtà determina come noi la costruiamo e come ci trasformiamo, a diversi livelli del nostro essere, nell’interazione con essa. Perciò non si può approvare un risultato non etico nell’utilizzo della tecnologia stessa, cosa che è necessario evitare o, quanto meno, limitare. Questa è un’altra delle sfide che si presenta dinanzi all’uomo di oggi e con essa e il suo linguaggio bisogna cominciare a sapersi confrontare ogni giorno con responsabilità.

Una politica da ricostruire. Ormai sono caduti quasi tutti gli schemi delle vecchie ideologie (O. Spengler…) e appartenenze (sinistra, destra…). Con una crisi della politica da tempo degenerata va serpeggiando una quasi impossibilità di una autorigenerazione della stessa intesa come progettazione alta del Bene comune. Non si può, però, stare qui solo a guardare o a condannare. Affiora prepotente la necessità di nuove forme di aggregazione non solo per la nascita di impreviste esigenze, ma soprattutto come recupero di alcuni valori da ritenere irrinunciabili e ormai smarriti da anni, quali la difesa del diritto alla vita e alla dignità umana, alla sopravvivenza decorosa di ogni popolo, al rispetto per la giustizia, la verità, la libertà di opinione e di fede, la legalità, la saggezza e l’ambiente nel quale viviamo.

Nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776) si parla di “Diritto alla Felicità”: sarebbe bello auspicarne almeno un po’ anche per tutti. Attorno a questo insieme di istanze andrebbe ricostruito il tessuto sociale con uno sviluppo più razionale e onesto di una politica, rivista non alla luce di un passato, ma neanche di un presente, spesso legati a interessi particolari di singoli o di gruppi. La serietà vuole che essa si ponga come un serio servizio in dialogo con le profonde e urgenti domande poste da una comunità e da chi le rappresenta sul territorio.

Hanno fatto il loro tempo i tentativi di mere fusioni di forze, quando invece si rende necessario l’amalgama in alcune idee miranti alla riscrittura del futuro e allo sviluppo integrale dell’uomo, oggi schiacciato da mille incertezze e necessità. Una politica lungimirante dovrebbe saper guardare finalmente con attenzione a queste domande, imparando a leggerle più correttamente e a coniugarle poi con la proposta di soluzioni concrete ai problemi.

Economia, Creazione e Organizzazione del lavoro. Negli ultimi decenni si è assistito a numerosi radicali cambiamenti, dovuti all’affermazione sempre crescente delle tecnologie digitali in quello che viene comunemente definito Modello Impresa 4.0. L’Impresa 4.0 si presenta come una quarta rivoluzione industriale, destinata a interessare rapidamente anche i comparti non industriali, che, grazie all’applicazione intelligente di nuove tecnologie (quali big data, servizi informatici, realtà virtuale, stampa in 3D ecc.) e alle tecniche produttive oggi in uso, cambia radicalmente l’attuale modo di concepire la produzione e l’organizzazione del lavoro.

La globalizzazione con il suo multilateralismo, per la quale e i quali bisognerebbe prevedere e semmai imporre con sanzioni delle regole cogenti ben più precise, sta spingendo alla creazione di nuove professioni con la conseguente nascita anche di altrettanto nuove classi sociali: una simile dinamica andrebbe meglio studiata e analizzata nel suo svolgersi, più che rifarsi, spesso superficialmente, a interventi riduttivi con operazioni assistenzialistiche di natura puramente finanziaria e/o monetaria.

Necessità di un’Etica. Con una distribuzione più equa della ricchezza, occorre oggi un governo etico dell’intero processo, per prevenire la genesi di problematiche che potrebbero altrimenti impattare rapidamente e con forza sulla generalità della popolazione, creando ulteriore disagio sociale (disoccupazione), perdita di coesione del sistema, insorgenza diffusa di pericolose contrapposizioni e marginalizzazioni, criticità strutturali nei percorsi di istruzione e formazione, nell’accesso al mercato del lavoro, nelle dinamiche economiche generali. L’assenza di questo governo etico potrebbe, più in generale, precludere quello sviluppo sociale equilibrato che sempre occorre ricercare in presenza di processi di cambiamento importanti.

Per il Premio Nobel Amartya Sen, per esempio, l’economia avrebbe molto da guadagnare se prestasse più attenzione ai temi di carattere etico, così come anche l’Etica progredirebbe come disciplina se considerasse maggiormente i presupposti economici che sono alla base delle scelte umane. Sen, da buon economista, non ignora l’attenzione ai risultati, solo che per lui le conseguenze delle azioni umane, private o pubbliche che siano, andrebbero valutate non in termini strettamente utilitaristici, ma perseguendo quell’ideale più ampio di “fioritura umana”, tanto caro ad Aristotele, ma anche a Adam Smith e allo stesso Seneca. Amartya Sen, nel suo “Etica ed Economia”, ricorda come l’Economia abbia avuto due origini diverse: da un lato l’Etica e dall’altra l’Ingegneria (B. de Mandeville, L. Dumont…). Essa, dunque, non può limitarsi solo ai mezzi, ma in una visione di sintesi anche ai fini, cioè al benessere dell’uomo totale.

Osservazione critica relativa alla nascita di nuove opportunità. La digitalizzazione comporta un potenziamento e una preminenza della formazione tecnico-scientifica (in percentuale appannaggio principalmente maschile) rispetto a quella umanistica, generando potenziali effetti dannosi anche in tema di equity tra uomo e donna. Si pensi, ad esempio, alle posizioni lavorative nel settore della sanità o dell’educazione scolastica, tradizionalmente più femminili, e, all’opposto, a tutti i lavori manuali (storicamente maggiormente maschili) che già hanno subito il procedimento di costante sostituzione dell’uomo con la macchina. È possibile che l’avvento della digitalizzazione possa addirittura favorire un tendenziale effetto di riduzione del gap lavorativo uomo-donna, consentendo al lavoro femminile, senza dimenticare la difesa e protezione della maternità, di superare numerosi vincoli strutturali che ne hanno penalizzato sino ad oggi lo sviluppo. Moltissime di queste nuove possibilità occupazionali create dalla rivoluzione digitale in atto è vero che sono “nativamente neutrali”, però non dovrebbero costituire una torre di Babele o unicamente forgiatrici di opinioni pubbliche, ma andrebbero sempre e comunque illuminate dai valori ai quali si accennava sopra.

Problemi che rimangono tuttora aperti: invasività della criminalità. corruzione diffusa, evasioni varie, governo e gestione dei flussi migratori, produrre per consumare o per adattare (?), le tante guerre con armi spesso distruttive e i vari fondamentalismi religiosi e le molte diversità e povertà, una economia verde e la tutela del clima, la difesa della salute e l’origine delle pandemie, maggiore controllo sulla disinformazione, l’educazione alla responsabilità, vantaggi e rischi nell’uso dell’intelligenza artificiale, la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ecc. ecc.

In questa meravigliosa e talora misteriosa avventura che è il vivere, concludo la presente riflessione riportando un pensiero di P. P. Pasolini che bene illustra le drammatiche domande di un popolo spesso senza risposta:”La morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi”. Mi sembra tutto chiaro!


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