TANGENTOPOLI, UN FALSO STORICO. IL DIRETTORE SODANO INTERVISTA MARCO FOLLINI

1) Il movimentismo nella politica italiana: nasce negli anni cinquanta e continua per tutta la seconda metà del secolo scorso. Il fenomeno della frammentazione dei partiti: quando una corrente diventa abbastanza grande determina una scissione. E’ avvenuto nel Partito Comunista come nel Partito Socialista, nel Movimento Sociale e nel Partito monarchico e nel Partito radicale. Poi in Forza Italia e nei 5 Stelle. Forse in Italia il sistema dei partiti è fragile.

Al contrario. Il sistema dei partiti era così forte in quegli anni da potersi permettere manovre, attese, ritardi, trame, congiure. E anche scissioni, ovviamente. Ognuno dei difetti di quel sistema sembrava proclamare il sentimento della sua forza, a volte perfino eccessiva. Il senno di poi ce ne avrebbe rivelato la fragilità, a lungo andare. Ma si trattava appunto di riflessioni e considerazioni che avrebbero preso corpo solo più avanti. Che poi vi fossero delle crepe, delle fragilità, lo avremmo visto dopo, molto dopo. Troppo tardi, purtroppo, per cercare e trovare i rimedi che sarebbero serviti. Ma è appunto una storia successiva. In quei primi vigevano regole e consuetudini diverse; e direi anzi che perfino la percezione di certe fragilità concorreva per così dire a far funzionare le cose. Dotando la dirigenza politica del tempo di quella sensibilità, di quelle antenne sottili, rivolte al proprio elettorato di cui -oggi che le abbiamo smarrite- sentiamo il vuoto. Ma all’epoca, insisto, quel vuoto era pieno. Forse fin troppo.

2) La Democrazia Cristiana è rimasta compatta e ha governato per mezzo secolo. Solo perché era Cristiana. Come è potuto accadere.

La Dc ha governato quasi mezzo secolo e preservato la propria unità per una quantità di ragioni, nobili e meno nobili. Tra queste ultime possiamo citare il cemento del potere, il favore della gerarchia ecclesiastica, lo spettro del comunismo. Ma c’era una ragione più profonda che spesso viene trascurata.
Ed è il fatto che la Dc era fondata sul principio e sul valore della convivenza.
Era, eravamo, un partito che si faceva punto d’onore di tenere assieme il paese, accettando l’idea di non poter mai fare “scomparire” gli avversari -e anche alcune delle proprie cattive abitudini, se vogliamo. Si conviveva con alleati scomodi, con i propri antagonisti, con i propri difetti e con una quantità di altri condizionamenti, a volte faticosi da accettare. Tanto più si era portati a convivere con una dialettica interna vivace, che in altre circostanze avrebbe dato luogo a scissioni ma che in quei frangenti contribuiva semmai ad ampliare l’area del consenso e della rappresentanza. In una parola, era bandito lo scisma, era ammessa l’eresia. Ammessa, e perfino messa a frutto.

3) Nel 1958 la visita del presidente della repubblica Giovanni Gronchi a Mosca: ci fu la prima firma per la fornitura di gas russo all’Italia. Era il tentativo di cambiare la politica estera italiana affidando al nostro paese un ruolo di neutralità che aveva le sue radici all’interno della Democrazia Cristiana in cui alcune correnti erano contrarie al Patto Atlantico.

Sono d’accordo solo fino a un certo punto. Gronchi che va da Kruscev (primo statista occidentale) è una lesione dell’ortodossia atlantica. Lo è anche la politica energetica di Mattei, il pacifismo un po’ onirico di La Pira, la contrarietà alla Nato di Dossetti, le inquietudini di Moro verso gli Usa. Posso immaginare cosa avranno pensato a Washington quando il segretario del Pcus fece un brindisi in cui invitava il nostro capo dello Stato a convertirsi al comunismo. Ma nell’insieme la politica estera democristiana fu piuttosto ortodossa. Si presidiava il confine dell’est e quello del sud, affacciato sul terzomondismo. Senza mai attraversarlo, però. E tutte quelle reciproche insofferenze tra la Dc e gli Usa rimasero sopite fino agli anni novanta. A quel punto, solo a quel punto, le cose cambiarono. La dissennata rivelazione di Gladio ad opera di Andreotti e pochi anni dopo gli altrettanto dissennati incoraggiamenti americani verso Mani pulite finirono così per dar vita a un altro racconto. Un racconto nel quale però io continuo a ravvisare un certo eccesso di fantasia dietrologica.

4) Ucciso Aldo Moro, tentarono di uccidere Berlinguer e Giovanni Paolo II. Contemporaneamente Berlinguer teorizzava il compromesso storico commentando il Cile, rivendicava il partito di lotta e di governo davanti ai cancelli della Fiat e i quadri facevano la marcia dei 40.000: è un periodo della storia del nostro paese. Chi traeva vantaggio dalla crisi.

Ancora oggi risulta difficile decifrare tutti quegli eventi. E’ come se fossero accomunati dall’opacità e dal sospetto. C’è un legame tra la morte di Moro e gli attentati alla vita di Berlinguer e di Giovanni Paolo II? Molti lo pensano, ma le carte, almeno fino ad oggi, non sono così chiare al riguardo. La mia personalissima convinzione è che l’evento decisivo di quel tornante della nostra storia sia stata la morte di Moro. Non solo perché viene meno la figura cardine dell’equilibrio politico. Ma anche perché ci si illude che la salvezza dello Stato risieda per intero in quella parola, “fermezza”, che ne condensa invece tutti gli equivoci. Moro viene sacrificato in cambio di una finzione. E cioè che le istituzioni possano venir rafforzate solo attraverso il sacrificio del loro sacerdote più autorevole. Cosa che non mi convinse allora, e mi convince ancor meno oggi. Oltretutto segnalo che quella decisione -di non trattare- venne presa senza che una democratica procedura la avvalorasse. Non ci fu un voto in Parlamento, né una delibera in consiglio di ministri, né una formale decisione degli organi di partito. Possono apparire dettagli, ma se parliamo di democrazia si tratta di sostanza.

5) Quando iniziò la consapevolezza nel gruppo dirigente del Partito Comunista che la storia del Comunismo volgeva alla fine. E quali furono le ragioni per le quali Berlinguer si rifiutò di concorrere alla unità della sinistra proposta da Craxi.

Berlinguer ammainò la bandiera della rivoluzione d’ottobre. E a quel punto dovette cercare un’altra bandiera da sventolare. Finiva il mito del socialismo reale e si riteneva di aver bisogno di un altro mito -sostitutivo per così dire. Quel mito fu la “questione morale”, la celebrazione dell’onestà del Pci a fronte dell’appannamento etico dei suoi avversari di governo. Ora, è evidente che in questo slittamento c’è come la prefigurazione di tutto quello che accadrà dopo. Compresi i nostri giorni, amaramente dedicati al populismo e alle sue conseguenze. Certo, si trattò di una stagione complicata. E non andrebbe sottovalutato il costo che il comunismo italiano si trovò a dover pagare lungo tutto l’attraversamento del suo percorso. Rompere con l’Urss non era così facile, né così ovvio. E rompere con l’estremismo gruppuscolare e ancor più drasticamente con il terrorismo brigatista fu tutt’altro che una passeggiata di salute (o sulla prospettiva Nevskj, se vogliamo citare Lenin). Ciò non toglie che l’approdo di questa traversata fece trovare tutti in un luogo diverso da quello che si era promesso. In mezzo al guado, come si usa dire. Impantanati. Non fu un buon esito per chi immaginava una rigenerazione del tessuto politico.

6) Quali e quanti furono i tentativi di colpo di stato in Italia a partire dal 1945. E perché fallirono tutti. E perché l’unico riuscito è quello di Tangentopoli. Chi aveva interesse a destabilizzare il sistema politico italiano. Quali sono stati e sono tutt’oggi gli elementi di destabilizzazione del sistema Italia: per quali motivi e con quali fini.

Userei con parsimonia la parola “colpo di Stato”. Ci furono velleità e ci furono equivoci. Ma ci fu anche una certa teatralità nel raccontarci a vicenda che erano all’opera poteri interni e internazionali dediti a scardinare il nostro ordine costituzionale. Furono accusati di tramare almeno due capi di Stato e un certo numero di generali che si prendevano più o meno diligentemente cura di loro. E ho memoria di dirigenti democristiani tra i più miti, perfino inermi, che venivano classificati alla voce “golpisti”. Fantasie, il più delle volte. Forzature propagandistiche. Come quella che descriveva Fanfani alla stregua di “fanfascista” o gli stivaloni che Forattini faceva indossare a Craxi nelle sue vignette. Che poi qualcuno pensasse davvero di sovvertire l’ordine pubblico è vero, ed è ovvio. Ma non ci fu quello che Gramsci chiamava il “sovversivismo delle classi dirigenti”. Ci fu dell’altro, e anche molto sanguinoso. Ci furono stragi, violenze di molti colori. La stagione del terrorismo. La lunga scia di sangue lasciata dalla strategia della tensione. Tutte ferite che bruciano ancora oggi. Tentativi di deviare il corso della civiltà democratica. Ma che sarebbe improprio etichettare alla voce “colpo di Stato”. Quanto a Tangentopoli, si trattò di un falso storico. E di una drammatica iniquità, questo sì. Ma non mi convince, neppure qui, l’etichetta del golpe. Se no, a furia di guardare l’abisso, è l’abisso che finisce per catturare noi.

7) Lo smantellamento del sistema delle partecipazioni statali e le privatizzazioni: il ruolo di Prodi.  E quale fu la causa della dissoluzione della chimica italiana tra Cefis, Rovelli e Cuccia. la scomparsa della montedison e perché non si è mai fatto il processo enimont

L’assalto alle partecipazioni statali fu un altro aspetto di quella progressiva perdita di sovranità politica e nazionale che si determinò in quegli anni. Si passò in pochi mesi da un eccesso all’altro. Dalla pretesa di accollare all’economia pubblica ogni compito che arrecasse vantaggio alla politica e alla comunità alla opposta pretesa secondo cui solo i privati potevano ergersi a custodi del mercato e della pubblica morale. Si privatizzò senza liberalizzare. Passando così da un protettorato politico a un protettorato di pochi, pochissimi interessi. Più finanziari che industriali, peraltro. Non per caso questo processo finì per accelerare la nostra fuoriuscita da alcuni settori strategici che non avremmo mai più riconquistato. La chimica, appunto. Ma anche la farmaceutica, la siderurgia, l’alimentare. Fino alle cronache più recenti e sconsolate degli ultimi anni. Dovremmo però riconoscere che a questa piega degli eventi concorse anche la politica. E che l’eccessiva presenza dei partiti in quell’ambito, e certe spartizioni effettuate -insieme- col bilancino del farmacista e con la protervia del capobastone, concorsero anch’esse a spianare la strada verso privatizzazioni di favore. La politica offrì in quel frangente gli argomenti, le armi e le munizioni con cui sarebbe stata trafitta di lì a poco. Cosa che non rende meno gravi le colpe di quegli anni, ma forse le distribuisce con maggior senso di equità.

8) Il fallimento dell’azione politica e culturale di Gianfranco Fini: traghettare il vecchio Movimento Sociale postfascista in un moderno partito della destra nazionalista e conservatrice.

Non sono d’accordo. Affatto. Fini è stato l’unico leader della destra italiana che s’è posto il problema. Ha archiviato, lui sì, il passato fascista, e si è affacciato su di uno scenario inedito e rischioso. Unico discendente di Almirante capace di uscire dal recinto fino a dichiarare che il fascismo era stato il “male assoluto”. Se la Meloni si spingesse fin lì, anche senza andare oltre, darebbe un buon contributo al paese e anche a se stessa. Mentre invece ci tocca, ancora oggi, fare i conti con quelle forme di velata nostalgia che offendono la nostra Repubblica. Vorrei aggiungere che la damnatio memoriae di cui Fini è stato a lungo vittima dalle sue parti deve molto anche al coraggio con cui prese posizioni che, venti e più anni dopo, la sua comunità fatica a fare proprie. Dopo di che, resta un problema, grande come una casa. Ed è che nel nostro paese la destra continua ad essere un eccesso, non trova mai la sua misura, insiste a proporsi nel segno dell’uomo forte, del potere verticale, dell’eccezione alla regola. Siamo lontani anni luce dai Churchill e dai De Gaulle. Ma anche dai Nixon che aprono alla Cina. C’è da quelle parti una mancanza di fantasia, un’incapacità di aggiornamento che mette tristezza più di quanto non metta paura. E parlo di un mondo assai più ampio dei confini dell’ex Msi. Da parte mia ci metto dentro Salvini e Berlusconi. Votati, votatissimi da elettori che un tempo sceglievano il pentapartito. Ma privi di ogni capacità, e direi anche di ogni volontà, di camminare lungo quel solco.

9) Il ruolo della comunicazione e dell’informazione nella formazione dell’opinione pubblica: nasce nel servizio pubblico RAI la tv populista (Samarcanda). Per quale ragione la stampa italiana e la tv non sono mai state autonome dai grandi gruppi industriali e dai partiti politici. Per anni si è discusso, polemizzato e legiferato sul sistema televisivo nazionale. L’attenzione dei partiti si concentrava sul duopolio RAI-Berlusconi. Poi un giorno, governante Berlusconi, Murdock introduce Sky nel sistema e qualche tempo dopo, una dopo l’altra, entrano nel sistema televisivo nazionale otto major USA senza che nessuno fiati.

Il sistema dell’informazione è sempre stato condizionato dalle sue anomalie. C’era (una volta) la Rai infeudata ai partiti. C’era Fininvest, poi Mediaset, senza concorrenza nel suo ambito. E c’erano grandi giornali legati a interessi extra editoriali. Per anni e anni queste anomalie, tenendosi per mano, hanno reso fragile quel sistema. Che ha cominciato a sentirsi più forte (se mai lo è stato davvero) quando la politica a sua volta ha iniziato il suo declino e ha rivelato tutte le sue debolezze. Ma senza guadagnarne in libertà. Tutt’altro. Mi viene da pensare alla terza rete Rai negli anni di passaggio, quando si mise a cavalcare tutti gli eccessi di protesta che andavano per la maggiore in quella stagione. Pensavano di portare fortuna alle sorti della sinistra che stava aspettando il suo turno e si trovarono invece a spianare la strada alla destra che era nascosta nelle retrovie e che in fondo aveva più titolo a trarre vantaggio da quel tipo di rappresentazione del potere morente. Samarcanda è un buon esempio di questo gioco di sponda mal riuscito. Non l’unico, a dire il vero. C’è come la ripetizione di un’antica consuetudine secondo la quale la destra nasce da un certo tipo di sinistra. Valga per tutti l’esempio di Mussolini, prima massimalista e poi duce del fascismo. In questo contesto che arrivasse Murdoch non dovrebbe sorprendere, e forse neppure scandalizzare. Mentre si dovrebbe ragionare, questo sì, su come dare forza, vigore e soprattutto qualche idea in più alla nostra produzione televisiva. Direi che qui si apre invece una nuova frontiera di rischio. Con poche case di produzione abbastanza grandi da poter attraversare le frontiere e piantare radici nel resto del mondo. E alcune di esse che invece stanno subendo l’opposto attraversamento di frontiere da parte delle major globali che le stanno comprando una dopo l’altra.    

PROFILO DI MARCO FOLLINI

Marco Follini, parlamentare e giornalista. Inizia la sua esperienza politica nella Democrazia Cristiana, è stato membro del Consiglio di amministrazione della RAI. E’ stato segretario del partito CCD (Centro Cristano Democratico) e dell’UDC, Vicepresidente del Consiglio dei ministri. Ha fondato e diretto la fondazione culturale “Formiche”. Ha poi fondato il movimento politico “Italia di Mezzo”. Nel maggio 2007 è entrato a far parte del gruppo promotore incaricato dell’elaborazione delle linee guida per la nascita del nuovo Partito Democratico. Aderisce al gruppo L’Ulivo del Senato. Nel novembre 2007, il segretario Walter Veltroni lo nomina responsabile per le Politiche dell’informazione del Partito Democratico. In questi stessi mesi inizia la collaborazione con Il Riformista. Candidato nella circoscrizione Campania come capolista per il Partito Democratico viene rieletto senatore. Nella successiva XVI legislatura è stato eletto presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari. Alle elezioni politiche del 2013 non si ricandida in Parlamento. Nel giugno 2013 Follini decide di riconsegnare la tessera del PD e dopo un’esperienza ultratrentennale, lascia la politica attiva. Nel 2014 diventa presidente dell’Associazione Produttori Televisivi (APT). Dopo aver sostenuto le ragioni del NO in occasione del referendum costituzionale del 2016, nel 2017 decide di tornare alla politica e lascia la presidenza dell’associazione. Collabora come editorialista al settimanale L’Espresso e cura una rubrica settimanale (“Il punto di vista di Follini”) sull’agenzia di stampa Adnkronos.

SEGNALIAMO