VENICE

Le polemiche sul «fascismo di pietra» sono paragonabili ad un fiume carsico. Riaffiorano quando meno te l’aspetti. Nel 2017, ad esempio, la storica Ruth Ben-Ghiat, italianista della New York University, vergò un articolo grondante fiele. Lamentava la presenza di troppe e ingombranti tracce del passato fascista. Defascistizzare il panorama. La vibrata indignazione l’aveva affidata alle colonne dell’autorevole «New Yorker».

Quindi, assecondando il suo accorato appello, si sarebbe dovuto prontamente accendere i motori delle ruspe, per riordinare innanzitutto il volto della Città Eterna. Spazzato via il Foro Italico. Rasa al suolo la Città Universitaria. Demolita via della Conciliazione. Fatti saltare i Fori Imperiali e piazza Augusto Imperatore. Polverizzato il quartiere dell’EUR. Abbattute le mura perimetrali degli stabilimenti di Cinecittà, il palazzo a forma di M dell’Istituto Luce, l’imponente facciata del Centro Sperimentale di Cinematografia. Purgata Roma, il lavoro si sarebbe dovuto estendere al resto della penisola.

Non risparmiando nulla. A cominciare dal Palazzo del cinema, in stile déco-razionalista, al Lido di Venezia. La magnifica struttura, a pochi metri dalla spiaggia, era stata messa in piedi con estrema rapidità per ospitare le proiezioni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che nell’estate 1932 apriva i battenti. Dimentichiamoci i lamenti radical/liberal newyorkesi. E soffermiamoci su un aspetto.

La passione per il cinema è condivisa dalle dittature degli anni Trenta. Stalin, Hitler e Mussolini, con intensità diverse, amano la celluloide. E, soprattutto, credono nel suo straordinario potere di convincimento e conoscenza. Dei tre il vero appassionato è Hitler. Dal 1933 al 1939 tutte le sere, dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste alla proiezione di un film (talvolta addirittura due), presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino.
Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita».

Mussolini, nella costruzione dell’«uomo nuovo» fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». Non si distacca molto dal giudizio di Lenin, convinto che le immagini sono l’«arte più forte». La differenza tra i due sta in un dettaglio: al cinema Lenin si annoia. Se obbligato a presenziare appena spente le luci lascia la sala per tornare a casa e leggere un libro. Il fascismo, con la piena approvazione del Duce, nel ventennio riserva la massima importanza alla «settima arte».

Dal 1934 la guida del settore viene affidata a Luigi Freddi. Milanese, è nato con il cinema, nel 1895. Futurista, interventista, volontario nella Grande Guerra, con d’Annunzio a Fiume e con Mussolini a San Sepolcro, dopo un viaggio in America ha convinto Galeazzo Ciano che la cinematografia va razionalizzata e governata.
L’Istituto Luce provvede al servizio cine-giornalistico; la Direzione Generale per la cinematografia finanzia e controlla la produzione; Cinecittà garantisce la realizzazione di film a ciclo continuo; al Centro sperimentale si formano nuovi attori e professionisti dello spettacolo. E Venezia è la vetrina della «nuova Italia» fascista. Una nazione ormai ordinata, prospera, moderna. Capace di attraversare senza traumi la grande crisi economica abbattutasi sull’Occidente. Guidata – ne sono arciconvinti gli americani – da un politico giovane e innovativo. Mussolini è il nuovo Cesare Augusto.

Ad intuire il potenziale della manifestazione veneziana è il conte Giuseppe Volpi di Misurata. Nel 1932 la città di Venezia è in piena espansione: economica e turistica. Alla spiaggia del Lido due grandi alberghi si fanno la concorrenza: il Des Bains, aperto nel 1900 e l’Excelsior, aperto nel 1908. Turisti arrivano da tutto il mondo. Perché non utilizzare la spiaggia e gli alberghi per una esposizione cinematografica? Detto fatto.

Nata come costola della Biennale d’Arte, in breve tempo, grazie al successo, la Mostra diventa annuale. Ogni successiva edizione si arricchisce di divi dello schermo e di film internazionali. L’aristocrazia italiana, fascistizzata, indossa volentieri lo smoking estivo. La mattina tengono banco le conversazioni sulla spieggia. La sera, dopo l’aperitivo, le proiezioni. I «signori» della critica al loro passaggio incutono riverenza.

Non di rado sono letterati di fine talento. Li scrutano ammirati i giovani appassionati sul trampolino di lancio. Spesso vengono dalla provincia. Molti di loro hanno un grande futuro caricato sulle spalle. Un nome su tutti: Michelangelo Antonioni. Gli eventi storici minano il successo di Venezia. Prima vanno via gli americani. I dazi sul prodotto stelle e strisce li ha infastiditi. I francesi sono sul piede di guerra.

Alla Venezia fascista intendono rispondere con la Cannes antifascista. Il debutto è previsto per settembre 1939. Ma scoppia la guerra. Dall’edizione del 1940 la Mostra internazionale si riduce ad una rassegna italo-germanica, con l’aggiunta di pellicole di nazioni amiche. Il clima bellico sposta la sede dal Lido alla città. Il colore grigioverde delle divise domina le proiezioni in sala. Le luci si spengono. Il sipario cala con la guerra civile. Finito il conflitto si riparte. Dopo qualche giro in sordina, la Mostra – madre di ogni Festival del dopoguerra – spicca il volo alla pari del cinema italiano. L’album di famiglia di quegli anni è impressionante. A Venezia ci passano tutti, ma proprio tutti. Trovi il sorridente e saltellante Albertone nazionale, in costume da bagno demodé. Ci sono le «maggiorate».
Sfilano i palestrati protagonisti dei film ambientati nell’antichità greca e romana.
C’è la splendente Claudia Cardinale e la prorompente Sophia Loren.

Ma c’è anche la conturbante e misteriosa Monica Vitti. Ogni divo dello schermo, nazionale e internazionale, sbarca in Laguna e raggiunge il Lido. I rotocalchi sono pieni di loro foto. Paul Newman viene ritratto seduto su una sdraia. Barba un po’ lunga, costume aderente e occhiali da sole Persol. La «tartaruga» è da urlo. I democristiani controllano con occhio benevolo la rassegna. Quando si accorgono che il confine della decenza è stato oltrepassato si muovono. Per riportare la barra al centro scelgono un fidatissimo direttore, peraltro gradito in Vaticano, Emilio Lonero. È un brav’uomo.

Nativo di Bari, garbato, piccino, devotissimo. Il «fustigatore» delle sconcezze nazionali, Oscar Luigi Scalfaro, lo tiene in grande considerazione. Aldo Moro ha piena fiducia del suo operato. Ma si schianta subito. Balla una sola stagione: il 1960. Ad affossarlo è l’incapacità di sostenere Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti.
La palla del gioco, in tempo di centro-sinistra, passa ai socialisti.
Arriva il romano Luigi Chiarini (dal 1964 al 1968). Il Professore, in gioventù gentiliano e fascista, come funzionario ministeriale per volontà di Freddi ha gestito, con grandi risultati, il Centro Sperimentale.

Convinto razzista (fino al 25 luglio è vicedirettore di «Quadrivio», settimanale di pregevole qualità letteraria, diretto dal famigerato Telesio Interlandi), dal 1943 al 1945 ha fatto perdere le proprie tracce. Poi è tornato a galla. Così lo ritrae Giampiero Mughini: bravo come pochi ad immergere i piedi nell’acqua un tempo fascista e antisemita, ora democratica e marxista. Per poi prontamente asciugarseli. Ma è un dettaglio trascurabile.

Come direttore Chiarini si rivela di notevolissimo livello. Regge le redini della manifestazione con mano ferma, riuscendo a coniugare le tendenze popolari con i nuovi slanci della ricerca autoriale, mettendo sempre al centro il prodotto nazionale. Con la direzione Chiarini i film italiani per quattro anni consecutivi si aggiudicano il Leone d’oro: Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, Vaghe stelle dell’Orsa (1965) di Luchino Visconti, La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo. L’edizione del 1967 schiude le porte ai fermenti innovativi e contestatari. Bella di giorno di Luis Buñuel vince il Leone d’oro. Il vento maoista spira forte.

Ma si deve accontentare del Leone d’argento, con l’ex-aequo a La Cina è vicina di Marco Bellocchio e La cinese di Jean-Luc Godard. Sfortuna vuole che il Professore si trovi a dirigere l’edizione che di fatto affossa la Mostra. Nell’estate del 1968 Chiarini è assediato dai contestatori. Venezia non deve svolgersi. E chi l’ha detto? Il Professore è di altro avviso. I politici gli fanno il vuoto intorno.

Gli autori, Pier Paolo Pasolini in testa, lo fronteggiano rumorosamente. I comunisti sparano a palle incatenate. I missini non sono da meno. I democristiani si fregano le mani, sicuri di tornare presto in sella. Lo lasciano solo, vigliaccamente, anche i suoi più fedeli collaboratori. Lui se ne frega. Sfida tutti. Tiene aperta la rassegna. Vince sul campo. Perde sul tavolo della politica. Per Venezia è l’inizio della fine. Scivola nell’anonimato. Si «sessantottizza». Sostituisce la competizione con le rassegne.

In un atto di puro autolesionismo abolisce i premi. Ha lo stesso fiato corto della cinematografia nazionale. Smarrita la propria identità, sfibrata chiude i battenti. La riporta in vita qualche anno dopo Carlo Lizzani. Il regista romano, direttore dal 1979 al 1982, compie un capolavoro. Rianimare un morto. Poi gli succede il vero «maestro di cerimonie», Gian Luigi Rondi. L’Andreotti (suo onnipotente protettore) del cinema italiano.

Gian Luigi prende lo scettro del comando nel 1983 e disegna una Mostra capace di contenere ogni tendenza. Dal filmone hollywoodiano allo sconosciuto italiano. C’è di tutto. Per ogni gusto. Ogni tanto Rondi prende una cantonata. Non vuole il noir postmoderno Velluto blu (1986), capolavoro di David Lynch, perché la protagonista, Isabella Rossellini, appare nuda. La madre, Ingrid Bergman, è stata amica intima di Gian Luigi. E lui non intende mancare di rispetto alla sua memoria. Il direttore è un uomo all’antica. In gioventù è stato vicino alla sinistra cristiana romana. Ha partecipato addirittura alla Resistenza.

Molti stentano a crederlo. Ma è vero. Vestito da ufficiale italiano si è presentato al Grand Hotel, chiedendo (e ottenendo) ai tedeschi la liberazione di un militare. Piemontese amante delle onorificenze (insignito anche dell’Ordine di Lenin), si è fatto adottare da un parente, il conte Nasalli. Così ha potuto accedere all’onorificenza più ambita: l’aristocratico cavalierato di Malta. Rondi è insuperabile nell’elaborare strategie, immancabilmente tessute alla tavola imbandita, come insegna Talleyrand. Tra una colazione e l’altra «intorta» amministratori locali, politici di ogni schieramento, produttori nazionali e internazionali, registi giovani e vecchi, di talento o scarsi, rottamati o sul trampolino di lancio.

Pezzo dopo pezzo, Rondi modella una manifestazione di alta qualità, destinata nella struttura portante a sopravvivergli. I direttori che lo seguiranno non vanno oltre il suo tracciato. Certo il trascorrere del tempo ridimensiona lo splendore veneziano. Cannes è straripante. Berlino moderna e aggressiva. Tante piccole manifestazioni rosicchiano spazio. Addirittura, la Roma veltroniana pensa di mandarla in soffitta con un proprio Festival.

Dopo Chiarini, Lizzani e Rondi c’è un altro direttore che difende Venezia da ogni attacco: l’attuale, Alberto Barbera. Biellese e torinista, nella Torino anni Settanta cinefilo tutto d’un pezzo, Barbera si è dimostrato nella prima conduzione (1998-2002), come nella successiva, davvero all’altezza della situazione. Alla sua guida la Mostra ha vissuto anni difficili. L’aggressione del digitale all’analogico. Della serialità televisiva al lungometraggio.
Dei nuovi supporti di fruizione alternativi alla sala. Gli è toccata pure la pandemia.
Ma ha saputo navigare con serietà, competenza e totale dedizione.
E allora auguriamo lunga vita a lui e alla Mostra d’arte internazionale di Venezia. L’ottantesima edizione apre i battenti il 30 agosto.


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