La politica come scienza filosofico-sociologica parte ottava
Il richiamo all’amicizia (nell’articolo precedente) come massima esperienza di comunicazione, ci fa spostare l’attenzione su quest’ultima, cioè su uno degli aspetti costanti e salienti della politica, su quello che si può considerare il carattere connaturale della politica stessa.
In quanto dice socialità, la politica dice infatti comunicazione. In quanto dice comando/obbedienza, la comunicazione politica può essere distinta come comunicazione dall’alto al basso e dal basso all’alto. Fondamentalmente, per comunicazione politica, innanzitutto – essendo la politica relazione – si intende comunicazione sociale. Gli individui in società comunicano tra loro sia attraverso il linguaggio sia attraverso i comportamenti, cioè le loro azioni che si possono considerare il linguaggio dell’agire pratico.
Questo lo avevano capito già i greci e, oggi, trova esplicazione e sviluppo, per esempio, nella teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas. Qui va però aperta una breve parentesi esplicativa, giacché questo comunicare discorsivo nella concezione politica ellenica non va inteso nel senso puramente logico-retorico e grammaticale: la parola (secondo una tradizione che precede la stessa civiltà ellenica e di cui questa risente, se si pensa, per esempio, alla cultura semitica, dove la parola non ha una funzione puramente rivelativa ed esplicativa di un significato ma anche connotativa-creativa, oppure, per portare un esempio eclatante, alla “parola”, alla potenza della “parola” del Dio Jahvè creatore dell’Antico Testamento) implica un vero e proprio “potere” attivo: parola e azione rappresentano una endiadi.
In questo nesso tra parola e potere va individuata la sua valenza intrinsecamente politica: “La parola è un gran dominatore che, con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere”; l’arte del discorso, per il sofista, “è veramente il bene più grande (…) e, a un tempo, causa (…) di dominio sugli altri della propria città” (Platone, Gorgia, 452).
Di qui, la concezione aristotelica dell’uomo come animale parlante (zoon logon echon) e, contestualmente, animale che vive – e perciò entra in relazione sociale – nella “città” (zoon politicon). La parola/pensiero, in questo contesto, fa tutt’uno con l’azione.
Riepilogando: in Grecia – che possiamo considerare all’origine della nostra concezione politica occidentale – la vita pubblica indica la comunicazione nella e della società politica o polis, cioè i rapporti tra i cittadini che, in quanto tali, sono eo ipso pubblici. Ora, proprio per i greci (e, in particolare, per gli ateniesi) il primo veicolo di comunicazione è la parola (è un caso che la democrazia con la sua ecclesia, luogo della discussione, nasca in Grecia?), a sua volta intesa in senso pregnante come parola creativa, fattiva, come parola agente, parola/azione. Il rapporto tra cittadini indica, innanzitutto, il “discorso pubblico”. Non è casuale l’importanza qui assunta dalla retorica (come, a Roma, dall’eloquenza oratoria), al punto che, per i sofisti, con questa si identifica la sapienza, la “filosofia”.
Il discorso politico nella “città antica” può essere inteso anche in senso più ristretto (alla cerchia dei “magistrati”) e specifico, riferito cioè – per dirla con Cicerone (De Officiis, I, 34, 124) – a qui gerunt personam civitatis (la quale, nel caso romano, è il Populus col Senatus), cioè agli esponenti della classe politica, ai magistrati della Repubblica Romana: oggi, dovremmo aggiungere e precisare, a tutti i cittadini in quanto elettori/eleggibili.
Approfondiamo il discorso sulla politica come comunicazione. Le leggi rappresentano una forma di comunicazione (imperativa) sia che vengano considerate espressione dell’esperienza sociale (si ricordi: ubi societas, ibi ius) sia che rappresentino il linguaggio – la voce “legale” (ossia della legge) – del potere (non si tratta, dunque, di un’alternativa, al contrario, di due aspetti della medesima esperienza politica).
Una necessaria digressione sul rapporto fra potere e diritto prima di riprendere il discorso sulla politica come comunicazione, dato che anche il diritto rientra nella prospettiva del comando-obbedienza: si tratta di rispondere alla domanda che sorge spontanea su quale sia la differenza fra l’asimmetria propria della politica e quella del diritto. Va subito detto che l’obbedienza alla legge investe anche i soggetti addetti a farla osservare o a riparare alla sua violazione.
Tutti, insomma, sono soggetti alla legge cui debbono obbedienza. Proprio tale caratteristica del diritto (sia esso “positivo” o espressione di quello “naturale”) ci fa capire lo stretto rapporto intercorrente fra diritto e politica (rapporto non identità; né si dimentichi che il diritto naturale ha rappresentato storicamente l’esigenza di legittimazione specifica del diritto positivo fin da quando quest’ultimo, col trionfo del “positivismo giuridico”, è stato trasposto allo Stato sovrano, assurto a ordinamento degli ordinamenti, in sottaciuto riferimento alla tradizione dottrinaria dello Stato moderno assoluto, in quanto superiorem non recognoscens, quasi a sintesi storica del principio della forza, facendo coincidere diritto e sovranità ma, così, svuotando la funzione svolta dallo stesso diritto). Si potrebbe al limite sostenere, più in generale, che il diritto non è solo il linguaggio e la garanzia della (asimmetria) politica ma che ne esprime la legittimazione: al carattere prescrittivo-coercitivo del diritto corrisponde il riconoscimento e l’accettazione di questa prescrittività e coercibilità.
Riprendiamo ora il discorso interrotto su politica e comunicazione.
Va tenuto presente che gli stessi veicoli della comunicazione fanno parte integrante di questa, così come lo è il veicolo per eccellenza, il linguaggio: nel senso che, non essendo solo mezzi materiali e puri strumenti (a cominciare da quelli orali/vocali) di trasmissione del messaggio, ma contestualmente mediatori (a cominciare dalla “parola”), contribuiscono a formarlo e, naturalmente, possono deformarlo, ancor più nel caso di mezzi tecnici (si pensi già alla scrittura) e tecnologici (si pensi a quelli dell’era digitale).
I cosiddetti, nell’età contemporanea, “mass media”, ormai digitalizzati, fanno parte del messaggio, sicché vale ancor più per questi, in ragione, appunto, direttamente proporzionale alla loro natura altamente tecnologica, quello che Marshall McLuhan ha sostenuto in riferimento a questi ultimi mezzi elettronici con uno slogan citatissimo in apparenza sbrigativo: “il mezzo è il messaggio”.
In qualche modo, la comunicazione è sempre “mediatrice” (anche quando non è di massa né è affidata a tecnologie ad alta definizione). Nello stesso tempo, in quanto espressione della relazione politica, fondata sul comando/obbedienza, la comunicazione è produttrice del consenso (e del dissenso): consenso politico che sta al fondo dello stesso dissenso finché la (società) politica regge, perché il dissenso rimane interno alla politica anche quando (e perché) instauratrice di una forma di politica nuova; solo se e quando esso varchi il limite della società politica per far posto allo “stato di natura”, solo allora il dissenso diventa esterno ed estraneo alla politica stessa.
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