MINESTRA MARITATA IN 5 RACCONTI – 4 di 5

Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento avviene un grande cambiamento nell’alimentazione dei napoletani. L’invenzione della gramolatura della semola di grano mescolata con l’acqua, passata al torchio e costretta a passare per la trafila, crea la nascita dell’industria della pasta. Vermicelli e maccheroni invaderanno le tavole dei napoletani, che da “Mangiafoglie” si trasformano rapidamente in “Mangiamaccheroni”.

La Minestra Maritata perde progressivamente la sua centralità nella cucina napoletana.

Dal 1731 Carlo III diventa Re di Napoli e inizia una grande opera di recupero delle campagne. La cultura gastronomica del nuovo Re è francese. Tuttavia prodotti ortivi locali, la pasta, le mozzarelle, i pomodori, si insinuano nelle ricette francesi; si conservano i nomi come Sartù, Culì. Fricandò, Timbale, ma la sostanza si “napoletanizza”.

Protagonista di questo processo è Vincenzo Corrado che opera al servizio del principe Imperiali di Francavilla. Nel Palazzo Cellammare e nei vasti giardini che risalivano la collina, dava feste con centinaia di invitati. Il Principe è una sorta di corrispondente del Principe di Condè francese. Vincenzo Corrado scriverà alcuni ricettari nei quali non compare più la minestra maritata, anche se la foglia resta protagonista della cucina. Propone molti tipi di zuppe in brodo grasso, ma con singoli vegetali. E il brodo somiglia a quello del Pignato Maritato, anche se un po’ semplificato nelle sue componenti. Notate il francesismo del termine pottaggi, al posto di minestre o zuppe.

POTTAGGI

Acciocché i Potaggi riescano di gusto, bisogna, che sieno cotti in ottimo brodo fatto con carne di Manzo, Cappone, ed un pezzo di prosciutto, e con rape, pastinache, cipolle, e di un mazzetto di erbe aromatiche condito; ma nel servirli bisogna sgrassarli, essendo il grasso nauseante, e nocivo.

Francesco Leonardi, un cuoco che operava nelle cucine del principe, diventerà niente di meno che il cuoco di Caterina di Russia, alla fine della sua carriera, nel 1790, scriverà un trattato dal titolo emblematico. “L’Apicio Moderno”. In ben sette volumi di ricette rivendicherà nuovamente l’importanza della tradizione gastronomica italiana, in opposizione a quella francese.

E qui ritroviamo anche se in forma più leggera la Minestra Maritata. La ricetta è preceduta da alcune considerazioni sulla particolarità, la bellezza e i prodotti delle campagne nei dintorni di Napoli e sulla dolcezza delle erbe che i napoletani mangiano spesso all’insalata. E aggiunge a proposito delle zuppe che “la vera maniera, e la più saporita è quella di metterle in un buon brodo crude, o sole o mescolate diverse insieme”.

Leonardi propone poi la seguente ricetta:

ZUPPA D’OGNI SORTA DI ERBE ALLA NAPOLITANA

Prendete una piccola marmitta, poneteci del buon brodo senza digrassare, un pezzo di prosciutto, un pezzo di ventresca, e fatelo bollire per un’ora a fuoco lento, poscia passatelo al setaccio fino, e rimettetelo nella sua marmitta, col prosciutto e la ventresca, ponetelo sopra il fuoco, allorché bolle di nuovo metteteci le verdure, fatele cuocere a fuoco allegro, avendo attenzione che non passino di cottura, che restino verdi e poco brodose, digrassatele, e che siano giuste di sale e servitele.

La differenza rispetto alla tradizionale Minestra Maritata è nella semplificazione del brodo, reso grasso solo dalla presenza di prosciutto e pancetta. Sparisce la varietà delle carni che insaporiscono il brodo, mentre resta la varietà delle verdure, di cui si raccomanda la conservazione del colore e della consistenza.

Anche se subisce la vincente concorrenza dei maccheroni, l’uso di cucinare le verdure in brodo grasso rimane nella gastronomia popolare. Nel 1836 Achille Spatuzzi, e Luigi Somma pubblicarono “Saggi igienici e medici sull’ alimentazione del popolo minuto di Napoli” dove dopo avere analizzato le proprietà salutari e i rischi dei singoli prodotti alimentari denunciano come negativa l’attitudine a cucinare verdure in brodo: “Vedremo i rinfrescanti e magnifici erbaggi del nostro suolo ridotti a minestre, le quali tanto più si pregiano per quanto più riccamente sono condite di sostanze grasse, e di carni salate”. Il saggioevidenzia anche una notevole incomprensione per la “socialità” del cibo di strada. “Insomma è troppo raro vedere le famigliole del nostro popolo minuto, che unite insieme si cibano di un pasto nutritivo ed abbondante: amano invece baloccarsi nelle bettole in ghiotte merende, e cosi illudono l’appetito, soddisfano il gusto, ma hanno digestioni incompiute e nutrizione imperfetta”. Questo stile è contrapposto un po’ moralisticamente a quello delle popolazioni settentrionali: “…mentre ii povero Tirolese, che mangia un grosso piatto di polenta e cacio durissimo, gode florida e robusta salute e resiste instancabilmente alla fatica”.

La requisitoria continua contro il cibo delle feste: “Chi poi volesse convincersi del come il nostro popolo si lascia predominare dalla dannosa colpa della gola, vegga come nel Natale, nel Carnevale, nella Pasqua ed in altri giorni di solennità popolari esso improvvidamente sciupa non pure il frutto di molte fatiche, ma eziandio si priva degli oggetti più necessari alla vita, e contrae debiti i più gravosi per fare che in quei giorni non mancassero alla sua mensa i cibi, che l’uso comanda.”

E un cibo che non poteva mancare alla vigilia di Natale era proprio la Minestra Maritata.

Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, pubblica nel 1837 il ricettario Cucina teorico-pratica, al quale aggiunge, nel 1839, l’appendice Cusina casarinola co la lengua napolitana, dove descrive la ricetta della minestra in uso per la vigilia di Natale. Il testo in napoletano è suggestivo e sembra avere il ritmo delle rime di una poesia. Proviamo a leggerlo e ad ascoltarlo insieme nel video seguente.


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