LA VISIBILE SCENA DEL MONDO

NEL MUSEO DEL PAESAGGIO DI PALLANZA

Dall’imbarcadero si lascia il lungolago, si attraversano i portici sotto il Palazzo di Città e si sale per la ruga, il termine antico con cui, sul lago, si indica la breve stradina in salita che conduce dalla riva al centro del paese. Case ristrutturate senza segni evidenti di modernità, legate le une alle altre, accompagnano nel silenzio, lontano dal traffico cittadino, a negozi di filatelia, di libri antichi, a un ristorantino dal sapore ottocentesco che ha preso recentemente il posto di un vecchio caffè rimasto da qualche secolo uguale a se stesso, con mobili di legno scuro, specchiere, marmi, luci gialle soffuse.


Antiche insegne, vetrinette profilate di ferro battuto, una merceria che ricorda gomitoli di lana, pizzi, passamanerie e bottoni di madreperla nelle mani abili di nonne sopravvissute all’era del made in China, tra il profumo di pane appena sfornato da uno storico forno, si giunge con pochi passi di fronte all’ultimo palazzo, grigio, austero, imponente, ricco di suggestioni: il palazzo Viani Dugnani, dal 1909 Museo Storico Artistico del Verbano e delle Valli, fondato da Antonio Massara e dalla Associazione intercomunale Pro Verbano, oltre che dal Ministero della Pubblica Istruzione, enti pubblici e privati. Dal 1914 ha assunto la denominazione di “Museo del Paesaggio”.

Sicuramente la scelta di questa sede non è stata a suo tempo casuale, perché il palazzo, edificato probabilmente nel 1600, e appartenuto alla ricchissima e nobile famiglia Viani, poi Viani Dugnani dopo il matrimonio di Teresa Viani con Giulio Dugnani, ebbe un futuro ancor più prestigioso, quando, nella metà dell’Ottocento, diventò il polo culturale di tutta la sponda piemontese e sabauda del lago Maggiore. Qui infatti vissero i nobili Giuseppe Arconati e la moglie Costanza Trotti Bentivoglio, tra loro cugini, appartenenti ad una casata nobiliare milanese con origine nel 1300.

Giuseppe Arconati, sempre affiancato dalla moglie, che lo seguì nell’esilio ventennale in Belgio, fu figura di spicco presente sulla sponda piemontese del lago Maggiore, quando vi trovarono asilo i grandi protagonisti del Risorgimento italiano, perseguitati o condannati a morte commutata in esilio dal governo austriaco dopo i moti del 1821 e del 1848.

L’Arconati fu uno dei più stretti collaboratori di Federico Confalonieri durante l’istituzione del movimento costituzionale. Dopo l’arresto, scappato in Belgio presso il castello di Gaasbeek di sua proprietà, diede rifugio a numerosi altri esuli politici come Giovanni Berchet, Vincenzo Gioberti, Federico Confalonieri fuggito dallo Spielberg, Giacinto Provana di Collegno – futuro Generale e Ministro plenipotenziario in Francia durante il regno di Vittorio Emanuele II – che qui conobbe e sposò Margherita, sorella di Costanza.

L’Arconati ritornò a Milano nel 1840 dove lottò per l’unione con il Piemonte, partecipando alle Cinque giornate di Milano nel ’48. Rioccupata Milano dagli Austriaci, si rifugiò sul lago Maggiore. Presa la cittadinanza a Pallanza, nella villa Viani Dugnani, vi creò un salotto culturale e politico, nel quale con la moglie continuò a tessere, in una dimensione mitteleuropea, le relazioni con le grandi personalità del pensiero, della filosofia, della politica. Anche i numerosi viaggi a Parigi, a Heidelberg, a Bonn, a Berlino, dove i coniugi Arconati frequentavano ambienti culturali, servivano a diffondere i grandi temi che interessavano il mondo cattolico liberale d’Europa e i benefici derivanti da questi rapporti e scambi venivano subito estesi a tutto il gruppo di amici esuli sul lago.

Dagli Arconati, a Pallanza, furono ospiti Giovanni Berchet e Mary Clarke, l’economista inglese N.W.Senior, il ministro inglese Whig Adair, il poeta Longfellow, il giurista tedesco E. Gans, i liberali belgi A. Quételet, S. van de Weyer, F. de Mèrode. Presso di loro, a Pallanza, Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini conobbero il futuro Ministro del Regno Ruggiero Bonghi, che sarà il testimone delle relazioni tra i due principali esponenti della cultura italiana dell’800 e di cui immortalò i dialoghi ne “Le Stresiane”. Stefano Stampa racconta di viaggi in battello del patrigno Alessandro Manzoni e della madre a villa Viani Dugnani presso gli Arconati. (S.Stampa, “A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici. Appunti e memorie”, Hoepli 1885.)

Giuseppe Arconati nel 1850 fu eletto deputato del Regno di Sardegna, carica che ricoprì dalla IV alla VII legislatura, per poi diventare senatore dell’VIII legislatura del Regno d’Italia dall’8 Ottobre del ’65 fino alla morte, avvenuta a Milano nel 1873.

Il ricordo di queste presenze si materializza nell’immaginario di chi entra oggi nel Museo del Paesaggio di Pallanza, predisponendosi a un viaggio nella storia della vecchia Pallanza, con la chiesa di San Leonardo a ridosso della riva, costruita nel 1500 e con un campanile edificato con le pietre del vecchio castello dei feudatari del paese; con la sua spendida chiesa romanica “Madonna di campagna”, ai limiti estremi del borgo verso la vicina Intra; con le stradine anguste che la attraversano parallele alla riva del lago, allora a ridosso della prima fila di casette allineate. La ottocentesca Pallanza dai lumi a petrolio che la illuminano di notte, dei carretti e dei muli che si muovono fra i vicoli angusti mentre le donne lavano i panni sulla riva, fa intravedere quei grandi personaggi passati alla storia che si muovono nel borgo esibendo la loro eleganza fatta di austerità, di guanti e cappello, di orologi infilati nel taschino con lunghe catene d’argento.

Le loro carrozze sollevano polvere mentre il nitrito dei cavalli e il cigolio delle ruote rompono il silenzio che avvolge il borgo, interrotto solo dal suono delle campane che segna le ore o richiama le donne che già sfilano verso la chiesa.

Con queste suggestioni si varca l’austero l’ingresso del Museo del Paesaggio, l’approccio più in linea con lo spirito del fondatore Antonio Massara che con il termine “paesaggio” non intendeva “il cliché stereotipo dei panorami naturali, ma l’aspetto intimo e profondo e continuamente mutabile sotto l’impronta della vita umana, della visibile scena del mondo”. ((Antonio Massara, “Il Museo del Paesaggio” in “Pallanza, in “Pagine d’arte”, vol. 4).

Il lago Maggiore è stato uno dei soggetti preferiti dai nostri pittori fra Ottocento e Novecento. Come leggiamo in “Il lago Maggiore in un secolo di pittura 1840/1940” (Istituto geografico De Agostini, Novara, 1976, p. 5):

le bellezze notevoli e varie del lago e dei luoghi circostanti attirarono l’attenzione di una lunga e fitta schiera di pittori, soprattutto, come è naturale, piemontesi e lombardi, quando questi cercarono i luoghi più pittoreschi per dipingere “en plain air”. La loro ispirazione si esplicò in modo così ampio e continuativo nel corso di circa un secolo che attraverso i paesaggi del lago Maggiore si possono individuare gli indirizzi e gli sviluppi dominanti della pittura piemontese e lombarda della seconda metà dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento. D’altra parte non va dimenticato che numeose famiglie aristocratiche allora residenti sul lago, come i Trubetzkoy a Ghiffa, i Saint Léger alle isole di Brissago, la principessa di Teano e la marchesa Della Valle Casanova nelle loro ville di Pallanza, per amore dell’arte e spirito umanistico, radunarono intorno a sé numerosi fra gli artisti più eletti dell’epoca, in veri cenacoli artistico- culturali.

Se il paesaggio fino al 1600 rimase confinato ad una funzione essenzialmente complementare di sfondo, e nella parentesi neoclassica settecentesca fu considerato un genere di pittura secondario, la successiva evoluzione del gusto pittorico, in tutta Europa, rivalutò il paesaggio come soggetto autonomo nelle sue varie espressioni. Parallelamente mutò in modo radicale e profondo anche l’atteggiamento del pittore di fronte alla natura, evolvendosi da una osservazione asettica e impersonale, animata dall’intento di una fedele e minuziosa rappresentazione, ad una reinterpretazione sentita, filtrata attraverso la propria sensibilità e quindi fortemente personale.

Come gli scrittori d’oltralpe nei loro quaderni di viaggio, e successivamente scrittori come Antonio Fogazzaro, Gabriele d’Annunzio, Ernest Hamingway, Piero Chiara e altri ancora lasciarono nelle loro opere la loro visione personale, unica dei luoghi del lago Maggiore, dal Sempione alle isole Borromeo, dalla sponda piemontese a quella lombarda, dalle montagne aspre alle colline verdeggianti di viti e piante in fiore, così il panorama pittorico dall’Ottocento al Novecento è costituito da opere che permettono di comporre un quadro complessivo, fatto di umori, visioni, percezioni, stili e linguaggi diversi. Anche le opere pittoriche custodite nel Museo del Paesaggio di Pallanza o in altri musei italiani e stranieri, o appartenenti a prestigiose collezioni private, raccontano in modo variegato il paesaggio del lago e dei suoi luoghi.

Come nella letteratura “romantica”, l’isola Pescatori ha rappresentato uno dei soggetti prediletti, per la naturale armonia del suo profilo, per essere il risultato dell’opera pressoché inconscia di tante generazioni di abitanti. L’arco, piccolo, ma di proporzioni perfette, della casa rustica posta quasi di fronte all’imbarcadero, soggetto prediletto dai pittori, costituisce una nota distintiva di eccezionale efficacia. Osservato di fronte o di fianco, da vicino o da lontano, quell’arco domina in modo tipico il paesaggio. In primo piano, in contrasto coloristico con le montagne sopra Baveno, di sfondo, e il porticciolo con le barche dei pescatori, l’arco domina un dipinto di Massimo d’Azeglio, custodito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino. Ritroviamo la stessa casa con l’arco, prospetticamente centrale, in un’opera di Alfonso Muzii, in una di Roberto Borsa, e in una di Luigi Mantovani, appartenenti a collezioni private.

L’isola dei Pescaori, così genuina e pittoresca è ben lontana dalla leziosità e ricercatezza dell’isola Bella, ritenuta ridondante di interventi dell’uomo da parte degli scrittori romantici.

La pittura dei grandi artisti dell’Ottocento ha rivalutato l’isola dei Pescatori, che fino ad allora era stata la Cenerentola delle isole Borromeo, trascurata da tutti gli itinerari turistici. Oggi l’ isola rimane nel cuore dei visitatori che scoprono anche la parte interna, ricchi di scorci suggestivi: le stradine sinuose, i viottoli lastricati di pietre che scendono verso il lago, guardando Baveno o Pallanza e Laveno; le case semplici dai tenui colori pastello con balconcini fioriti, la chiesetta di San Vittore, con il minuscolo, suggestivo cimitero, destinato solo a poche anime isolane.

La vasta panoramica di opere custodite nel museo di Pallanza comprende innumerevoli vedute in cui il paesaggio è colto nei suoi silenzi e suggestioni: le tipiche barche dei pescatori allineate lungo le rive, le nevicate dove le baite, i prati e le montagne sono sommerse da una coltre di neve. Scene agresti, nei colori bruciati dell’autunno, con pecore al pascolo, mietiture, torrenti che scorrono su letti rocciosi fra vegetazione spontanea, i soggetti prediletti di Pompeo Mariani, Mosé Bianchi, Filippo Franzoni, Achille Tominetti.

Come la narrativa, così l’espressione artistica racchiusa in un museo, fornisce un supporto alla conoscenza che, mossa dalle emozioni, penetra in profondità.

Anche gli artisti come gli scrittori, nativi o ospiti del lago Maggiore, dalla metà dell’Ottocento hanno ritratto non solo gli scenari paesaggistici che avevano di fronte e che rimasero pressoché immutati fino agli inizi del Novecento, ma anche la storia stessa delle popolazioni, spesso uguale a se stessa da sempre, le loro condizioni di vita, la loro semplicità, i loro silenziosi affanni.

Così incontriamo le lavandaie sulle rive di Pallanza ritratte dal pennello di Arnaldo Ferraguti:

l’aratura rudimentale di Achille Tominetti:

Ma anche l’immagine sofisticata ed elegante della regina Margherita di Savoia ritratta da Daniele Ranzoni, emblematica della diversa iconografia del ceto aristocratico presente sul lago.

Di questi e altri numerosi pittori, il Museo del Paesaggio propone una ricca panoramica di opere, ma dedica in particolare due esposizioni permanenti agli artisti Mario Tozzi e Paolo Troubetzkoy che con le loro opere hanno reso Pallanza un museo a cielo aperto.

Il pittore Mario Tozzi, pur essendo marchigiano, ha vissuto e dipinto a lungo a Suna, piccolo comune il cui lungolago è la continuazione di quello di Pallanza.

Di Mario Tozzi ammiriamo le figure possenti, soprattutto femminili dal lungo collo, che si muovono nelle geometrie di spazi domestici. I colori, resi cangianti da una luminosità che si sprigiona dalla magia degli impasti di colore, giocano con sfumature che si muovono attraverso tonalità che alternano grigi e arancioni, tratti più decisi, che delimitano forme perfette. Questa armonia di forme e colori è stata definita “geometria della purezza”.

Tra il 1923 e il 1924 l’artista realizza otto tondi del diametro di 115 cm, dipinti a olio su tela, da collocare sulla volta della navata della chiesa di Santa Lucia di Suna, dove si trovano tuttora. Nel 1951 progetta il monumento ai caduti delle due guerre mondiali – un arco in blocchi di pietra a vista affiancato da un fante morente posto sopra un piedistallo – costruito sul lungolago proprio di fronte alla chiesa di S. Lucia e inaugurato nel 1953.

Nel 1996, dopo la grande mostra allestita a Pallanza nel centenario della sua nascita, il fratello Arnaldo ha donato 19 dipinti al Museo del Paesaggio che, nel corso della mostra “Armonie verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al Novecento”, svoltasi dal 24 Marzo al 30 Settembre 2018, ha esposto opere emblematiche del passaggio dall’impressionismo ai valori classici: la poetica “Casetta a Suna”del 1914; “Cimitero di Suna” e “La passeggiata”, luminose opere impressioniste del 1915.

A Paolo Troubetzkoy è invece riservata un’ampia gipsoteca distrinuita in diverse sale.

Nato a Intra, la famiglia si trasferì nella vicina Ghiffa, a villa Ada, in cui vennero frequentemente ospitati i pittori Cremona e Ranzoni, lo scultore Grandi, i musicisti Catalani e Junck, il poeta e compositore Arrigo Boito. Dal particolare impressionismo di Ranzoni e Cremona inizia la ricerca scultorea del giovane Troubetzkoy che riscuote presto successo: Alcune sue opere vengono acquistate dalla galleria d’Arte Moderna di Roma e dal Golden Gate Museum di San Francisco. La sua vita intensa tra la Russia, l’America, Parigi è costellata di grandi successi. Nel 1921 a Parigi affitta una villetta, mentre d’estate soggiorna alla Ca’Bianca, presso Suna.

Nel lungolago di Intra è posto un monumento di Paolo Trubetskoy dedicato al suo maestro Daniele Ranzoni.

Quando morì nel 1938 lasciò tutta la sua produzione in gesso presenti nella sua residenza di Suna e nel suo studio parigino, a Neuilly sur Seine, al Museo del Paesaggio di Pallanza: figure femminili, composizioni, personaggi a cavallo, ballerine, busti e ritratti di personaggi a cui la studiosa verbanese Elisabetta Giordani, su incarico del museo, nel volume “Identità rivelate. Personaggi ritratti dallo scultore Paolo Troubetzkoy”, pubblicato nel 2023, ha cercato, spesso riuscendoci, di attribuire un nome, perché nell’espressione artistica è custodita la storia degli uomini. Scrive la Giordani:

Sovente Paolo Troubetzkoy non attribuiva nomi o titoli alle sue sculture e ne dava questa spiegazione: “Io lavoro non solo per esprimere una forma, ma soprattutto per trasmettere il senso della vita, perciò la forma ha maggior significato se vi è vitalità, per questa ragione un titolo potrebbe non esprimere tutto ciò che la mia opera significa realmente.

E conclude:

attraverso le biografie è stato possibile ricostruire la cosiddetta gilded age “l’età dorata”, periodo che si identifica con il rapido sviluppo industriale in America e la Belle Époque in Europa, un mondo affascinante nel quale si intreccia la vita altrettanto straordinaria di questo artista dal respiro cosmopolita.


SEGNALIAMO