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POLIS: TARANTO

Lo stato si riprende ILVA

DIEGO CASTAGNO
GAIA BERTOTTI

L’acciaio di Taranto è un fatto di portata nazionale. E non è solo una fatto economico, va oltre, perchè riguarda la questione della transizione a modelli sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale, aspetto tutt’altro che secondario del futuro concreto del sistema economico di un paese che non cresce da 30 anni. Chiudere ILVA sarebbe un problema forse più per il sistema paese che la comunità, che però paga un costo altissimo di anni di mancata innovazione e zero progettualità per il futuro.

Storia di una fabbrica grande come una città

ITALSIDER, ILVA, ora Arcelor Mittal, domani non è chiaro, la grande fabbrica delle citta dei due mari è lil simbolo di tante cosa. Prima fra tutte la questione del sud dell’Italia, la più straordinaria delle opportunità per il nostro paese, in un contesto geopolitico che sta cambiando rapidamente e nel quale la cartina geografica della penisola potrebbe capovolgersi. Poi l’avvicendarsi dei piani di crescita e sviluppo (cose diverse, come è noto) che hanno caratterizzato la storia della Repubblica dal dopoguerra ad oggi, piani che sono passati dal pubblico al privato nel tripudio generale degli ottimisti del neoliberismo. Il caso ILVA dimostra ancora una volta che il mercato da solo non ce la fa, e che serve lo stato. Non tanto per produrre le bobine di acciaio, ma piuttosto per ripulire il mondo da anni di crescita illimitati a discapito di tuitto, pianeta incluso.

Privatizzazioni, dismissioni, il ritorno dello stato “imprenditore”

Dopo anni caratterizzati da passaggi di proprietà, vicende giudiziarie, proclami e annunci relativi a fantastici progetti di rilancio e di azioni di bonifica, il 2024 segna la spaccatura tra il governo italiano e il gruppo franco-indiano Arcelor Mittal. Gli anni degli ottimisti Renzi e Calenda sono un ricordo lontanissimo, triste e sbiadito allo stesso tempo. In questi giorni e nei prossimi mesi non si decide solo il destino dell’acciaio di Taranto, ma il modello di sviluppo che si ritiene migliore per il nostra paese e per l’Europa tutta. La grande azienda siderurgica è nota per l’impatto ambientale e le polveri micidiali, eppure da lavoro direttamente o indirettamente ad una città. La transizione verde non è a costo zero, come dimostra tra gli altri proprio il caso ILVA. Occorre decidere, e a decidere non puo essere il mercato, o almeno non da solo.

Lo scenario dunque sta cambiando: il governo italiano è pronto a prendere il controllo dell’ex Ilva. L’opinione pubblica però va dallo scetticismo alla rassegnazione, in attesa di capire se dal dibattito della politica si passera ad azioni concrete che tentano assieme scelte aziendali, sensibilità sociale e tutela del territorio. E dopo i tanti casi di de-industrializzazione e dismissioni capitate in questi anni di globalizzazione. Diciamo che l’opzione di ri-statalizzazione della produzione è una novità importante e un esperimento dal cui esito dipenderanno molte delle strategie industria nel nostro paese.

I fatti degli ultimi mesi

La fabbrica dell’acciaio di Taranto nasce nel 1961 dall’unione delle Acciaierie di Cornigliano e di Ilva, diventa in breve tempo Italsider, azienda che gestisce lo stabilimento di acciaio e ferro più grande d’Europa, nella quale si produce la materia prima che rifornisce le industrie del Nord dell’Italia e del continente. Italsider è e resta di proprietà dello stato fino agli anni della privatizzazione. Negli anni ’90 passa al gruppo Riva e prende il nome di “ILVA”. La privatizzazione è finalizzata alla necessità di rilanciare l’acciaieria, proposito che presto deve fare i conti gli effetti della produzione sull’ambirete e sulla salute degli abitanti del territorio. La “fabbrica di malattia e morte”, così come la chiamano i giudici che nel 2012 ne dispongono il sequestro per “disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro”.

in poco tempo cattura l’attenzione a livello globale. Gli effetti delle attività inquinanti di ILVA sui cittadini di Taranto sono note, dall’aumento di casi di malattie respiratorie, ai tumori e alle altre patologie connesse all’esposizione a sostanze inquinanti. A distanza di cinque governi, di indagini e processi il timone di ILVA passa alla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal, la quale si inserisce ottenendo l’immunità penale circa i danni e le vicissitudini giudiziarie precedenti all’assegnazione.

Taranto – ITALIA

Durante l’ultimo incontro tenutosi lunedì 8 gennaio tra Arcelor Mittal e il governo italiano, quest’ultimo ha proposto un aumento di capitale sociale (320 milioni di euro) per garantire una continuità produttiva. La risposta si rileva sorprendente: lo stesso giorno è emersa l’indisponibilità della multinazionale ad assumere impegni “finanziari e di investimento, nemmeno come socio di minoranza”.

L’ex ILVA torna quindi nelle mani dello Stato, ma è probabile che il governo si affidi al commissariamento e che cerchi più avanti un partner privato (come Arvedi o Marcegaglia).

Nel frattempo i sindacati continuano a denunciare il dramma dei lavoratori: “livelli produttivi ai minimi termini, migliaia di lavoratori in cassa integrazione, interi territori maltrattati da una gestione arrogante e fallimentare” e chiedono un bilanciamento equo tra l’occupazione locale, la sostenibilità ambientale e la salute pubblica.

Attualmente a Taranto di ILVA rimangono le conseguenze sulla comunità e sul territorio, Sun tutte l’impatto occupazionale, con il ricorso massiccio alla cassa integrazione:

su 8.160 lavoratori 2.500 sono in cassa integrazione. A cui si aggiungono 1.600 dipendenti dell’ex Ilva in amministrazione straordinaria, collocati in cassa integrazione, e altri 4.000 operai dell’indotto senza lavoro.

La questione è complessa: può la città dell’acciaieria più grande d’Italia uscire dalla monocultura della siderurgia? E come?

A Taranto c’è il MARTA, uno splendido museo che racconta la storia degli antichi greci e della loro cultura.

C’è un borgo storico di rara bellezza, ci sono chilometri di dune e di coste altrettanto belle.
C’è l’area dell’ex arsenale, un esempio straordinario di archeologia industriale che potrebbe diventare qualsiasi cosa. Ci sono poi aziende e insediamenti industriali importanti, ad esempio il distretto del food e della birra, e finalmente leggi speciali per il rilancio economico e sociale del territorio.
Potrebbe bastare per rilanciare Taranto.
Ma sarebbe una sconfitta per il Paese, incapace nel concreto di ripensare la sua industria su modelli alternativi e differenti da quelli del passato.


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