HECTOR BERLIOZ 1803 – 1869

Hector è un ipersensibile chiacchierone esibizionista che ha la fortuna di nascere in un’epoca in cui vanno molto questi tipi esagerati e viziati a cui lui corrisponde perfettamente.

È anche uno strano genere di musicista. Intanto non sa, né mai imparerà a suonare bene il pianoforte. Strimpella su una chitarra e fino ai 12 anni non capisce neanche cosa sia una nota scritta. Ma la musica gli piace.

Suo padre, un uomo rigido, e la madre, una bigotta fanatica anche se mondanissima, lo mandano a Parigi per studiare medicina e lui, proprio a Parigi, che è il centro di tutte le arti, perde interesse per la scienza e si butta nella musica.

Papà appena lo sa, gli taglia i fondi e mamma gli toglie il saluto e il povero ragazzo senza un soldo è costretto a fare il corista al teatro del ginnasio.

Finalmente riesce a iscriversi al conservatorio dove comincia furiosamente a concorrere al Prix de Rome, il premio soggiorno di due anni a Villa Medici che tutti gli studenti francesi sognano di vincere. Non è facile, tanto più che il direttore del conservatorio, Cherubini, lo ha in somma antipatia, lui e la sua musica. Gli ci vogliono cinque tentativi; alla fine ce la fa. Ma Roma non gli piace e non gli piace la musica italiana.

Intanto, anche se è occupato senza successo nel suo frenetico corteggiamento di Harriet (di cui parleremo in seguito) gli capita la prima delle sue disavventure sentimentali. Si è invaghito di una signorina che, quando lui vince il premio nel ’30, gli dimostra un particolare interesse e gli fa intravvedere qualche possibile concessione futura, ma appena lui parte per Roma gli soffia il posto all’Accademia, e poi sposa Monsieur Pleyel, fabbricante di pianoforti.

Torniamo indietro un attimo. Nel ‘27 va a una rappresentazione dell’Amleto e qui, da una poltrona di prima fila, si infatua perdutamente dell’attrice irlandese Harriet Smithson che invece sta sul palcoscenico. Comincia a corteggiarla, sempre più insistente, le scrive, le manda fiori, va a tutte le sue recite, affitta un appartamento vicino a dove abita lei in modo da controllarla quando esce e quando rientra. La pensa, la sogna, la vuole. Arriva a comporre la sua Sinfonia Fantastica dedicandola a lei. Dura quattro anni, di cui due da Roma dove sta vivendo il suo premio, questo vero e proprio stalkeraggio.

E per quattro anni Harriet lo snobba convinta. Finché, nel ’32 un amico comune la porta a un concerto a sentire la Sinfonia Fantastica e glie ne racconta l’ispirazione. Naturalmente la storia le piace, è lusingata, cambia idea, lo invita a casa. Diventano amanti e alla fine, contro le due famiglie e tutti gli amici, si sposano e hanno un figlio.

Lieto fine? Macché. Lui è sulla via della fama, lei invece ne sta uscendo e alla fine si ritira dalle scene, cade preda di una patologica e possessiva gelosia, si dà all’alcool e le sue sfuriate spesso mandano al pronto soccorso il povero Berlioz che la ama ancora ma a un certo punto non ce la fa più, e si trova un’altra, una cantante lirica, tale Maria Rocio. Harriet se ne va di casa e muore, paralizzata e in miseria, ma Berlioz non la dimentica e prima di morire chiede che il corpo di lei sia riesumato e messo a giacere accanto al suo.

Nel 1839 gli eseguono l’”Harold in Italia”. Paganini che ha assistito al concerto è così ammirato che gli manda un assegno di ventimila lire: un gradito sollievo per il povero autore.

Il quale, invece di pagare la pigione e il droghiere con quei soldi, scappa di casa con la sua nuova fiamma, abbandonando moglie e figlio. Se ne vanno in Germania dove Berlioz conosce Wagner, con il quale nasce un’amicizia che durerà pochissimo: caratteri incompatibili.

I soldi naturalmente finiscono subito; così Hector comincia una sarabanda di concerti che vanno ora bene ora malissimo, ma il cui incasso non è mai sufficiente. Si rimette a scrivere articoli di musica e relazioni di viaggio, attività nella quale il suo spirito, il suo acume critico e la sua onestà intellettuale non cesseranno mai di brillare, e pubblica il suo giustamente famoso “Trattato d’Istrumentazione” dedicandolo al re di Prussia.

Fa un salto in Russia, da cui torna con in tasca qualche rublo. Di nuovo a Parigi, mette in scena “La Dannazione di Faust” ma la serata va male: diluvia e la gente rimane a casa. Insomma, devono intervenire gli amici con prestiti a lunga durata (e improbabile restituzione).

Compone sempre meno e a un certo punto si ritira perfino dal giornalismo che gli aveva dato grandi soddisfazioni, una meritata fama, e anche gli spiccioli per sopravvivere.

Morta Henrietta, Berlioz ha sposato la sua seconda fidanzata, che dopo poco muore anche lei. Muore anche il figlio, di cui era riuscito a recuperare l’affetto dopo averlo abbandonato anni prima. Una tragedia dietro l’altra.

E finalmente arriva anche il suo turno. Mai del tutto compreso, non ricco ma non più miserabile, originale scrittore di critica, padre dell’orchestra moderna, però stanco e sconsolato della vita, a un amico che al suo letto di morte gli racconta della gran folla presente all’ultimo concerto: “Loro vengono – dichiara – ma io me ne vado”.

Sipario.


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