E COSÌ FU PIZZA MARGHERITA

Il testo che di seguito si legge può configurare un documentario fiction, dove le parti in corsivo rappresentano la descrizione della parte storica da ricostruire e fare recitare. In testo normale sono descritti gli interventi narrativi del conduttore.

E’ questo un piccolo percorso archeologico tra due capisaldi legati ad un capolavoro della civiltà gastronomica napoletana: la pizza Margherita. Il primo caposaldo è certo! Si trova all’incrocio tra Vico Sant’Anna di Palazzo e Via Chiaia. Il secondo è incerto. E’ nei giardini della Reggia di Capodimonte. Ho a lungo interrogato testi ed esperti. Qualcuno aveva pensato che per preparare la pizza per il Re e la Regina si fossero utilizzate le fornaci dove, a Capodimonte, si cuocevano le famose porcellane. Francamente è difficile pensare ad un forno con altissime temperature, per cuocervi una pizza senza bruciarla. Il forno per le pizze, in realtà, già c’era, nei giardini della Reggia, dal 1835. Ma dove? Qui l’archeologo può solo abbandonarsi a supposizioni logiche. Non troppo lontano, né troppo vicino agli ingressi del palazzo e ai suoi grandi cortili. Per immaginare la scena e leggere il racconto, potreste mettervi sull’estremo spigolo a destra della facciata e guardare il possibile punto del forno, lì dove i sentieri tra le aiuole verso la fabbrica delle porcellane, formano un piccolo spiazzo. Se avete il GPS o un collegamento a Google Earth propongo di localizzare il forno a 40°, 52’, 06” N e a 14°, 15’, 04” S.

Lì era il forno dove, per la delizia delle dame di corte, quella mattina del 11 giugno 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito fu invitato a fare delle pizze per la corte.

Pietro Colicchio, noto con il soprannome di “Pietro il pizzaiuolo”. Pietro Colicchio, non avendo ne fratelli ne figli, cedette la pizzeria a Enrico Brandi, che passò la mano a sua figlia Maria Giovanna Brandi, futura sposa di Raffaele Esposito

La carrozza si era fermata lungo la via di Chiaia all’imbocco del vicolo Sant’Anna di Palazzo, ma all’epoca più noto col nome di “Vico del pizzaiolo”. La pizzeria “Pietro e basta così” era tra le più rinomate pizzerie della città, e la fama del titolare Raffaele Esposito, aveva addirittura fatto cambiare nei fatti il nome al vicolo. Un messo di Casa Reale, accompagnato da un giovane, entrò nel locale. “Siete Raffaele Esposito?” – “Sì per servirvi” – “Dopodomani dovete venire su alla Reggia di Capodimonte portando quello che serve per fare la pizza per la Regina e la Corte” – “Sono onorato, ma il forno?” – “Il forno c’è già, ci hanno già fatto le pizze, quasi 54 anni fa. Non avete scuse Raffaele e Basta! Già avete spodestato il nome di una santa per questo vicolo. Siete il più famoso pizzaiolo di Napoli, e vi attendiamo a Palazzo. A dopodomani”.

Il forno cui si fa riferimento è quello costruito in occasione di un’altra pizza “reale” fatta da Domenico Testa, nel 1835, a Capodimonte per la regina Maria Cristina di Savoia. Anche in quel caso un messo reale chiese al pizzaiolo di fare un pizza per la regina e le dame di corte. Aveva una pizzerie in via santa teresa sulla strada che porta a Capodimonte. La pizza fu assaggiata nei giardini di Capodimonte, durante una festa a Palazzo, verso mezzanotte. La regina assaggerà una pizza “da due grana”, e così le altre venti dame che l’accompagnavano, mentre i domestici servivano vino bianco e arance. Poco dopo il ballo ricomincia a Palazzo e le dame rientrano; un funzionario bruno e alto restò vicino al pizzaiolo e chiese “Che impiego vorreste?”. Domenico rispose: “Vorrei solo potermi chiamare Monsù”. Monsù era la napoletanizzazione di Monsieur, appellativo con cui si chiamvano i grandi cuochi delle famiglie nobili. E da quella sera il Pizzaiolo divenne Monsù Testa.

Un momento!” lo fermò Raffaele “voi dite che o’ forno sta stutato da cinquant’anni. Allora bisogna che cominciate ad appicciarlo la notte prima”. Mettete la legna, appicciate e chiudetelo con una lastra e fierro. Ogni tre ore ricaricate la legna”, finacché la parte alta non diventa bianca”.

Sarà fatto. E voi ricordate alla porta di dire che venite da parte dell’Intendente Galli”.

Non mancavano a Napoli le botteghe col nome di battesimo seguito da un “e basta”, al posto del cognome. Si affermava così una supremazia assoluta, per la quale anche un cognome era superfluo. Ma come spesso capita dietro i grandi uomini, ci sono grandi donne. Raffaele sapeva fare le pizze, ma non come sua moglie Maria Giovanna Brandi; lei sì, era principessa delle pizze.

E che pizze facciamo? E quanto ne servono? E se non vengono bene? Rischiamo che ci arrestano?”. Raffaele incalzava Maria Giovanna, che già si organizzava per la pasta da fare lievitare; mandò la sguattera per accordarsi con i pescatori di Santa Lucia, per avere “cicinielli” freschissimi e quello che lei chiamava “ambrugliaria e’ pesce. Mandò un ragazzo a prendere “formaggio e basilico” in abbondanza. Di conserva di pomodoro ne aveva molta, nella bottega e in cantina. “Raffaele portiamo un cesto di mozzarella. Diciamo che la pizza che facciamo qui con mozzarella, pomodoro e basilico, quando la facciamo lì è come la nuova bandiera”.

S’avissero offendere. ‘A bandiera come ‘a pizza!”

Noi non glielo diciamo, se lo capiscono, lo diranno loro e nessuno s’offende”.

La mattina di quell’11 giugno del 1889, Maria Giovanna Brandi, aveva a lungo pensato se mettere al collo la collana di sua madre. Poi decise di andare alla Reggia solo con la sua migliore gonna e la cammesella bianca. Raffaele si limitò a una giacchetta, che avrebbe coperto con la parannanza solita che usava per fare le pizze. “ Se vogliono le nostre pizze, devono volerci come siamo” disse Maria, tagliando corto la discussione con Raffaele sul come vestirsi per l’occasione. Per quanto avessero tenuto nascosta la notizia, la visita del Messo di Casa Reale, non era passata inosservata al vicinato. Il resto lo aveva fatto lo sguattero, che aveva diffuso la notizia dell’invito. Tutto il vicolo era già in strada alle 7 di mattina, quando Raffaele e Pasqualina, lo sguattero e un ragazzino, cominciarono a caricare il carretto con il necessario per fare le pizze. Tra i saluti, i sorrisi e gli auguri, non mancarono quelle che Raffaele temeva di più: gli occhi addosso degli invidiosi: “da oggi per farsi una Pizza da Raffaele, bisognerà prima passare al Banco dei pegni!”.

Indifferenti ai sorrisi come all’invidia, Raffaele afferrò le briglie del mulo, Maria si mise al suo fianco e si avviarono per Via Toledo, per salire a Capodimonte.

Che ammuina in quella strada!. Erano le 8 e era già affollata di carrozze, calessi, persone eleganti e popolani, scugnizzi. “Ma quant’è bella” disse Maria, guardando la facciata in costruzione della nuova Galleria. A Napoli non si era mai vista una cosa così enorme; tutte le mattine scendeva di casa per vedere a che punto stavano i lavori. Ci lavoravano centinaia di operai e ogni tanto qualcuno si veniva a prendere una pizza da loro.

Guardando i camerieri del Gran Caffè delle sette porte, da poco aperto sulla piazza San Ferdinando, al piano terra del Palazzo della Foresteria, Maria Giovanna si rivolse verso il marito con un “Raffaele”. Così chiamava in italiano il marito quando c’era da dire qualcosa di solenne “nun ce muntammm a capa, nun facimmo comme Don Vincenzo, che doveva vincere tutti i Caffè di Napoli e mo’ sta per chiudere”.

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Don Vincenzo Apuzzo aveva aperto, nel 1860 un caffè con sette porte sulla strada che affacciavano sia verso Via Chiaia, che su Piazza San Ferdinando e sul Largo di Palazzo. Il nuovo Gran Caffè faceva una spietata concorrenza al vecchio e famoso Caffè d’Europa, fondato nel 1845, che stava un poco più su, in Via Chiaia, e che aveva affidato le sue fortune alla raffinatezza e cortesia della proprietaria Madame Thevenin. Il Caffè d’Europa, all’epoca di proprietà di Mariano Vacca, era frequentato da pittori, artisti e uomini politici. Vincenzo Apuzzo, per vincere la concorrenza, aveva mandato i suoi collaboratori a Parigi, Vienna e Londra, ad imparare la pasticceria moderna, e offriva alla clientela indimenticabili feste di Carnevale e si faceva promotore di eventi culturali. Proprio quando stava per vincere la gara col Caffè d’Europa, fu costretto a chiudere, avendo dissipato tutti i suoi beni per mania di grandezza. Il proprietario del Caffè d’Europa per evitare altri concorrenti, si affrettò a prendere in fitto i locali per aprire un nuovo Caffè. Per la decorazione delle pareti furono chiamati i pittori che frequentavano il Caffè d’Europa, come Irolli, Migliaro, Casciaro, Scoppetta Campiani, Caprile, Pratella, Postiglione. Il Caffè presentava un’assoluta novità: era illuminato con l’elettricità. Sarebbe nato così, nel novembre del 1890, pochi mesi dopo il viaggio della famiglia Brandi da Chiaia a Capodimonte, il gran Caffè Gambrinus.

In origine si chiamerà Birreria Gran Caffè Gambrinus, e questo giustifica il nome del locale, in omaggio alla mitica figura fiamminga dell’inventore della Birra.

La creazione di piccole aziende artigianali per la produzione di Birra fu facilitata alla fine del secolo da una forte tradizione di fabbriche di ghiaccio artificiale, presente a Napoli dall’inizio dell’800. Come è noto, l’associazione tra produzione di ghiaccio e birra, è indispensabile per la fermentazione controllata e per la conservazione della bevanda. Dal 1890, quasi in contemporanea col Gambrinus si fondano a Napoli le fabbriche di birra Reininghaus e la W. J. Smith & Comp.e la Stefano Muller. All’inizio del secolo entreranno in produzione la Birra Magone, la Carbone, la birra Wital – Caflisch e le Birrerie Meridionali poi assorbite dalla Peroni.

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Una particolare animazione c’era in via Toledo, che tutti continuavano a chiamare così, anche se aveva cambiato nome in Via Roma. Si stavano completando gli addobbi e le luminarie per le feste previste in occasione dell’inaugurazione dei lavori per il Risanamento di Napoli.

Breve descrizione del Risanamento di Napoli.

Il Re deve venire a Napoli per la festa, hanno già menato a terrà nu sacco e case vecchie”. “ e sai quanta gente sta ora in miezo a via” commentò Maria Giovanna, “tutta a famiglie di Vicienza annunziata, dorme per strada”. “Dice che avranno case nuove” contrabbattè Raffaele. “ e tu ce cride, e quando e o ssaje quant’hanna pavà”. “E’ il progresso” tagliò corto Raffaele. Tu vorresti ancora che la gente vivesse in quelle scararfonere, ma guardate attuorno nun o vire quant’è bella chesta via!”

Intorno c’erano i negozi, i ristoranti famosi, dove Maria non era mai entrata. E dietro i vicoli, da cui scendevano pezzenti e signori. Chi saliva in carrozza, chi già si vedeva che si preparava a rubare, signore eleganti e canzonettiste del teatro erano ai tavolini dei bar,del largo Carità. Qui la statua di un gran signore stava in piedi su un basamento. “Raffaele, è capace che da oggi ti fanno una statua pure a te!”. “ Eccome no, na statua e pasta crescuta”. “pecchè Don Vito Buono non fu fatto Barone pei surbette?E nuie nun putimmo diventà marchesi per la Pizza.” “Va buò barone e buono, la Bottega del caffè nun c’e sta cchiù, e mo’ i sorbetti li fa un altro”.

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Vito Pinto aveva aperto molti anni prima, nel 1830, il Caffè delle due Sicilie. La caratteristica del caffè erano i gelati ed in particolare un sorbetto alla crema pasticcera, la cui invenzione gli procurò il titolo di Barone, Racconto della gelateria De Angelis ex Pinto fatto barone dal Re per i suoi sorbetti alla crema pasticcera che verranno molto amati da Leopardi.

Nelle sue memorie Ranieri lamenta la smodata ingordigia dell’amico poeta: questi è solito sedersi al Caffè, acquistare tre gelati alla volta, disporli uno sopra all’altro e dedicarsi alle gioie del palato tra gli sguardi curiosi dei passanti.

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Dopo la piazza Via Toledo, cominciava a salire. “o vide Mari’, chille che scendono so chù allegri e chille che sagliono, pure i cavalli sorridono”. Effettivamente la confusione di Via Toledo cedeva il posto a un minimo d’ordine, e alle due velocità di chi saliva e di chi scendeva.

Al Largo dello Spirito Santo, Raffaele si girò verso il grande palazzo d’angolo. C’era venuto con suo padre quasi trent’anni prima a vedere Garibaldi che salutava il popolo di Napoli da quel balcone al centro della facciata.

Mari’, pensa che era Piedigrotta, e qui c’era un carro comme ‘na nave, coi marinari e una banda ca se mettete a sonà l’inno del Generale. E o’ Generale s’affacciaie da chillu balcone nu sacco ‘e vote. Si ritirava e o’ popolo lo chiamava fora.”

Storia dell’arrivo di Garibaldi a Napoli.

Garibaldi prende possesso di Napoli, nel 1860, da solo e senza truppe. I Borboni si sono ritirati, ed il generale arriva a Napoli in treno, durante la festa di Piedigrotta. Dopo un breve discorso al popolo dal balcone di Palazzo Reale, si ritirerà nel palazzo Doria D’Angri, allo Spirito Santo. Il carro di Piedigrotta a forma di nave è rappresentato in un famoso quadro. La scena di Garibaldi al balcone del Palazzo Doria D’Angri è anche rappresentata in numerosi disegni e dipinti. Perché quel palazzo? Storia dei legami tra Garibaldi e la famiglia Doria.

Raffaele non si era mai occupato troppo di politica. Però Garibaldi gli piaceva, il generale, la barba, o mantello. Gli sarebbe piaciuto come Re. Poi so venuti questi dal nord. Chissà quanto dureranno! Chi l’avrebbe detto che lui, chillu guaglione che guardava Garibaldi, oggi faceva n’a pizza nientedimeno che al Re.

Facendosi strada tra le carrozzelle che aspettavano i clienti, il carretto delle pizze, destinate alla Reggia, arrivava al largo del Mercatello, davanti al bar Diodato, già affollato di clienti. Di fronte si poteva vedere il grande edificio pubblico rosso. Con l’orologio al centro.

So’ già e nove e mezza. Verimme e ce sbrigà. Mari’ o’ vire o’ Convitto Vittorio Emanuele”. Prima era’ na scola dei preti, poi Garibaldi ha cacciato i prievete e ha fatto il convitto statale.

Dopo la piazza la strada si inerpicava di nuovo fino al palazzo del Museo. “pare n’imbuto” disse Maria. Effettivamente dal largo della Pigna saliva un sacco di gente, carrozze, carretti, e, dal lato dell’Infrascata scendevano altrettanta gente, per infilarsi nella discesa che portava a Via Toledo.

Ecco finalmente, alla fine della salita, Raffaele e Maria Giovanna vedono il grande palazzo grigio e rosso, al di là del muro di cinta. Al varco, si misero in fila tra le carrozze, gli altri carretti e persone che dovevano entrare. Al suo turno, Raffaele disse all’ufficiale di guardia che era lì per fare le Pizze. “le pizze le andate a fare in Pizzeria, non a palazzo!” poi, rivolto alle altre guardie “qua siamo sempre più democratici”. Raffaele spazientito “ci hanno chiamato, ieri è venuto da noi…..Mari’, come si chiamava chillu signore, o messo do’ Rre?” . “Ha detto di dire che veniamo da parte do’ Intendente Galli”. “Ca’ tutti sanno tutt’e’ cose, tranne nuie” e, rivolto alla guardia, “va’ a chierere c’hamma fa”.

Dopo una mezz’ora la guardia ritornò, accompagnata da Monsu’ Gennaro, capo delle cucine di Capodimonte. Rivolto a Raffaele, Monsieur Gennaro disse, leggendo un foglio, e francesizzando per darsi un tono di superiorità “voi sareste il pizzaiolo Raffaele Esposìtò?” . “per la verità sono Raffaele Esposito, anzi Raffaele e Basta, e voi chi siete?” “io sono Monsù Gennaro, responsabile delle cucine del palazzo, andiamo che il forno vi aspetta”. “va bene monsò Gennarò, andiamo”.

E si avviarono oltre l’ingresso, col carrettino, seguendo Monsù Gennaro, mentre Maria tirando Raffaele per la manica: “ a te il ricordo di Garibaldi t’ha scumbinato a’ capa; vir’è e nun ce fa arrestà”.

che centra! Semmai arrestano a mme, tu si na’ femmina” “ Già intanto a mamma, a sora e o frate e chillo ‘ro coltellino stanno ancora rinchiuse o’ manicomio d’Aversa”. “ Ma di chi stai parlanno?. Maria Giovanna si avvicina all’orecchio, sussurrando “Passannante, l’attentatore del re”. Il Monsù credette di aver sentito qualcosa e si girò “Che avete detto?” “No, ho detto a mio marito, passa annanze”.

Accenno alla triste storia di Passannante

Giovanni Passannate era un giovane anarchico nativo di Salvia di Lucania. Aveva aperto un ristorante a Salerno, ma era fallito poco dopo l’apertura, perché non faceva pagare. Arrivato a Napoli nel del 18 , e saputo dell’arrivo del Re, che visitava tutte le città d’Italia per presentare la Regina, scambiò in un negozio, la sua giacca con un coltellino da otto centimetri di lama. Con queest’arma attentò il Re, procurandogli una lievissima ferita ad una gamba. Inizierà una storia incredibile, non tanto di punizione esemplare, ma di perfida vendetta di Stato. Fu arrestato e condannato a morte. Sua madre e sua sorella furono rinchiuse nel Manicomio d’Aversa. Il sindaco di Salvia di Lucania si umiliò davanti al Re per aver dato natali ad un siile mostro, e il nome del comune fu mutato in Schiava di Savoia. Per non fare del Passannate un pericoloso simbolo, la sua condanna a morte fu tramutata in ergastolo. Fu rinchiuso in carcere all’Elba, in una cella sotto il livello del mare, alta un metro e sessanta, mentre Passannate era uno e settanta. Per dieci anni una guardia sorveglierà che nessuno, neanche un prete gli rivolga la parola. Ormai cieco e deforme finirà i suoi ultimi quattro anni in manicomio. Dopo la morte, la sua testa sarà tagliata e il cervello messo in formalina ed entrambi i reperti esposti al Museo di storia criminale di Roma. Lombroso ne farà riferimento per studiare se tutti gli anarchici avessero la fossetta cranica di Passannate. Nel 2007 si è data sepoltura, non senza polemiche, persino in Parlamento, ai poveri resti del giovane anarchico a Schiava di Savoia.

In Re Umberto la memoria dell’attentato era certo viva; non amava, infatti, gli eccessi delle feste napoletane e i bagni di folla nella città. Ma sapeva anche l’importanza di conquistare la benevolenza del popolo di Napoli. In questa strategia si colloca anche la storia della Piazza fatta per la Regina.

Rimasero in silenzio finchè si trovarono davanti al forno, col fumo che usciva dal camino e con la bocca chiusa da una lastra di ghisa, secondo le raccomandazioni fatte due giorni prima. Due giovanotti stavano sistemando delle tavole su cavalletti, coprendole con bianche tovaglie.

Eccovi davanti al vostro gran four, monsieur Raffaele”, disse sfottendo Monsù Gennaro. “vi lascio due sguatteri in aiuto, perché sanno dove trovare quello di cui avete bisogno”. Poi guardando il carretto “ anche se vi siete portato tutte le vostre caccavelle, comunque, mi raccomando, non fate guai, che poi ci vado per mezzo io! Voi fate le pizze, io vado preparare un timbal flammant”.

Raffaele aprì la bocca del forno levando la lastra di ghisa e mandò uno sguattero aprendere un secchio d’acqua, mentre Pasqualina, l’aiutante e l’altro sguattero di Capodimonte cominciavano a scaricare il carretto. Poi guardò con soddisfazione la cupola interna del forno diventata bianca.

Con la pala cominciò a levare i tizzoni e la cenere, sostituendoli con legna nuova che accese con della paglia. Nel secchio d’acqua che lo sguattero aveva portato, mise una piccola scopa di paglia e cominciò a bagnare e a pulire il piano centrale del forno.

Intanto Maria preparava le ceste con la pasta lievitata, e metteva sulla tavola grosse ciotole; dalle ceste , dai secchi, dalle bottiglie e dai cartocci, tirava fuori i pesciolini, la conserva di pomodoro, il basilico, l’origano, la sugna, il formaggio grattugiato, e le mozzarelle, per deporli con attenzione nelle ciotole ben disposte in fila per facilitare la preparazione delle pizze.

Una volta constatata la giusta temperatura del forno Raffaele mandò lo sguattero ad avvisare che il pizzaiolo era pronto.

Lo sguattero avvisò Monsù Gennaro, che raggiunse l’Intendente Galli, Intendente di Bocca di casa Reale, che si avvicinò alla Regina che conversava on alcune dame. “Quando sua Maestà desidera, il pizzaiolo è pronto.” E aggiunse “ Credo che oggi il Regno farà un bel passo per conquistare ancora di più il popolo di Napoli”. “ Caro Galli,” sussurrò sorridendo la Regina “dovrò quindi farmele piacere per forza queste pizze, magari se mi va di traverso rischiamo una rivoluzione”.

Non dubito che la nobiltà della Regina unita alla sua umanità, faranno onore ad un cibo così antico e popolare, per giunta preparato da un vero maestro della sua arte”. “Mi dicono che già Ferdinando e Maria Cristina, amassero le pizze. Anche loro per accativarsi il popolo?….. mi pare che poi quel popolo non esitò ad abbandonare i suoi sovrani”. “Il forno dove fanno le pizze oggi, fu fatto costruire da Ferdinando II, ma credo che le sfortune dei Borboni, abbiano vari nomi, ma non quello della Pizza”. Una Regina che portava il nome dei Savoia, assaggiò quelle pizze. Il popolo di Napoli ha sempre sentito lontane le sue regine. Voi invece siete amata dal popolo, l’avete anche visto al vostro arrivo qualche giorno fa; e avete un ruolo importante per unire gli italiani”. “Bene,” concluse sorridendo la regina, e facendo un gesto di invito alle dame, “ allora andiamo ad unire gli italiani intorno ad una pizza”.

Stanno arrivando!” Pasqualina fu la prima a vedere il piccolo corteo di persone che usciva dal cortile del Palazzo per venire verso il forno. La tavola era stata allestita, con brocche e bicchieri di cristallo, e grandi piatti di ceramica con disegni di fiori sui lati e figure mitologiche al centro, posate d’argento.

Mari’” disse Raffaele, “vire e nun fa e’ pizze troppo gruosse, ca poi nun trasono int’a sti piatte”. “aggiù visto, da ogni pesietto ne faccio doie”.

La Regina intanto si era accomodata alla tavola, con alcune dame. Altre, insieme all’Intendente Galli, si erano avvicinate al tavolino dove Raffaele e Maria Giovanna avevano iniziato a lavorare la pasta.

La massa bianca si allargava sotto le loro mani, diventando quasi trasparente al centro e morbida sul bordo. Quasi insieme, come in una danza, Maria e Raffaele, ungevano di strutto le loro pizze. Con un gesto ampio del braccio spargevano il formaggio grattugiato sulla pizza, e poi ecco il momento del basilico, sette foglie esatte per ogni pizza, un filo d’olio, ed ecco che la prima pizza portata sulla pala di legno, con un gesto di lancio e ritiro, viene posata nel forno. E così veniva posata anche la seconda pizza. Mentre Raffaele sorvegliava la cottura, girando con la pala di ferro, le pizze che cuocevano, Pasqualina era già alla seconda preparazione.

Chesta è coi cecenielli” annunciò Maria, mostrando i pesciolini al piccolo gruppetto di osservatori, e cominciò a lavorare la pasta, mettendoci sopra i pesciolini, l’origano, un pizzico di sale e olio abbondante.

Raffaele aveva intanto chiamato gli aiutanti a portare i piatti, per metterci le pizze pronte, che partirono per la tavola della Regina e delle dame. Ora veniva infornata la pizza coi cicinielli, nella doppia versione bianca e al pomodoro.

Il ragazzo ora era impegnato anche lui a stendere la pasta, Maria lavorava la pasta e preparava le pizze. Il terzo tipo di pizza era con il pomodoro, la mozzarella ed il basilico. Era una pizza che si faceva da tempo a Napoli, in molte pizzerie; era leggermente più cara e per questo meno ordinata dai clienti. Maria pose molta attenzione alla decorazione, cercando di esaltare la vicinanza dei colori bianco rosso e verde, in una disposizione che, dopo la cottura, avrebbe ricordato la bandiera del nuovo regno.

La Regina, le dame e l’Intendente erano tutti a tavola e commentavano le pizze, le differenze, quella che piaceva di più o di meno. Pasqualina e Raffaele si guardarono soddisfatti; fino a quel momento non c’erano stati incidenti né per pizze sbagliate, né per parole fuori posto.

Arrivò il momento in cui la regina si alzò, e con l’Intendente, altre dame, e altri che si erano aggiunti più tardi, si avvicinò al forno. Istintivamente Raffaele e Pasqualina si levarono le parannanze, macchiate del lavoro dei pizzaioli, per presentarsi in modo più adeguato.

Maria osservava quella figura che si avvicinava.

Bravi, bravi, bravi”, lo disse non da Regina, o almeno non come loro si aspettavano parlasse una Regina. Era come se i complimenti li facesse una dirimpettaia del vicolo. Certo parlava italiano, non napoletano, ma senza solennità.

Come si chiamano queste pizze? Chiese poi. “Questa è vasenicola, questa e coi cicinielli e questa con pummarola e mozzarella”rispose Maria Giovanna, perché Raffaele aveva il cuore in gola. “ Ha i colori della nostra bandiera”. “E sì, e per questo che ve l’abbiamo fatta”.L’ Intendente, con uno sguardo d’intesa con la Regina “potreste darle il nome della Regina Margherita”.

Il cervello di Raffaele correva a mille. Pensava:” come si fa a dare il nome ad una pizza, che da anni si prepara a Napoli. Questi si so’ creduti che abbiamo inventato noi la pizza con la bandiera italiana. Che figura facciamo noi, e che delusione diamo a loro, se diciamo che la dint’a’ pizza ce sta solo pummarola basilico e mozzarella e non una bandiera!”. Gli stessi pensieri passavano per la mente di Maria, che vedeva già suo marito carcerato e lei in manicomio. Fece un mezzo inchino, come per prendere fiato e rivolta al Intendente “Eccellenza, noi possiamo chiamare la Pizza col no…. Come di te voi. Ma nelle pizzerie vengono persone ignoranti….., magari chi porta rispetto non la ordina, per non fare vedere che si mangia ….. . e’ cape scombinate, magari se la mangiano… “ guardando la Regina “senza rispetto”. Maria capiva di essersi infilata in un imbuto senza uscita. Raffaele provò una via “Eccellenza, magari al nome Pizza bandiera ci avevo pensato, la ordinano sia quelli che gli piace la bandiera, sia quelli che gli piace pummarola e mozzarella

Io penso,” disse l’Intendente, “che i Napoletani ricordano che la nostra Regina si è tanto prodigata per loro, in mezzo a loro, ai tempi del colera. “Vedete” disse a quel punto la Regina” anche il nostro Intendente porta un nome per il quale ogni giorno molti napoletani gli tirano il collo, e non di meno per questo non sente mancanza di rispetto”, poi rivolta ai Pizzaioli “ non mi dispiace associare il mio nome ad una cosa così buona, che oggi ho avuto il piacere di assaggiare. E poi “aggiunse sorridendo, ” preferisco che chi mi vuol male, affondi il coltello in una pizza”. Tutti risero e Raffaele e Maria si inchinarono. “Grazie signor Raffaele Esposito e grazie signora … “Maria Giovanna” suggerì emozionantissima la brava pizzaiola”. Oggi mi avete dato una grande gioia. Raffaele e Maria si inchinarono di nuovo, mentre la Regina si girava e si avviava con gli altri verso il palazzo.

Mentre riponevano le loro cose nel carretto, per tonarsene a casa, Raffaele e Maria erano silenziosi. La stanchezza, le troppe emozioni, l’ansia pesava, ma pesava ancora di più il contrasto tra la soddisfazione di aver fatto una gran cosa e la preoccupazione per quel nome da dare.

“Ma come si fa a chiamare la pizza Regina Margherita, senza essere sfottuti da tutta Napoli”. “Rafè, noi ci possiamo provare. Da noi la chiamiamo così, perché siamo stati i primmi a servire la pizza a Palazzo Reale. Poi ognuno ‘a chiamma comm’ a’ vo’”. “Ma è proprio chello can un voglio….. sai e chiacchere, l’invidia, …. Ma vuò vedè che sta jurnata invece e ce portà fortuna addeventa l’inizio dei nostri guai”.

“Va buo – tagliò corto Maria – intanto stasera a pizzeria è aperta, e allora sbrigammece”.

Rifacendo al contrario la strada della mattina, piano piano prendevano coraggio, e le cose buone sembravano più delle preoccupazioni. “Ma hai visto comm’è bella a’ Regina, e che eleganza” ripeteva ogni tanto Pasqualina rivedendo la giornata davanti agli occhi. “ e come magnavano e’ gusto e pizze nostre” ricordava Raffaele “ e che bicchieri, che posate e che piatti. Non mi pareva vero di mettere le nostre pizze … le nostre pizze in quei piatti accussì belli”.

“Rafè – lo interruppe Maria – mo’ stasera scrivimmo in coppa a carta che serviamo la Pizza della Regina Margherita”.

“Ma sì sicura?”.

“Chille, comm’ a’ niente mandano o’ Delegato e tutt’ e’ guardie a controllà. Rafè nuie ce pruvammo, per noi si chiama così”. E Poi… una novità nostra c’è in quella pizza, tu nun o’ saie ma io ci ho messo pure il formaggio.”

E quella sera nella pizzeria “Pietro e Basta così” fece la sua apparizione il nome della nuova, vecchia pizza Regina Margherita.

Il giorno dopo tutto il vicolo sapeva del successo di Raffaele a corte. Verso Mezzogiorno, da una carrozza, che si era fermata all’angolo del vicolo, scesero una guardia e Monsù Gennaro, ed entrarono nella pizzeria già affollata di clienti seduti e di quelli che aspettavano di portarsi via la pizza da mangiare in strada.

Monsù Gennaro, facendosi sentire da tutti, anche fuori del locale annunciò solennemente “ Signor Raffaele Esposito, vi porto una lettera del Intendente Galli che vi ringrazia e vi conferma che le pizze che avete fatto sono state molto gradite dalla Regina. Siete anche autorizzato, anzi raccomandato di esporla bene in vista nella vostra pizzeria”.

Raffaele chiese a Monsù Gennaro di leggere la lettera, un po’ perché era emozionato e un po’ perché non era sicuro di riuscire a leggerla bene.

Casa di Sua Maestà

Capodimonte

11 giugno 1889

Ispezione dell’Ufficio di Bocca

Pregiatissimo Signor Raffaele Esposito Brandi, Le confermo che le tre qualità di Pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime

Mi creda di Lei

Devotissimo Camillo Galli

Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa

E adesso monsieur Esposito, mi fate provare questa pizza Regina Margherita. Da ieri in tutto il palazzo di Capodimonte non si parla d’altro”. E Raffaele rivolto alla moglie “due Regina Margherita per il tavolo di monsù Gennaro, capocuoco a corte.”.

La storia del cuoco di corte che mangiava la nuova pizza di Raffaele Esposito e di Maria Giovanna Brandi (che ci aveva messo il formaggio), la lettera diploma ben esposta in pizzeria, i racconti della giornata a palazzo dei due pizzaioli, di voce in voce, di persona in persona, come solo a Napoli può capitare alle favole, uscì dal vicolo e si sparse per tutta la città, depositando quel nome regale sulla pizza con il pomodoro, il basilico, la mozzarella ed il formaggio.

Quella sera stessa, chiudendo bottega, Raffaele esternò a Maria la sua ultima preoccupazione:

“e se sta monarchia passa?”

“Rafè – gli rispose la moglie – nun t’e preoccupà, ci ho pensato. La Margherita è anche nu fiore”.

“Figlio del popolo, è con vero rispetto ed amore ch’io mi presento davanti a questo centro imponente di popolazione Italiana, che molti secoli di dispotismo (servaggio – sostituito – Ndr.) non hanno potuto ridurre ad umiliare ed a piegare il ginocchio al cospetto della tirannide.

Il primo bisogno dell’Italia era la concordia, il secondo l’unità della grande famiglia Italiana; oggi la Provvidenza ha provveduto alla concordia colla sublime unanimità di tutte le provincie alla ricostituzione nazionale; pel secondo essa diede al nostro paese Vittorio Emanuele, che noi possiamo da questo momento, chiamare il vero padre della patria Italiana. Vittorio Emanuele, modello dei Sovrani inculcherà ai suoi discendenti il loro dovere per la prosperità di un popolo che lo elesse a capitanarlo con amore vero, con frenetica devozione.

I sacerdoti Italiani, consci della sacra loro missione hanno per garanti del rispetto con cui saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, il contegno veramente cristiano di numerosi loro confratelli, che, dai benemeriti monaci della Gancia ai generosi sacerdoti del continente Napoletano noi abbiamo veduto alla testa dei nostri militi sfidare i maggiori pericoli delle battaglie.

Io ripeto: la concordia è la prima necessità d’Italia. Dunque i dissenzienti d’una volta, che ora sinceramente vogliono portare la loro pietra al patrio edificio, noi li accoglieremo come fratelli.

In fine, rispettando la casa altrui noi vogliamo essere padroni in casa nostra che piaccia o che non piaccia ai prepotenti della terra”.

Giuseppe Garibaldi

Anche se nelle cronache del tempo non esistono notizie sufficienti sui primi Caffè della città, pare che già dagli ultimi decenni del settecento – lungo le principali arterie di Napoli – esistessero locali in cui veniva servita la classica “tazzulella ‘e cafè”. E’ in pieno ottocento che codeste attività crebbero di numero e si insinuarono nelle consuetudini della vita sociale, divenendo prerogativa di gusto negli usi e nei costumi della napoletanità.

Si moltiplicarono i tavolini disposti all’aperto, mentre emergevano per fama e per fasto i locali frequentati dai nobili, dall’alta borghesia e quelli visitati da poeti, artisti, scrittori, che trasformarono i Caffè in luoghi di cultura, punti d’approccio letterario, peculiarità un tempo destinate ai salotti.

A metà ottocento, lungo la bella strada di Toledo – voluta nel 1536 dal vicerè spagnolo don Pedro de Toledo – si potevano contare oltre trenta sale adibite a Caffè. Non da meno erano le altre zone della città, quelle cruciali, dove il flusso di gente rappresentava un focolare importante. Infatti quella che per numero ed importanza di locali pubblici poté paragonarsi all’affluenza del corso di Toledo, fu la zona del Porto, attiva e produttiva commercialmente. Dei Caffè del luogo ricordiamo quello del Molo (ovvero Caffè Delle Quattro Stagioni) frequentato dai giovani e sfrenati letterati, pittori, musicologi, epigrammisti e scrittori della Napoli liberale ed anticonformista. Degli antichi locali pubblici annoveriamo il famoso Caffè Guardati in via S. Giacomo che era fornito di biliardi e tavolini da gioco. E mentre in piazza S. Ferdinando era aperto il Caffè di Parigi, nel 1820 veniva fondato il Caffè dei Cavalieri in via Toledo; poco più avanti il Caffè dell’Elefante e quello del Milanese (1816). Ancora lungo il corso principale il Caffè della Colomba d’Oro, Caffè Flora, Caffè Dei Veri Amici  e, dove oggi è situata la Rinascente (già “Grandi Magazzini Fratelli Bocconi”), aveva aperto i battenti il Caffè Sotto a Buono dove la maggior parte degli studenti e giovani rivoluzionari si riunivano  clandestinamente.

Nei primi anni dell’ottocento famoso era un locale situato verso la strada per il Largo alla Carità, gestito da un gentiluomo di nome Vito Pinto. La vecchia insegna del locale che recava la scritta “Bottega del Caffè” – di memoria settecentesca – fu dal Pinto riutilizzata per la sua nuova attività. Infatti il sagace don Vito non si limitava ad offrire alla sua clientela soltanto del caffè, ma serviva anche una specialità originale e sublime che produceva personalmente nei suoi laboratori: era il sorbetto, che recava in sé il delizioso sapore della crema pasticciera.

Ma questo non era che la radice di un processo evolutivo inarrestabile: la gelateria e la pasticceria napoletana erano destinate alla fama e al successo nazionale.

La Bottega del Caffè, allora nota per la bontà dei suoi gelati (tanto che i Borboni investirono il Pinto del titolo di barone), riuscì a mantenere un’attività fiorente per molti anni, fino a quando nel 1855 venne ceduta ad un tal Antonio De Angelis che nelle operazioni di ristrutturazione sostituì l’antica insegna con la nuova iscrizione: Caffè De Angelis.

Ma della Bottega del Caffè va menzionato uno tra i suoi più illustri frequentatori che fu Giacomo Leopardi, consumatore appassionato di sorbetti e gelati.

C’è da dire che il poeta recanatese, spesso accompagnato dall’amico Antonio Ranieri, amava intrattenersi anche presso il Caffè Trinacria, sorto intorno al primo decennio dell’ottocento all’angolo di via Taverna Penta, di fronte la via S. Giacomo. Qui si incontravano diverse personalità della Napoli d’elite, ed anche giornalisti, artisti, scrittori tra cui Alessandro Dumas.

Il Caffè Trinacria visse fino al 1860 quando, ceduto ai fratelli Vacca, mutò in Caffè d’Italia (nome chiaramente legato alla nuova realtà politico-sociale della nazione) divenendo uno dei ritrovi più noti e accorsati del tempo.

Dagli anni sessanta dell’ottocento in poi Napoli s’affollò di punti d’incontro raffinati e moderni, rispondenti in maniera sempre maggiore alle nuove esigenze dei tempi. Si intensificarono le attività e le offerte dei ritrovi, dando vita a nuove tipologie di intrattenimento come quelle di cantanti e attori che, attraverso spettacoli folti e variegati, riuscivano a tenere vivo l’entusiasmo del pubblico che occupava sedie e tavolini all’interno e all’esterno dei nuovi Caffè concerto.

Tra questi va senza dubbio ricordato uno tra i primi esperimenti in tal senso, la Birreria Monaco, dove ( e non era raro che accadesse anche in altri locali) sono state scritte le più belle canzoni napoletane mai esistite: “Marechiaro”, “O Sole Mio”, “Maria Marì”…etc, annotate il più delle volte direttamente sui ripiani di marmo dei tavolini. I pazienti camerieri invece di rimanerne infastiditi (poiché a loro spettava il compito di ripulire l’imbratto dei lapis) ne andavano orgogliosi e quando potevano riproducevano le opere su fogli di cartapesta imbevuta d’acqua, secondo il sistema di riproduzione litografica ideato dal cameriere del primo Caffè d’Italia ( in piazza S. Ferdinando, attivo fino al 1844) Gennaro Durante.

Celebre e commovente anche l’episodio relativo alla canzone di Alfredo Fieno “Uocchie c’arragiunate!”, sublime melodia di parole, scritta all’interno dei locali del Caffè Croce di Savoia, e ivi musicata da Rodolfo Falvo.

Il Caffè d’Europa sorse intorno al 1845, poco distante da piazza S. Ferdinando; l’elite napoletana lo prediligeva per le sue eleganti sale, per le premure del cameriere zelante Raffaele Donzelli e per i modi raffinati ed accomodanti della bella proprietaria Madame Thevenin, ricca di grazia ed allegria.

Abituè di questo locale erano Francesco Proto, Attilio Pratella, Francesco Mancini, Migliaro, Saverio Altamura, Nitti, Cortese ed altri del famoso ed illustre entourage.

Tra i tanti Caffè di Toledo – di cui qualcuno di essi senz’altro subirà il torto d’essere omesso da questa breve rassegna, ma non per questo considerato minore – da menzionare è il Caffè Corfinio di Francesco Roseca, assai frequentato da Ferdinando Russo, Scarfoglio e Gabriele D’Annunzio.

Ancora da segnalare è il  caffè-pasticceria Caflisch  che aprì i battenti nel 1825 in via Santa Brigida e in via Toledo, presso palazzo Berio, il 27 luglio del 1827.

Siccome ovvia appariva la realtà che le attività socio-culturali fossero concentrate fondamentalmente entro i Caffè del corso di Toledo, ma maggiormente in piazza S. Ferdinando, riuscì geniale l’apertura di un nuovo locale presso il piano terra del palazzo della Foresteria per mano dell’imprenditore Vincenzo Apuzzo e denominato da questi Gran Caffè, anche se i napoletani lo chiamarono sempre Caffè dalle Sette Porte avendo ingressi sia in Largo Palazzo, che in piazza S. Ferdinando ed in via Chiaja.

Questo Caffè si mise subito in sfrenata competizione col vicino Caffè d’Europa di Mariano Vacca, situato all’inizio di via Chiaja.

Entrambi i locali di altissima qualità si fecero una concorrenza spietata, ma quando sembrava avere la meglio il nuovo, magnifico Gran Caffè, Vincenzo Apuzzo chiuse i battenti avendo sperperato in manie di grandezze ogni risorsa finanziaria.

Nell’aprile del 1890 Mariano Vacca ottenne in fitto le sale del vecchio Gran Caffè, affidando il compito di ripristinare i locali invecchiati dal disuso e dal tempo ad Antonio Curri che vi adempì in un lasso di tempo piuttosto breve: cinque mesi  dopo  l’incarico

–  nel novembre del 1890 – si inaugurava il Gran Caffè Gambrinus

(dal nome di un re leggendario).

Da attento e bravo professionista, l’architetto pugliese si rivelò abile nello sfruttare al meglio creatività e praticità senza perdere di vista momenti di raffinatezza frammista ad esigenze di ariosità e modernità.

Curri si servì della mano di un gruppo di pittori che messi all’opera realizzarono degli affreschi di notevole rilevanza artistica, tanto da indurre Domenico Morelli a formulare un’altisonante considerazione sulle qualità visive delle opere, collocandole tra “… le più alte e significative espressioni dell’arte napoletana del XIX secolo.”.

Lavorarono proprio bene Gaetano Esposito, Giuseppe De Sanctis, Luigi Scarano, Andrea Petrone, Carlo Brancaccio, Edoardo Matania, Vincenzo Caprile, Vincenzo Volpe, Nicola Biondi, Vincenzo Irolli, Migliaro, Casciaro, Scoppetta e molti altri.

Da quel novembre del 1890 il Gambrinus divenne il fulcro nodale della Napoli bene, degli intellettuali, degli artisti, dei personaggi forestieri più illustri, riuscendo a mandare in malora tutti quei Caffè che fino ad allora avevano orbitato con successo e fortuna intorno alla piazza e a Toledo, raggiungendo l’ambita – e probabilmente meritata – vetta dell’importanza europea.

Nel 1890 fu inaugurata la prestigiosa Galleria Umberto I e subito in uno dei suoi locali interni fu aperto il Caffè Calzona ( assai frequentato dai redattori del Mattino e da Matilde Serao), dove si organizzavano feste, si esibivano soubrette e si mettevano in scena spettacoli teatrali.

Si aprì in seguito il Caffè della Galleria con i suoi intrattenimenti in attesa dell’unico, indimenticabile Salone Margherita.

La storia dei Caflisch inizia con Durisch falegname in quel di St. Moriz in casa dei Pietromani nel 1804. Il suo cognome di origine latina significa “Casa di Felice” – Cà Felix. Egli chiese al signor Pietromani, socio di una pasticceria di Livorno, la possibilità di collocare il figlio Luigi, nato nel 1791, presso l’azienda ma ne ottenne un rifiuto. Luigi non si rassegnò e trovò lavoro presso la pasticceria del signor Tuccetti nella stessa Livorno. Dopo anni di intenso lavoro aprì con altri tre compatrioti una pasticceria nella stessa città con ragione sociale “Luigi Caflisch & C”, dopo un avvio promettente dovette chiudere e pensò di trasferirsi a Roma, dove ottenne ottimi risultati commerciali con negozi invia dei Postini, in via Bergamaschi ed in via del Corso sorti nel 1822; qui sposò una sua connazionale. In seguito allettato dal sentire del suo amico Zenitter sulle ampie prospettive di guadagno presso la più importante capitale degli stati italiani che era diventata la città di Napoli, decise di aprire anche un negozio in Napoli alla via Santa Brigida. La società venne fondata in data 15 ottobre 1825 ed iniziò la sua attività il 15 gennaio 1826 con la ragione sociale “Lorsa Faller & C”, col bilancio in attivo dopo il primo anno di attività, pensò di aprire una nuova sede in via Toledo, 253 in data 26 luglio 1827 con la ragione sociale “Spiller, Telli & C”, seguirono anni di intenso lavoro e di soddisfazioni, superarono indenni i moti del 1848; nel 1851 aprirono una nuova pasticceria in via Toledo, 255, una birreria a Capodimonte con ragione sociale “Giovanni Caflisch & C.” L’azienda affrontò anche il nuovo cambiamento dai Borbone ai Savoia. Ditta ormai consolidata con pasticcerie e birrerie sia a Napoli che a Roma. Nel 1873 con l’acquisto dei locali dei nobili Grifeo in via Toledo, la pasticceria più volte rinnovata divenne la più importante di Napoli. L’ultimo cambiamento avvenne nel 1932 con la fusione con la “Van Bol & Feste” fondata nel 1930. L’ultimo dei Caflish fu Giorgio morto il 19 dicembre 1979 e con lui terminò anche l’attività delle pasticcerie, le quali furono tenute ancora in essere per poco tempo dalla “Cooperativa Caflish” fondata dalle maestranze della pasticceria.

Era accaduto che don Mariano Vacca, proprietario del Caffè d’Europa, all’angolo di via Chiaia, uomo avveduto e personaggio popolare per la domestichezza che aveva con artisti e attori, avendo tratto in fitto i locali e avendoli affidati al gusto e alla perizia dell’architetto Antonio Curri, fosse riuscito a dare a Napoli un nuovo e più importante luogo di convegno, com’erano da considerarsi in quel tempo i caffè. Nelle sale erano comparsi pastelli che erano onorati dalle firme di Volpe, Irolli, Caprile, Casciaro, Pratella, Postiglione; paesaggi ed altre opere dovuti a Migliaro, Scoppetta, Campriani, Diodati, Esposito, D’Agostino, Chiarolanza, Capone, Ragione, Palumbo. C’erano i marmi di Jenny e Fiore, gli stucchi del Bocchetta, i bassorilievi del Cepparulo e le tappezzerie del Porcelli. Insomma, una piccola galleria d’arte. L’inaugurazione avvenne il 3 novembre 1890, in uno sfavillio di luci giacché – altro tocco di interesse – l’illuminazione era stata ottenuta con l’impiego di energia elettrica. Nell’insegna, spiccava il nome del favoloso re, inventore della birra. Si leggeva, infatti, “Birreria Caffè Gambrinus”, in cui c’era il suggerimento di un felice matrimonio tra due famose bevande: l’una, bionda, fredda e nordica; l’altra, scura e bollente, tipicamente napoletana.
Il caffè, posto nel centro della città, fu, per più di un decennio, il luogo di raccolta di tutte le più eminenti, o interessanti, o pittoresche figure di Napoli. Non solo, perché non c’era artista forestiero che mancasse di farvi una capatina, ancorché il suo soggiorno si limitasse a una mezza giornata, o poco più. Delle sale del Gambrinus, che presero ad essere indicate secondo precise caratteristiche, per cui si ebbero, tanto per richiamare qualche ricordo, la sala politica, la sala della vita, la sala rotonda, erano assi­dui frequentatori, tra una folla di nomi illustri: Salvatore Di Giacomo, Eduardo Scarfoglio, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Achille Torelli, Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, Libero Bovio, Ernesto Murolo; il critico Saverio Procida, i pittori Morelli, Altamura, Casciaro, Caprile, Dalbono, Postiglione. Sia d’estate, all’esterno, che d’inverno, all’interno, piccole formazioni musicali di dame viennesi, o complessi locali, rallegrarono per anni le soste di cotanti brillanti ospiti. Sulle pedane all’aperto furono date numerose audizioni di Piedigrotta, con orchestre di almeno trenta elementi diretti da Vincenzo Ricciardi, e con cantanti che avevano peso nel varietà dell’epoca, da Diego Giannini a Olga Florez Paganini. Tra costoro, il più assiduo fu Eugenio Sapio, che vi cantò per lungo tempo.


Nel 1926 viene assorbita e posta in liquidazione la fabbrica Birra Perugia di proprietà dei soci Dell’Orso e Sanvico. La produzione di questa birreria nell’anno 1925/26 era stata di 1250 ettolitri. Nel 1929 vengono assorbite le Birrerie Meridionali nate nel 1904 dall’unione di capitale svizzero, belga e, in misura minore, italiano. La sede della società è in Via Nuova Capodimonte alle porte di Napoli. La produzione nell’anno 1928 era stata di 20.000 ettolitri. La nuova denominazione sociale è: Birra Peroni Meridionale. Nel 1930 è la volta della Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro. La sede amministrativa era a Milano e milanese era il capitale con cui finanziava la sua attività. Nel 1938 viene assorbita la Birra Partenope che si trovava in Via Colonnelle Lahalle nella sede della vecchia Birra Carbone da essa assorbita. Questa birreria, dopo aver contratto forti debiti con il Banco di Napoli e con altri istituti di credito, fallisce nel 1934 e la Peroni se la aggiudica all’asta.


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