L’UOMO CHE LEGGE – FUGA SENZA FINE

CONSIGLI DI LETTURA DALLA REDAZIONE

SINOSSI DAL SITO DELL’EDITORE

La steppa siberiana e l’asfalto di Parigi e di Berlino, le esaltanti lotte rivoluzionarie nelle file dell’Armata Rossa e i primi anni del governo sovietico, amori facili e amori impossibili, la società intellettuale, i ricchi e i giovani oziosi dell’Europa malamente sopravvissuta alla prima guerra mondiale: fra tutte queste realtà il giovane ufficiale absburgico Franz Tunda passa senza arrestarsi mai, ogni tappa è solo un momento di apparente sospensione nel turbine della sua «fuga senza fine».

Ed è una fuga che non ha un chiaro perché, se non nel fatto che Tunda è un essere ormai ovunque straniero, che non appartiene veramente a nulla: «Io so soltanto che non è stata, come si dice, la ‘inquietudine’ a spingermi, ma al contrario – una assoluta quiete. Non ho nulla da perdere. Non sono né coraggioso né curioso di avventure. Un vento mi spinge, e non temo di andare a fondo».

Queste ultime parole definiscono l’ufficiale Franz Tunda ma, almeno altrettanto, il suo autore, il grande Joseph Roth, che mai come in questo romanzo, pubblicato nel 1927, si disegna nell’ombra del suo protagonista – ed egli stesso avrebbe riconosciuto che la Fuga senza fine conteneva «in gran parte» la propria autobiografia di nomade. Anche per Roth c’era stata un’oscillazione tra la Russia della rivoluzione e la vecchia, amata e disfatta Europa. Ma anche per Roth la scelta era solo apparente: la sola realtà, nel fondo, era proprio la fuga, l’implacabile destino del «disperso».

Scandita da stupendi ritratti di donne, traversata da magistrali staffilate satiriche, Fuga senza fine è la storia di una progressiva spoliazione – un processo per cui un tipico ‘figlio del nostro tempo’ si ritrova, a poco a poco, «senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione; non aveva né patria né diritti»: non soltanto, ma prova una sorta di perverso piacere nell’incoraggiare la propria rovina. Alla fine, ridotto in miseria per le strade di Parigi, preso da un’ebbrezza nichilistica, Tunda sente che, a dispetto di tutto, quello è il suo posto: «viveva dell’odore di marcio e si nutriva di muffa, respirava la polvere delle case cadenti e ascoltava rapito il canto dei tarli».

Forse nessuno dei romanzi di Roth è così vicino al segreto, alla straziata ambivalenza del suo autore, nessuno affronta in modo altrettanto diretto – e sempre mantenendo una incomparabile limpidezza formale – quella disgregazione al centro della quale si pone tutta la sua opera.


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