Il Borsalino di Humphrey Bogart in “Casablanca”
Per i giovanissimi e le giovanissime del giorno d’oggi coprirsi il capo con un cappuccio o con una semplicissima cuffia calata sulla fronte, o con un berretto da basebaal, dotato di visiera curva e piatta, unisex, simile a quello indossato dai campioni della formula 1, rappresenta un vezzo, costituisce un elemento identitario.
Questi copricapo, come le Sneakers, come i capelli lunghi delle ragazze stirati da piastre elettriche, come i ciuffi arricciati sulla fronte dei maschi, servono a sentirsi omologati a uno standard of beauty condiviso in ogni parte del mondo globalizzato.
Sebbene tra i miei ricordi più lontani appaia mia madre con un intrigante cappellino nero con la veletta, nostalgia dell’anteguerra, dagli anni Cinquanta del secolo scorso il cappello ha cessato di essere un elemento imprescindibile dell’abbigliamento quotidiano di uomini, donne ed anche bambini. La guerra aveva azzerato tutto ciò che non fosse essenziale. Cambiava la moda, si cominciava ad uscire anche senza cappello, simbolo, insieme ai guanti, di appartenenza al ceto borghese. Negli anni Novanta la cuffia e il baseball cap imperversarono con la moda Hip Hop, importata dall’America nera urbana e adottata dai giovanissimi per la loro comodità e per il loro prezzo contenuto.
Il cappello perdeva così quel ruolo primario, funzionale e spesso identitario che aveva rivestito nell’abbigliamento maschile e femminile in ogni luogo e in ogni tempo.
Il copricapo, come documentano graffiti rupestri di 15.000 anni fa, rinvenuti in Francia, è nato allo scopo di proteggere la testa degli uomini dell’età della pietra dalla caduta di sassi.
Fin dalle più antiche religioni assunse un ruolo spirituale avendo la funzione di proteggere quella che era ritenuta la sede dell’anima. Il nemes, una “cuffia” di stoffa sormontata dalle insegne regali del cobra e dell’avvoltoio, stava ad indicare la natura divina di chi lo indossava. Anche le corone dei faraoni egiziani, figli del Dio Sole Ra, erano simbolo di onore e sacralità. Nell’antica Grecia il petasos, di feltro o di pelle, dotato di una falda che riparava dal sole, era indossato dai contadini e quindi rappresentava il ceto basso della società, anche se il dio Ermes, messaggero degli dei, viene spesso raffigurato con questo copricapo.
A Roma il pileo, realizzato in feltro ed ereditato dalla Grecia, era considerato il simbolo di libertas in quanto, nel corso di una cerimonia, veniva posto sul capo degli schiavi quando diventavano liberi.
Nel Medio Evo il copricapo aveva il compito di identificare le classi sociali. I ricchi e i nobili indossavano cappelli di velluto e di stoffe pregiate, mentre le donne impreziosivano la capigliatura con nastri e fiori.
Una grande enfatizzazione del cappello avvenne nel Cinquecento quando questo assunse svariate fogge e fu impreziosito da piume, gemme e veli.
Nei secoli successivi divenne simbolo di potere, quindi sempre più un oggetto da impreziosire e arricchire. Verso la fine del 1600 Luigi XIV, il re Sole, vi fece montare un diamante di 35 carati.
Durante la rivoluzione francese si diffuse il bicorno, adottato anche da Napoleone che lo indossava di traverso per farsi riconoscere più facilmente sui campi di battaglia.
I ribelli indossavano il berretto frigio, una cuffia conica con la punta arrotondata, che divenne simbolo di libertà, indossato anche da Marianne, icona della Rivoluzione Francese.
Il secolo d’oro del cappello fu l’Ottocento, con il cilindro per gli uomini, reso celebre da Abramo Lincoln, e con le cuffie dalle ampie tese annodate sotto il mento con lunghi nastri di seta cangiante per le donne.
Nel 1900 il cappello si diffuse enormemente. Cominciò a moltiplicarsi, e quello femminile ad assumere la forma semplice a cloche, a campana, creata a Parigi nel 1908.
Negli anni Venti, quando il cappello femminile distingueva il ceto sociale borghese, erano abbinate al taglio dei capelli alla garçonne, a calze di seta, poi di nylon e a un lungo filo di perle che oscillava sul seno delle signore mentre ballavano uno sfrenato Charleston. Oggi la cuffietta, bisex, è tornata di gran moda. Nera, colorata, talvolta intessuta di fili argentati o dorati, è un elemento glamour dell’abbigliamento femminile, anche quello più elegante e raffinato.
Per quanto riguarda il copricapo maschile, già nel 1860 Thomas William Bowler aveva creato a Londra la bombetta – bowler per gli anglosassoni – immortalata da René Magritte nell’opera L’uomo con la bombetta e resa famosa nei primi decenni del Novecento da Charlie Chaplin.
Anche Sir Winston Churchill amava la bombetta, ma negli anni Quaranta rese celebre e popolare una sua trasformazione, l’homburg, un copricapo semirigido di feltro con un’infossatura centrale e larghe tese con orlo rialzato.
Il cappello recentemente è entrato nel mercato delle aste. Nel 2011 il bicorno indossato da Napoleone durante la battaglia di Jena è stato battuto da Sotheby’s per 1,2 milioni di euro!
Il cappello di feltro
…una gloriosa storia piemontese
Nel 1900 la produzione di cappelli costituiva una fetta importante dell’economia italiana, in competizione con la Francia, leader in questo settore.
Le maggiori aziende produttrici di cappelli di feltro furono fondate già nell’Ottocento in Piemonte come evoluzione di preesistenti esperienze a carattere artigianale.
Mentre, con l’avvento della prima rivoluzione industriale, l’introduzione delle macchine nei processi produttivi trasformava tutti i settori economici dell’Italia settentrionale, grandi opifici di produzione del cappello nascevano in tre località piemontesi: a Sagliano Micca, piccolo borgo della Valle Cervo che, come in un anfiteatro, è immerso fra le montagne Biellesi; ad Alessandria, che assunse le dimensioni di città e acquisì una visibilità internazionale proprio grazie alla sua produzione di cappelli Borsalino, esportati in tutto il mondo; a Ghiffa, piccolo comune confinante con la città di Verbania sulla sponda occidentale del lago Maggiore.
I tre poli industriali devono la loro comune fortuna alle simili caratteristiche ambientali e logistiche: sono inseriti in territori collinari e submontani, ricchi di ruscelli che un tempo azionavano i mulini; di animali da cortile e di greggi che da sempre hanno fornito pelo e lana da trasformare in filati. Grazie allo sviluppo della rete viaria e alla nascita delle ferrovie realizzate a metà del XIX secolo dal governo sabaudo presieduto da Cavour, Biella ed Alessandria si trovavano nel crocevia tra Torino, Milano, Genova; il Verbano era collegato con la strada del Sempione a Milano e al Vallese al di là delle Alpi; con la ferrovia e i suoi raccordi a Torino e Genova; con i battelli a vapore alle località svizzere di Locarno e Magadino.
L’ausilio delle macchine nei processi produttivi favorì e accelerò la trasformazione delle tradizionali attività agricolo-pastorali, artigianali e commerciali nelle prime esperienze industriali di successo e vide nascere grandi opifici che si sostituirono o ampliarono le anguste preesistenti botteghe, affidate alla sola manualità dei mastri artigiani.
Per le caratteristiche della materia prima costituita da fibre di cotone, lino, canapa, seta e lana di diversa origine animale, l’industria del cappello si è affiancata a quella del tessile a più ampio raggio.
Biella, con un’antichissima e gloriosa tradizione alle spalle, è tuttora il primo polo italiano del tessile, con anche una rilevante produzione di cappelli fin dal 1600.
Nel 1755 Gio Battista Bonessio richiese di poter tenere aperta la sua bottega alle autorità dell’Università dei Mastri Fabbricanti Cappellai con un atto di sottomissione al Console di Commercio, giurando “sulle sacre reliquie” di mantenere il segreto sui processi produttivi. Nel 1863 avvenne la prima fornitura di cappelli da alpino al regio esercito, che diede immediatamente il via alla produzione del cappello per gli ufficiali. Nel 1897 i mastri cappellai si riunirono nell’Anonima Cooperativa Cappellai Sagliano Micca, divenuta Anonima Cooperativa Cervo nel 1934 ed infine, nel 1963 Cappellificio Cervo Srl.
Il cappellificio Cervo è il più importante cappellificio italiano ed è quello che può vantare le origini più remote. È nato ai margini di Sagliano Micca, a fianco dell’omonimo torrente, ad un vecchio mulino ancora esistente e ad una antica conceria, rimasta solo nel ricordo dei Saglianesi più anziani per l’odore maleodorante che spargeva per un ampio raggio attorno a sé.
Nel 1982 la società Cervo ha acquisito il marchio Barbisio che, nonostante la sua prestigiosa storia più che centenaria, il basso costo della manodopera e l’ottima qualità del prodotto, non è riuscito a combattere la crisi del settore. Nato nel 1862, già negli anni Trenta del secolo scorso esportava i suoi cappelli in feltro di pelo anche in America e in Africa.
Oggi il vecchio edificio Barbisio, dal colore rosso slavato dal tempo, che per decenni è stato il cuore pulsante di Sagliano Micca, seppur con diversa destinazione d’uso, è tuttora lì a ricordare la sua storia a chi imbocca la lunga e stretta via Roma. Questa si snoda tra due file di casette dai colori sbiaditi, fino a raggiungere, ai margini opposti del paese, lo stabilimento Cervo che ha fatto propria la sua storia. Qui, infatti, il marchio “Barbisio” continua ad esistere e a tener viva la lunga e gloriosa esperienza, rivisitando il cappello per uomo in chiave moderna.
Attraverso l’uso dei macchinari originari evolutisi nel tempo per adattarsi alle nuove esigenze di produzione, i cappelli Barbisio continuano ad essere realizzati in feltro di pelo, un materiale vivo. Le fibre che lo compongono reagiscono al calore e all’umidità e, se lavorate da mani esperte, diventano cappelli. La capacità di rendere duttile tale materiale, acquisita in oltre un secolo di applicazione, permette oggi allo storico marchio di abbinare e sperimentare accoppiamenti con altri materiali, come la paglia Cuenca o Toquilla, tessuti in cotone, jersey, tweed, cashmere e lana, maglieria rustica, lane biologiche. La produzione avviene a mano, grazie anche alle originarie forme in legno.
I cappelli Barbisio sono considerati tra i più leggeri al mondo: per fabbricare il feltro, infatti, si utilizzano materiali con un micronaggio (misurazione in millesimi di millimetri) più elevato del cashmere. La lavorazione inizia dalla soffiatura di alcune tipologie di pelo, quali il Garenne, il Clapier, il Bcb e l’Arète, per arrivare alle imbastitrici che abbozzano la forma del cono. Segue la follatura, il trattamento meccanico che conferisce compattezza, leggerezza e morbidezza alla lana e ai feltri, eseguita meccanicamente o secondo le caratteristiche del feltro che si vuole ottenere; quindi la tintura, realizzata in una vasta gradazione di colori. Successivamente si giunge alle complesse e delicate operazioni di modellatura, rifinitura e finissaggio, che donano ai feltri caratteristiche particolari. Il processo si conclude con accurate lavorazioni di guarnizione come l’applicazione di nastri, fodere, etichette che portano al prodotto finale.
La storia Barbisio è racchiusa in un archivio di 5000 mq. riordinato e disponibile sul portale del Centro Rete Biellese Archivi Tessili e Moda. Raccoglie importanti raccolte di materiale pubblicitario e, soprattutto, le testimonianze della produzione, tra forme per sagomare i cappelli e i macchinari d’epoca ancora in funzione in un contesto straordinario di archeologia industriale in attività.
A Torino, sotto i caratteristici portici di Piazza Castello, dal 1937 il negozio del cappellificio Barbisio continua a esporre il meglio del made in Italy: una vasta gamma di accessori dell’abbigliamento maschile, non solo quindi cappelli, esposti su arredi originali e fra fotografie d’epoca, fa del negozio Barbisio una tappa obbligata dello shopping nella patria dell’eleganza più raffinata.
La fama nel mondo dei cappelli made in Italy, va riconosciuta però soprattutto a Borsalino, il cappellificio di Alessandria, che prese il nome da Giuseppe, il giovanissimo iniziatore di questa avventura. Formatosi a Parigi nel 1850 sulla lavorazione dei cappelli in peli di castoro, acquisito il certificato di mestiere nel 1857, avviò con il fratello Lazzaro, in un piccolo laboratorio in via Schiavina, l’azienda Borsalino Giuseppe & fratello Spa.
All’inizio del Novecento la parola Borsalino comparve tra le voci dell’Oxford Dictionary come nome comune di cappello di feltro a falda larga. La voce del dizionario si riferisce a un particolare modello creato da Giuseppe Borsalino per venire incontro al galateo che prevedeva che l’uomo di fronte a una signora si levasse il cappello in segno di rispetto. Il cappellaio rimodellò la forma della lobbia: pizzicottando con le dita i lati frontali, creò due fossette, le bozze, che divennero il punto di presa del cappello. Il risultato fu un incontro perfetto di curve e linee che conquistò il mercato britannico, in particolare quello della City londinese, dove cominciarono a circolare le bombette con marchio Borsalino.
L’industria cinematografica lo ha reso famoso in tutto il mondo: il primo, quello indossato da Humphrey Bogart nel film Casablanca del 1941; quindi il Fedora di Jean Paul Belmondo e Alain Delon in Borsalino del 1970; da Robert De Niro in C’era una Volta in America del 1984, e da Tony Servillo ne La Grande Bellezza, premio Oscar 2014.
Sempre elegante, unico e con un’allure inconfondibile, il cappello Borsalino è un’icona di stile senza tempo, una presenza costante sui fashion magazine internazionali. È l’accessorio preferito di celebrity, influencer ed esponenti della cultura, dell’arte e del design in tutto il mondo.
Dal 2018 la manifattura Borsalino è controllata da Haeres Equita, gruppo di investitori privati guidati dall’imprenditore italiano Philippe Camperio.
Oggi la Casa di Alessandria, rivolta a una clientela maschile, femminile e giovanile, può contare su una rete distributiva composta da 10 flagship stores, da un network di rivenditori autorizzati composto da fashion boutique e cappellerie, e da una selezione di department stores internazionali, oltre che da una piattaforma digitale.
Verbania, a metà dell’Ottocento, si era conquistata il titolo di primo polo industriale d’Italia grazie all’evoluzione dell’antica pratica delle sbianche dei tessuti prodotti in Svizzera, effettuata nelle acque dei suoi torrenti. Nei primi opifici, con l’introduzione delle macchine, prese l’avvio la produzione e la lavorazione delle fibre tessili, che si affiancò all’industria meccanica, a quella nautica e a laboratori di allevamento del baco da seta. Fin dal Settecento era nella tradizione delle zone dell’alto Verbano la produzione artigianale di cappelli di feltro. Ma i tempi lunghi occorrenti per la produzione manuale dei feltri finirono per rendere troppo costoso questo tipo di lavorazione. Ben presto quindi i piccoli laboratori dovettero soccombere alla concorrenza delle fabbriche dotate di attrezzature meccaniche.
Così, nel 1879, nasceva a Ghiffa il cappellificio Panizzaindirizzato alla produzione di un cappello pregiato, da esportare in tutto il mondo come le concorrenti Barbisio e Borsalino. Ma lo stabilimento, stretto fra lago e montagna, non era in grado di assumere maggiori dimensioni nemmeno nel periodo più florido. Nel 1981 il cappellificio Panizza di Ghiffa chiuse per trasferirsi a Montevecchi, in Toscana, presso il Cappellificio Falcus, che dagli anni Novanta ne diventò concessionaria e produttrice.
La vecchia fabbrica sulla via Nazionale, di fronte al lago, oggi ospita il Museo dell’Arte del Cappello, che documenta in modo compiuto questo nostro viaggio attraverso la storia e la moda dei copricapo in diversi paesi del mondo, dall’era paleolitica ai giorni nostri. Consente inoltre la conoscenza diretta di strumenti, metodi, tecniche, materiali, in particolare il feltro, per arrivare dal pelo animale al cappello finito, processi che legano fra loro le simili esperienze degli opifici piemontesi.
Se è chiaro il passato e il presente degli opifici del cappello, per il futuro si può auspicare con una certa serenità che, diversamente dalla sorte toccata alla maggior parte dei prodotti made in Italy, il copricapo reggerà agli effetti della globalizzazione e al rischio di delocalizzazione o imitazione. Gli operatori del settore, dagli imprenditori, ai quadri d’azienda, alla manodopera dimostrano di saper portare sulle spalle un’esperienza antica, radicata nella storia e nelle caratteristiche ambientali dei territori, in cui è iniziata fin dal 1600. Quello del cappellaio è un mestiere antico, nobile e raro, che va tramandato nel tempo, rinnovandolo senza mai perdere le pietre miliari di quest’arte.
Un certo ottimismo si fonda soprattutto sulla sfida portata avanti nel Biellese di trovare i migliori artigiani italiani nell’arte del cappello, abbinandoli a tessuti di alta qualità, sfida che tiene al riparo dall’abilissima pratica del copia-incolla cinese, o da una delocalizzazione in paesi economicamente più vantaggiosi.
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