ROMA CAPITALE: UN PROBLEMA SOLTANTO POLITICO

La questione di Roma Capitale, che è quella di un ordinamento amministrativo particolare e di poteri comunali più ampi e diversi da quelli di altri comuni italiani in relazione al ruolo di capitale dello Stato assolto dalla città, risale ad un secolo e mezzo fa, subito dopo la raggiunta unificazione nazionale. Fin da quel momento si trattò di un problema politico e non della ricerca di una formula giuridica: la classe politica risorgimentale nelle sue componenti più strenuamente anticlericali era contraria a fare della capitale dell’estinto regno pontificio quella del Regno d’Italia, quasi una contaminazione da evitare a scanso di equivoci successori.

Nessuna meraviglia quindi che nel 1870, a Firenze quando la Camera dei Deputati discusse la legge che dal primo gennaio dell’anno successivo trasferiva dalla città toscana a Roma la Capitale del Regno, molti deputati si opponessero vivacemente a che ciò avvenisse: Roma era la città del Papa, doveva essere proclamata “città sacra” ma non divenire la Capitale di un regno ben distinto dalla Chiesa Cattolica. Vinse la tesi del trasferimento ma le conseguenze si fecero subito sentire: danari con il contagocce per realizzare le opere e gli impianti pubblici necessari per una città che in seguito al ruolo istituzionale assunto andava rapidamente espandendosi ed aveva un ordinamento amministrativo analogo a quello delle altre grandi città italiane, con un sindaco ed un consiglio comunale (eletto solo a partire dal 1889).

Iniziò il saccheggio di una città in cui i terreni edificabili erano di proprietà delle grandi casate nobiliari romane o di enti ecclesiastici, quando non direttamente della Chiesa Cattolica, come quelli, ad esempio, appartenenti al capitolo di San Pietro (gran parte della collina di Monte Mario). L’espansione urbana era una occasione da non perdere per monetizzare quelle proprietà, ma per raggiungere lo scopo era necessaria una amministrazione comunale amica, che non volesse alcuna remora alla distruzione a scopo edilizio delle antiche ville urbane, non facesse troppi problemi quanto alla lottizzazione di terreni al di là del Tevere( quello che diventerà poi il quartiere Prati) e non esitasse a tagliare con strade di scorrimento antichi splendidi giardini come quello che circondava Palazzo Barberini.

Tale essendo lo scenario di riferimento non desta alcuna meraviglia che per circa mezzo secolo, fino a quando nel 1907 non fu eletto sindaco di Roma Ernesto Nathan, sindaci ed amministratori comunali di Roma appartenessero, salvo brevi intervalli, alla cosiddetta “nobiltà nera”, quella cioè creata dai Papi nei secoli precedenti, e che fossero legati ad ambienti ecclesiastici alcuni esponenti dei quali, come Monsignor de Merode, erano ben presenti nel mercato delle aree edificabili più centrali. Fu l’instaurazione di un metodo per l’amministrazione della città molto fruttuoso per alcuni ma disastroso per gli abitanti della città: già alla fine dell’Ottocento si andarono delineando carenze di opere e di impianti pubblici ed un quella disordine urbanistico determinato dalla speculazione edilizia senza freni: quando la bolla speculativa esplose fallirono alcune banche più attive nel settore e di cui era azionista anche sua maestà il re d’Italia.

Perché in una simile situazione preoccuparsi della struttura amministrativa della città quando essa era assolutamente funzionale agli interessi del (ristretto) numero degli elettori del sindaco e del Consiglio Comunale?

Nathan spezzò la catena, municipalizzò i servizi pubblici, stabilì nuove direttrici dello sviluppo urbano, bloccò la corsa sfrenata della rendita edilizia con un nuovo piano regolatore (1903) ma fu una esperienza che finì presto (1913). Ripresero vita dopo di lui le antiche usanze ma era chiaro che la situazione: non poteva durare a lungo: la città andava sempre più degradandosi, le antiche mura romane servivano d’appoggio a casupole di fortuna che accoglievano i ceti meno abbienti, mentre fuori delle mura era il Far West: il piano regolatore del 1909 regalò l’assetto urbano oltre la cinta muraria ma si dimostrò presto insufficiente rispetto alla crescita incontrollata della espansione urbana.

Nel 1925 il regime fascista giocò la grande carta: la città di Roma diveniva un Governatorato, con un Governatore, un vice Governatore ed un Segretario generale nominati dal Governo, assistiti da una commissione consultiva pure di nomina governativa e con vasti poteri amministrativi il cui esercizio era sottoposto solo in casi determinati al controllo del Ministro degli Interni.

Fu la Roma degli sventramenti del centro storico delle tredici borgate ultra periferiche, della nuova direttrice di sviluppo verso il mare, del nuovo quartiere dell’EUR: nel bene e nel male di una amministrazione locale non elettiva, fu una Roma del fare, anche male, anche nascondendo la polvere sotto il tappeto, come nel caso delle baracche plurifamiliari del Tiburtino III, ma fu comunque una Roma che durò poco: nel 1945 il Governatorato fu soppresso e Roma tornò ad essere amministrata come le altre città italiane secondo il modello prefascista.

A questo punto inizia il balletto delle finzioni e delle menzogne convenzionali: nel 1945 una commissione presieduta dal Sottosegretario al Ministero degli Interni Canevari, incaricata di individuare lo schema di una nuova amministrazione locale per la Capitale, conclude i suoi lavori proponendo In sostanza un ritorno al Governatorato con la sola variante di un trasferimento al prefetto del controllo di legittimità sugli atti. Come era naturale che avvenisse la proposta non ebbe alcun seguito: la “Rivista dei comuni” dell’aprile 1948 individuò la causa del fallimento nel delinearsi di “qualche tendenza politica inopportuna che prese il sopravvento”: facile intuire, dietro la genericità delle parole, una tenace resistenza ad un regime amministrativo particolare per la Capitale da parte di chi riteneva opportuno che tutto cambiasse affinché si ritornasse alla situazione prefascista.

Un primo segnale in questo senso era già stata la nomina nel 1944 a sindaco di Roma del principe Filippo Doria Pamphili, un nobile romano che aveva almeno il merito di essere un vecchio antifascista.

Con il suo successore Salvatore Rebecchini eletto nel 1946 e che resterà sindaco per dieci anni fino al 1956, inizia la serie dei sindaci sempre democristiani, pur nella differenza delle maggioranze che li sostenevano. Rebecchini, Cioccetti, Petrucci, Santini, per citare solo i nomi di coloro che hanno lasciato maggiori tracce nella vita capitolina, erano tutti strettamente legati agli ambienti ecclesiastici (uno di loro faceva perfino parte del consiglio di amministrazione della banca vaticana). Il piano regolatore era ancora quello del 1931 che lasciava prive di prescrizione urbanistiche le aree allora periferiche: divennero terreno esclusivo di caccia dei “palazzinari” romani che accumularono grandi fortune in poco tempo nel malcostume amministrativo imperante.
Antonio Cederna, consigliere comunale a Roma dal 1958 al 1961 eletto nella lista socialista, lo denunciò sul settimanale “Il mondo” diretto da Arrigo Benedetti e sullo stesso giornale Manlio Cancogni, sotto l’indicativo titolo “capitale corrotta nazione infetta” pubblicò una dura requisitoria contro le scelte urbanistiche dell’amministrazione comunale. Nessun effetto pratico se non una condanna di Manlio Cancogni e di Arrigo Benedetti ad otto mesi di reclusione, poi amnistiati.

A norme particolari per la città di Roma nessuno mostrò di pensare più: era stato raggiunto un perfetto equilibrio tra una maggioranza che aveva messo salde radici in città e gli interessi dei palazzinari romani: nessuno pensava assolutamente a maggiori poteri amministrativi comunali che avrebbero potuto essere utilizzati in futuro da una amministrazione cittadina di segno politico opposto a quello della maggioranza del governo nazionale, ipotesi che Papa Pio XII non escludeva tanto da chiedere inutilmente a De Gasperi la presentazione alle elezioni del 1952 per l’amministrazione della città la presentazione di una lista apparentata con le destre e i monarchici. Era meglio che il Governo saldamente in mano democristiana conservasse i poteri che aveva ed evitare qualunque spiacevole rischio… i problemi della capitale restavano irrisolti compresi quelli del pesante deficit finanziario. A questo proposito già a partire dai primi anni ‘50 furono presentate varie proposte di legge tendenti ad ottenere per la città di Roma finanziamenti statali motivanti dalle spese sostenute per assolvere il ruolo di capitale dello Stato e un alleggerimento dei controlli burocratici sugli atti dell’amministrazione cittadina.

I progetti di legge furono esaminati congiuntamente da una speciale commissione presieduta da Aldo Moro che concluse i suoi lavori nel 1958 con una monumentale relazione, al termine della quale si proponevano stanziamenti a favore del comune ed una semplificazione dei controlli statali sugli atti dell’amministrazione comunale. Le proposte della commissione non ebbero alcun seguito per la fine della legislatura e la conseguente decadenza delle proposte di legge presentate.

Negli anni successivi furono presentate numerose proposte di legge aventi lo stesso oggetto ma senza mai tornare sulla questione di un ordinamento amministrativo particolare per la capitale dello Stato.

Nel 1976 venne attuato l’ordinamento regionale: convinzione di alcuni era che la questione dell’ordinamento amministrativo della capitale potesse trovare soluzione attraverso una delega di poteri da parte della regione Lazio al Comune di Roma, magari disposto dalle norme relative al trasferimento dallo Stato alle regioni delle funzioni amministrative (D.P.R.n.616 del 1977). Fu un calcolo di eccezionale miopia politica: in assenza di norme specifiche in proposito stabilite in Costituzione, nessuna amministrazione regionale del Lazio, pur nel variare delle maggioranze politiche avrebbe proceduto sulla strada delle deleghe per sfuggire all’eventuale accusa di voler privilegiare Roma rispetto agli altri comuni della regione magari solo per l’omogeneità politica delle maggioranza regione – comune di Roma, perdendo quasi automaticamente consensi politici negli altri comuni.
Il problema è tutt’ora attuale: nella regione le altre quattro provincie gravitavano e gravitano in maggiore o minore misura economicamente sulla Capitale e trasferire ad essa poteri amministrativi per dotarla anche di opere ed impianti pubblici più efficienti poteva e può essere inteso come espressione della volontà politica di abbandonare a loro destino le province di Rieti, Latina, Frosinone e Viterbo, tra l’altro con maggioranze politiche delle rispettive amministrazioni comunali solo in alcuni casi coincidenti con quella dell’amministrazione regionale (tra l’altro variata più volte nel tempo).

Tutto restò dunque come prima, anche dopo che nel 1986 al Comune di Roma si insediò la prima amministrazione di sinistra del dopoguerra con il sindaco Argan, a cui successe dopo breve tempo Luigi Petroselli e poi Ugo Vetere: tutti tesero a dimostrare che anche con i poteri che l’amministrazione comunale già aveva, la città poteva essere amministrata meglio (e non avevano tutti i torti), non rifuggendo da qualche provocazione (come la mostra a Castel Sant’Angelo sull’abusivismo edilizio inaugurata dal sindaco Vetere in ossequio all’alleanza tra il PCI e l’Unione Borgate “abusive”). Dell’ordinamento di Roma Capitale non si parlò più mentre si allargava la forbice tra regione Lazio e Comune di Roma con amministrazioni di diversa ed opposta linea politica.

Si giunse così al 1985, quando un gruppo di deputati socialisti, primo firmatario Giampaolo Sodano, presentò alla Camera dei Deputati una proposta di legge (n.3433) che tendeva a superare il problema politico con la istituzione di una agenzia governativa che avrebbe elaborato e curato l’attuazione nella Capitale di un programma di opere ed impianti pubblici con finanziamento a carico dello Stato. La proposta di legge, cui non mancarono le adesioni di principio dei gruppi politici di centro-sinistra, non fu tuttavia mai discussa e decadde con la fine della legislatura (1987): probabilmente aveva ragione Rino Formica, allora presidente del gruppo parlamentare Socialista e secondo firmatario della proposta di legge, quando si dichiarava pessimista sul successo di una iniziativa che aveva il difetto principale di sconvolgere molti interessi non sempre leciti.

La soluzione proposta dai socialisti poteva essere criticata sotto il profilo parlamentare, ma era valida sotto quello pratico, come dimostra il fatto che nel 1995 venne costituita l’Agenzia per il Giubileo, società per azioni al cui capitale azionario partecipava lo Stato ed alcuni comuni, tra cui quello di Roma, che svolse per sei anni, anche se su scala molto ridotta, funzioni analoghe a quelle indicate nella proposta socialista del 1986. Nel 1995 fu assolutamente necessario costituirla per evitare il fallimento del Giubileo, ma appena possibile (2001) fu posta in liquidazione, a scanso di equivoci…

Si arriva così al 2001 quando la maggioranza di centro-sinistra decide di varare una riforma delle norme costituzionali riguardanti le autonomie regionali, una riforma dai contenuti quanto meno opinabili. Si ritorna a parlare di uno statuto speciale per la Capitale, ma ancora una volta ci si fermava dinanzi allo scoglio dei poteri attribuiti alla Regione Lazio, che la riforma costituzionale ampliava, così come per tutte le regioni a statuto ordinario.

Con molta superficialità, o forse perché qualcuno potesse vantarsi di aver risolto il problema, il nuovo testo dell’art. 114 della Costituzione stabilì che con legge dello Stato sarebbe stato disciplinato l’ordinamento di Roma Capitale della Repubblica. Aria fritta: la legge ordinaria non avrebbe infatti potuto sottrarre alla Regione Lazio i poteri attribuitile dalla Costituzione, mentre quelli statali trasferibili erano veramente molto ridotti. La dimostrazione si ebbe con la legge n.42 del 2009 che stabilì infatti (art. 24) che alla città metropolitana di Roma sarebbero state trasferite alcune funzioni amministrative statali.

Con il decreto legislativo n. 61 del 2012 fu specificato che venivano trasferite alla Capitale alcune marginali funzioni amministrative statali: le funzioni amministrative nelle materie di competenza regionale (in particolare assetto del territorio, edilizia, trasporti pubblici) avrebbero dovuto essere trasferite con legge regionale. In pratica si tornava, come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza. Degno di nota per la superficialità dimostrata nell’affrontare il problema è il fatto che una Commissione nominata (2008) dall’allora sindaco di Roma Alemanno propose che alla capitale fossero attribuite oltre che funzioni amministrative anche la potestà di emanare regolamenti eventualmente difformi da leggi vigenti in materie non coperte da riserva di legge: in pratica il comune di Roma avrebbe potuto emanare norme non molto diverse da quelle riguardanti la lunghezza dei guinzaglio dei cani…

Le forze politiche, sia di maggioranza che di opposizione, non tardarono molto ad accorgersi del vicolo cieco in cui Parlamento e Governo si erano cacciati con la modifica costituzionale del 2001: nella XVIII legislatura (2018-2023) furono presentate quattro proposte di legge costituzionale (n.1854, n.2938, n.9061, n.3118A) rispettivamente dai deputati Barelli, Morassut, Ceccanti e Meloni, che, dopo un lungo esame presso la I Commissione Affari Costituzionali furono unificate in un testo sottoposto all’esame dell’Assemblea di Montecitorio il 22 giugno 2022 per essere poi l’ulteriore discussione rinviata a data da destinarsi. Il testo approvato in commissione prevedeva la emanazione di una legge dello Stato per il riconoscimento a Roma Capitale di condizioni particolari di autonomia normativa, amministrativa e finanziaria, adeguando mezzi e risorse per lo svolgimento delle sue funzioni.

Allo Statuto di Roma Capitale, adottato dall’Assemblea Capitolina con la maggioranza dei due terzi dei componenti, sentita la regione Lazio è demandata la indicazione dei poteri legislativi regionali da trasferire esclusa la tutela della salute. Queste in larga sintesi la soluzione finale adottata al termine della scorsa legislatura. La commissione affari costituzionali, a maggioranza qualificata, avrebbe potuto, entro sei mesi dall’inizio della legislatura, decidere di riassumere il testo in questione per poi trasmetterlo, con eventuali modifiche, all’Assemblea per la decisione finale. I sei mesi sono trascorsi, la riassunzione non è avvenuta, Il deputato Morassut ha presentato una propria proposta di legge che riproduce il testo già provato ma le speranze che il progetto abbia un seguito positivo sono piuttosto scarse, come indica chiaramente la mancata riassunzione.

Dal 1945 ad oggi sono trascorsi 78 anni: la soluzione del problema della Capitale appare ancora lontana, tra insipienza, faciloneria, errori politici, tutela di interessi precostituiti non sempre lusinghieri per chi ne è fatto portatore (“mafia capitale” è una triste realtà). E’ inutile continuare a parlare di proposte di legge, di problemi giuridici, di vincoli costituzionali, di difficoltà di armonizzazione poteri diversi: la questione è soltanto politica. Ciascun partito, ciascun movimento, ciascun gruppo politico tende a salvaguardare il proprio orticello di consensi elettorali: il partito Fratelli d’Italia, che esprime il Presidente del Consiglio e la sua maggioranza, non consentirà, finché gli sarà possibile farlo, l’approvazione di una legge che trasferisce poteri dalla regione Lazio, di cui esprime il presidente, al Comune di Roma, che ha un sindaco targato PD: è la logica di quella politica miope, di corto respiro, fatta solo di aspirazione alla conquista e gestione del potere che ha prevalso finora anche se con attori diversi.

Intanto la città capitale della Repubblica italiana è divenuta un forte richiamo per i cinghiali, i trasporti pubblici sono allo sfascio, i rifiuti invadono le strade, il traffico urbano è al collasso e le strade comunali sono in condizioni disastrose.


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