SIAMO TUTTI AFRICANI

Come si colloca l’Africa di oggi nel quadro geopolitico internazionale? Chi sono i suoi alleati e i suoi oppositori? C’è una politica estera africana comune? Quali sono il grado di democrazia e le prospettive economiche del continente? E ancora, perché la parola Africa è considerata, nell’immaginario collettivo, sinonimo di un’altra, cioè migrazioni?

Per cercare di offrire una sintetica risposta a queste domande complesse, credo occorra tornare indietro nel tempo. Perché il lungo passato dell’Africa ha lasciato tracce profonde nella memoria dei suoi popoli, nelle difficoltà della sua economia e nella politica dei suoi governi.

Giovane d’età e di spirito, l’Africa è in effetti antichissima, essendo gli albori della sua storia conosciuta coevi a quelli dell’umanità stessa. Da tempo i paleo-antropologi sono concordi nell’affermare che il cosiddetto “continente nero” è la culla della vicenda umana, a partire dall’apparizione, quattro milioni di anni fa, dei primi Ominidi nel Corno d’Africa fino ad arrivare alla loro evoluzione nell’Homo Sapiens – cioè l’essere umano moderno – apparso circa 200 mila anni fa nella valle etiope del fiume Omo. È da lì che la nostra specie si è diffusa fino a popolare l’insieme delle terre emerse.

In sostanza, che ci piaccia o meno, siamo tutti africani. Il famoso attivista Malcolm X, figura controversa ma carismatica, soleva dire: «Non si possono odiare le radici di un albero e non odiare l’albero. Non si può odiare l’Africa e non odiare se stessi». Non aveva torto.

Aggiungo che l’Africa è all’origine del mondo così come lo conosciamo non solo dal punto di vista biologico e paleontologico, ma anche sotto altri aspetti. È lungo i settemila chilometri della fertile valle del Nilo che nacque l’agricoltura, grazie alla prima differenziazione tra cacciatori nomadi e contadini sedentari capaci di coltivare la terra. È nell’area subsahariana che si diffuse la capacità di lavorare il ferro. Ed è infine nella regione nord-orientale del continente che presero vita le prime organizzazioni sociali complesse, tra cui il regno faraonico d’Egitto. In sintesi, l’Africa vanta la “sequenza culturale” più antica delle storia umana.

Tale sequenza avrebbe raggiunto il suo culmine con la raffinatissima civiltà egiziana. In seguito avrebbe sperimentato l’arrivo dei greci e poi la dominazione romana, la diffusione del cristianesimo e della lingua latina e la successiva penetrazione dell’islamismo. Ripercorrere nel dettaglio tutte queste tappe sarebbe non solo inutile, poiché esistono testi ben più dotti sul tema, ma anche impossibile. Mi concentro quindi sull’età moderna e sul fenomeno che mi pare essere il più rilevante per capire l’Africa attuale: la colonizzazione europea.

Il colonialismo

Premetto che molte sono le tracce – politiche, sociali, economiche e linguistiche – che il lungo fenomeno coloniale ha lasciato dietro di sé. E che la sua conseguenza più vistosa è la parzialità del nostro punto di vista: quando parliamo di storia dell’Africa inevitabilmente pensiamo a quella dei suoi dominatori più che a quella dei suoi popoli autoctoni. È questo che continua a rendere difficile la nostra capacità di percepire un’Africa nuova. D’altra parte è da oltre cinque secoli che la guardiamo con gli occhi del conquistatore.

I primi europei a prendere possesso di parti del “continente nero” furono, a fine ‘400, i portoghesi sulla scia delle scoperte di Vasco da Gama. Seguirono a ruota olandesi, tedeschi, spagnoli, belgi, italiani e soprattutto inglesi e francesi. Furono infatti Francia e Regno Unito i protagonisti della lunga conquista che, iniziata nell’XIV secolo, avrebbe toccato il suo culmine nel XIX.

La giustificazione morale della corsa coloniale, detta efficacemente in inglese scramble for Africa (letteralmente “sgomitare” o “azzuffarsi per l’Africa”), si appoggiava su un feroce razzismo pseudoscientifico, corroborato da studi antropologici compiacenti: si riteneva fosse indispensabile fornire agli africani gli strumenti per civilizzarsi, dato che da soli non ci sarebbero mai riusciti. L’opinione era diffusa peraltro anche tra illuminati filosofi e scrittori, vittime della propaganda o, in questi giudizi almeno, della convenzionalità. Basti pensare a Montesquieu, Hume, Hegel, Kant o a Joseph Conrad, che in Cuore di tenebra descriveva l’Africa come il «regno di una nera e incomprensibile forza bruta, un’eredità maledetta che i bianchi devono sottomettere anche a costo di profonde angustie e duro lavoro».

In barba alla conclamata opera di civilizzazione, il colonialismo fornì abbondanti esempi di orrenda inciviltà. Forse gli episodi più atroci avvennero in Congo e in Sudafrica. In Congo, il re Leopoldo II del Belgio, che lo aveva acquisito con i propri fondi privati facendone una colonia “personale”, diede ordine di sfruttare a fondo le risorse naturali locali per compensare le spese ingenti che aveva dovuto affrontare. E sottopose gli indigeni ai lavori forzati, in un regime di terrore. In Sudafrica intere tribù vennero sterminate dai tedeschi perché si erano ribellate alla loro colonizzazione. Furono isolate nel deserto e lasciate morire di fame e di sete, dopo che le truppe germaniche avevano avvelenato i pozzi d’acqua.

Nulla poteva opporsi insomma all’ansia di sfruttamento delle risorse naturali africane e di controllo delle aree strategiche del continente, dal Canale di Suez al Capo di Buona Speranza. Il risultato fu che, subito prima della seconda guerra mondiale, l’Africa era spartita nella sua totalità tra le nazioni europee, con la Francia e il Regno Unito in testa.

La tratta degli schiavi

Ma di tutte le infamie compiute dai colonizzatori, la vergogna più inaccettabile fu la tratta degli schiavi. I primi ad avviarla furono, nel Medioevo, gli arabi che arrivarono in Africa attraverso l’Oceano Indiano e deportarono per nave masse di persone verso gli attuali Iran, Iraq, Turchia, India e Pakistan. Poi, tra il XVI e il XIX secolo, il loro nobile esempio fu seguito da altri, soprattutto inglesi e americani. Si calcola che in totale circa 27 milioni di africani abbiano lasciato la loro terra per essere trasportati come bestie da fatica attraverso l’Oceano Atlantico o quello Indiano. Di questi, 12 milioni fecero rotta verso le Americhe.

Tre furono le svolte storiche che, sia pur tra fatiche negoziali e tenaci opposizioni, riuscirono progressivamente a porre fine al dramma. La prima avvenne in Inghilterra dove, dopo sette proposte di legge presentate invano, il Parlamento approvò finalmente, il 25 marzo 1807, lo Slave Trade Act, che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio 1808 e avrebbe condotto anche le altre potenze coloniali a dichiarare abolita la schiavitù in occasione della Conferenza di Berlino del 1855. In America il 1° gennaio 1863 Abraham Lincoln emise il Proclama di Emancipazione, che gli sarebbe costato la vita ma avrebbe permesso di liberare quattro milioni di schiavi d’origine africana negli stati federali del sud. Infine ci fu, più tardi, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 da 48 dei 58 membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il suo articolo 4 stabilisce che «nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma».

Oggi la schiavitù è considerata un crimine contro l’umanità. Tuttavia le sue conseguenze resistono al tempo. Storici ed economisti riconoscono unanimi che essa permise da un lato lo sviluppo economico del cosiddetto Nuovo Mondo e accentuò dall’altro l’impoverimento dell’Africa, privata per secoli non solo della sua manodopera più preziosa e del suo futuro: i mercanti selezionavano infatti uomini e donne sani e forti, in età riproduttiva. Dovremmo ricordarcene.

La decolonizzazione

Il processo di decolonizzazione, che prese avvio nei primi anni ‘50 – senza dubbio stimolato dall’afflato democratico che percorse il mondo dopo la fine del secondo conflitto mondiale e la sconfitta del nazismo e del fascismo – fu lungo e difficile. E venne marcato da numerosi episodi bellici sia tra potenze colonizzatrici e stati colonizzati (per esempio le sanguinose guerre di liberazione dell’Algeria, del Congo o del Ruanda), sia tra le stesse nazioni africane.

I loro confini erano infatti artificiali e in parte lo restano: furono spesso stabiliti a tavolino dalle cancellerie europee, senza nessuna attenzione per la geografia, la storia e, soprattutto, le comunità etniche, i loro legami affettivi e i loro costumi tradizionali. Il concetto di frontiera è, tra l’altro, estraneo alla cultura africana, che è in origine tribale e non statale. Per questo le divisioni disegnate dagli europei furono sempre ragione di disagio e sovente di conflitto. Tanto più che i colonizzatori trattarono l’Africa come fosse una partita di Risiko, scambiandosi senza esitazione pezzi di territori a seconda degli equilibri e delle convenienze del momento. Solo alcuni esempi tra i molti sono la spartizione del Congo tra Belgio e Francia, la cessione francese di una parte dello stesso Congo ai tedeschi per avere mani libere sul Marocco, la consegna tedesca dell’Uganda agli inglesi in cambio del controllo su Zanzibar.

Addirittura vi furono casi in cui brandelli d’Africa passarono da uno stato colonizzatore all’altro per ragioni di cortesia e di diletto. Nel 1886, per esempio, la potente Vittoria, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e imperatrice delle Indie, offrì il Kilimangiaro come regalo di compleanno a suo nipote, il futuro kaiser Guglielmo II, che aveva una gran voglia di possederlo. La colonia tedesca del Tanganika, oggi Tanzania, era tutta un monotono altopiano. Una vetta vulcanica di 5.845 metri ci sarebbe stata proprio bene. La generosa sovrana inglese, che già possedeva più a nord il Mount Kenya, includeva nel suo vasto impero l’Himalaya, cioè la catena più elevata del mondo, e non sentiva quindi un particolare bisogno di altre montagne, se ne sbarazzò senza farsi troppi problemi. E il primo ministro di Londra, William Gladstone, si stupì non tanto per la cessione, quanto per il desiderio del giovane principe tedesco di possederlo. Dichiarò infatti: «Sono esterrefatto che alcuni dei nostri uomini più sobri abbiano voglia di annettere una montagna dal nome impronunziabile nei pressi di Zanzibar».

In sostanza, dopo secoli di dominazione straniera, la decolonizzazione trovò l’Africa divisa da confini irrazionali, impreparata istituzionalmente ad autogestirsi e terribilmente impoverita dal punto di vista economico. Le rimasero, del periodo coloniale, alcune infrastrutture (ma non abbastanza), un importante retaggio linguistico e dei legami duri a morire perché, come ha scritto Lucio Caracciolo, «se sei stato un impero, non finisci mai di esserlo».

Gli africani non sono del tutto innocenti al riguardo. Nel corso della mia esperienza personale ho potuto verificare come esistano nello stesso tempo convenienze e attitudini che contribuiscono a tenere vivo il legame tra le ex colonie e gli ex imperi di cui erano parte.

Per “convenienze” intendo gli interessi privati dei dittatori che hanno guidato i regimi post-coloniali. I giovani Stati africani, poco familiari con leggi costituzionali e ripartizione dei poteri, sono infatti stati presi in mano da padri-padroni carismatici che, inebriati dal nuovo ruolo, non hanno esitato a mantenerlo con la forza e usarlo come strumento di arricchimento personale. Tra questi emergono tristemente il ricchissimo Mobutu Sese Seko, detto “padrone dello Zaire”, il violento Idi Amin Dada in Uganda o Francisco Macias Nguema in Guinea Equatoriale, che si dichiarava marxista ma elogiava pubblicamente Hitler. E, per finire in gloria, nessuno dimentica il nome di Jean-Bédel Bokassa in Repubblica Centrafricana. Figure che hanno martoriato i loro popoli, accumulato ricchezze tali da diventare grottesche e talora, dopo essere stati esautorati, si sono rifugiati in Europa, come Bokassa che corse a Parigi dove venne accolto per i suoi passati trascorsi da sergente nell’esercito francese e visse per qualche tempo in un castello da lui acquistato, non senza rivelare alcuni imbarazzanti regali elargiti nel tempo ai dignitari transalpini. La storia dei diamanti donati al presidente Valéry Giscard d’Estaing ha fatto colare fiumi d’inchiostro in Francia e nel mondo.

Come mai, ci si potrebbe chiedere, i popoli d’Africa hanno accettato di passare dal giogo dei colonizzatori a quello di questi tiranni locali? In primo luogo, dopo secoli di sudditanza non erano certo pronti a esercitare i diritti loro riservati dalla democrazia. Inoltre non va dimenticato che la cultura africana è tradizionalmente tribale e che i capi tribù hanno svolto (e spesso continuano a svolgere) un ruolo sociale fondamentale, per esempio nella ripartizione delle terre fertili o nella tutela delle tradizioni o nel mantenimento degli equilibri interni di ogni comunità. I presidenti delle neonate repubbliche sono stati dunque identificati del popolo come capi tribù “in grande”. E purtroppo ne hanno esercitato lo stesso potere assoluto, ma, per usare un eufemismo, con un minor grado di saggezza.

Per passare dalle convenienze alle “attitudini”, alludo al legame individuale con gli antichi stati dominanti, motivato da una sorta di… simbiosi patologica, come direbbe uno psicanalista. In concreto, pur essendo consapevoli dei danni immensi causati nei loro paesi dal colonialismo, gli africani non riescono a prendere totalmente le distanze da chi li ha schiavizzati per secoli. Un po’ come succede con i genitori: anche quando sono indegni o malvagi o assenti, è difficile liberarsi della loro presenza interiore perché ci si sentirebbe in colpa e si avrebbe l’impressione (sbagliata) di perdere una parte essenziale della propria identità.

Passo dalla similitudine alla concretezza. Quasi tutti i miei amici kenioti più istruiti hanno frequentato l’università in Inghilterra: a Cambridge, a Oxford, a Cardiff. Quando vogliono comprare un abito su misura, vanno in Savile Row. Quando devono fare una ricerca per lavoro, off o online, il primo strumento cui pensano è la, peraltro ottima, Enciclopedia Britannica. E questa sorta di sindrome di Stoccolma, se così vogliamo chiamarla, non è propria solo del Kenya: i senegalesi abbienti studiano in Francia, i marocchini comprano profumi a Parigi e gli angolani vanno in vacanza a Lisbona, sempre che se lo possano permettere. Non si tratta di pura aneddotica, ma di qualcosa di più profondo. La comunanza linguistica ha indubbiamente il suo peso: molto più facile studiare in Inghilterra quando l’inglese è la lingua madre o fare affari con Parigi quando si parla il francese come un francese. Ma c’è altro: c’è quel sentimento rassicurante di comfort zone che tutti sperimentiamo quando frequentiamo ambienti e persone che ci sono familiari, da cui non ci aspettiamo sorprese, dei quali conosciamo a menadito anche i peggiori difetti.

Eppure, come qualcuno ha detto, «the magic happens when you step out of your comfort zone». Le magie accadono solo se si esce dalla propria zona di conforto. Gli africani lo sanno e, sia pure tra mille ostacoli e mille fatiche, stanno abbandonando i propri padri, tribali o coloniali che siano, per affacciarsi a orizzonti nuovi. Orizzonti politici, economici e commerciali fin qui inesplorati.

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