L’EREDITÀ CULTURALE DI GIANNI BELLISARIO

E LA RINNOVATA MISSIONE DI INFOCIVICA

PIERAUGUSTO POZZI

Segretario generale Infocivica – Gruppo di Amalfi

Il seminario che Infocivica ha organizzato nell’ambito della XXXVI edizione di Eurovisioni, nel ricordo di Gianni Bellisario, ha consentito di delineare come la missione che i fondatori avevano assegnato nel 2003 all’Associazione, richieda di essere aggiornata e rilanciata, in relazione al cambio di scenario che i vent’anni trascorsi ci hanno consegnato nel sistema della comunicazione e nei nuovi paradigmi dell’informazione e della conoscenza.

Personalmente, debbo all’amico Bruno Somalvico, che fu tra i fondatori dell’Associazione e che mi ha preceduto nell’incarico di segretario generale, la “riscoperta” di Infocivica, proprio nel nome di Gianni Bellisario. Bruno mi invitò infatti alla presentazione (tutta online, secondo la prassi del tempo pandemico) del Numero Zero di Democrazia futura, progetto di rivista trimestrale al quale Gianni aveva dedicato insieme a lui e agli altri Amici dell’Associazione, tempo e ingegno negli ultimi mesi del suo impegno professionale. Insieme all’invito, Bruno mi mandò il testo che aveva scritto in memoria di Gianni, firmato con Massimo De Angelis, past president dell’Associazione.

Ma qual era il perimetro originario dell’azione di Infocivica, definito nel 2003? Con grande intelligenza civica, lo spazio relazionale che si componeva tra istituzioni, cittadinanza e sistema della comunicazione, che si voleva aperto, plurale e funzionale, con particolare attenzione al ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo. Uno spazio considerevolmente mutato da allora, perché oggi si debbono considerare nuovi ambiti e nuove parole (cito il testo di De Angelis e Somalvico) come, per esempio: “innovazione partecipata e condivisa, crossmedialità, responsabilità pubblica nei confronti della rete”.

In effetti, tutto è cambiato. È accaduto che lo spazio relazionale tra istituzioni, cittadinanza e sistema della comunicazione e, in esso, il ruolo del servizio pubblico siano stati ridisegnati dalla convergenza e dalla grande trasformazione digitale, che ha fatto collassare nell’universo digitale popolato simbioticamente da umani e macchine, i mondi di prima. Quello nativo digitale dell’informatica e quelli nativi analogici delle telecomunicazioni, della radiodiffusione, della stampa, dell’editoria, della pubblicità. “La tecnologia non è né buona né cattiva, ma non è neutrale”, scriveva lo storico Melvin Kranzberg nel 1986.

Questo spiega perché, nell’universo digitale in costante espansione, ci sono vincitori (Big Tech, piattaforme di accesso a contenuti audiovisuali, apparati tecnico-economici, compagnie digitali di ventura, tecnocrazie) e vinti (operatori di telecomunicazioni, broadcaster, stampa, stati, organizzazioni internazionali, burocrazie). Fino alle sfide di oggi, proposte dalla nuova intelligenza artificiale statistica e generativa, non più logico-simbolica, che, armata della sua conoscenza digitale continuamente perfezionata, affanna e interroga quella umana.

In crisi appare il concetto di servizio pubblico, genericamente inteso, che è stato superato, da quello, derivato dalla economic law, di servizio universale. Che non ha più al suo centro l’indipendenza del fornitore e la parità dei servizi offerti ai cittadini, ma si concentra sui costi: quelli di gestione del servizio e quelli richiesti all’utente. Una retrocessione che è anche culturale perché, nel discorso comune, qualsiasi piattaforma largamente usata, anche dalle Pubbliche Amministrazioni, come canale di comunicazione verso cittadini e utenti, come Meta, X, Google, TikTok “fa servizio pubblico”.

In crisi è l’opinione pubblica che, nel flusso personalizzato della comunicazione, si è trasformata in opinione personalizzata di massa, nella quale sembra prevalere il bisogno di avere un’opinione, più o meno condivisa con gli “amici” e di volerla comunicare come appartenenza: opinione ed espressione, quasi immediate rispetto al tema sul quale si esprimono, che prevalgono sulla riflessione più lenta ed informata.

In crisi è la politica, che ha rinunciato ad elaborare un’idea di futuro, monopolio degli innovatori dirompenti e ripiega sul passato, seppure con toni e argomenti retrotopici diversi, e paga una pesante e crescente dipendenza operativa e organizzativa dagli apparati tecnico-economici.

In particolare, soffre la democrazia, disertata dagli elettori e polarizzata. Negli Stati Uniti, la Camera ha impiegato un mese per eleggere uno speaker che, nel 2020-21, ha contestato l’esito delle elezioni presidenziali. La democrazia è un sistema di regole condivise e di equilibri delicati che nasce per affermare la sovranità popolare, che sempre più sembra invece alla ricerca di nuove modalità espressive per affermarsi. In un mondo nel quale apertura, fiducia e condivisione perdono quota a favore di chiusura, sfiducia e potere di attori esterni, opachi, autoritari.

La polarizzazione politica è anche culturale ed è ormai spaccatura insanabile: negli Stati Uniti alla cosiddetta cancel culture e al politically correct che intende enfatizzare i diritti delle minoranze, fa specchio l’oscurantismo applicato che arriva a mimare, con la partecipazione di rappresentanti politici di massimo livello, roghi di libri proibiti nelle biblioteche pubbliche.

La cosiddetta disintermediazione (nella quale, paradossalmente, tutto è intermediato dai grandi operatori digitali) si traduce in frammentazione culturale e sociale e diventa tribalizzazione. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera riportava dati impressionanti dagli Stati Uniti: per il 38% dei repubblicani sarebbe lecito opporsi con violenza agli eccessi degli avversari politici e così farebbe il 41% dei democratici; solo il 16% degli americani pensa che il governo stia facendo le cose giuste, mentre il 31% dei sostenitori di Trump e il 24% di quelli di Biden considerano l’attuale sistema democratico non più praticabile e si dovrebbe cercare un’alternativa.

Il tutto configura una deriva opposta alla coesione sociale e alla emancipazione culturale delle persone pensata e perseguita da Gianni Bellisario e da Infocivica. Se fosse vero che dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva, dovremmo avere voci e pensieri di ricostruzione, rispondere a discorsi cattivi con discorsi migliori, contrastare false narrazioni con narrazioni migliori, credere che la verità dei fatti e delle conoscenze possa avere successo anche in un’epoca di falsità rivendicate come vere. Un’epoca nella quale il dibattito pubblico delle idee è sostituito da un mercato di verità cosiddette alternative, sostenuto dalla ricerca privatistica di vantaggi economici. E cercare di consolidare la costituzionalizzazione dello spazio digitale, cresciuto finora senza regole cogenti, che i regolamenti europei su dati, mercati e servizi digitali stanno definendo.

Oggi, anche la pace sembra una fantasia allucinata, perché il significato della parola non trova d’accordo non solo chi si combatte, ma nemmeno coloro che intorno guardano all’imbarbarimento senza perseguire davvero la civilizzazione dello scontro. Avviene che in un’epoca diventata bellica, le parole siano diventate armi, quasi sempre di propaganda e confusione informativa. Come analisti, professionisti, operatori della comunicazione, dovremmo tornare alla cura, quasi filologica, delle parole. Per poter sfuggire all’intimazione che costantemente ci viene rivolta “con noi o contro di noi” e ragionare secondo logica e valori: quelli espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e dalla nostra Costituzione.

In questi ultimi giorni due episodi mediatici, inattesi, fanno sperare. L’anziana kibbutzim che ha il coraggio di salutare il suo carceriere mascherato con la parola shalom e la giornalista di Al Arabya che, intervistando uno dei capi di Hamas, lo mette in difficoltà chiedendogli conto delle atrocità compiute: non credo sia casuale che questa speranza venga da donne.

Per questo, io credo, sia stato molto importante ricordare Gianni Bellisario e cercare, ora, di continuare l’avventura di Infocivica, nonostante le difficoltà dell’associazionismo. Perché occuparsi di comunicazione, informazione, conoscenza è ancora più necessario oggi di quanto lo fosse vent’anni fa e per continuare a testimoniare una passione, ragionata e ragionevole, per i valori di dignità e di emancipazione umana.


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