FRANCO FERRAROTTI, LA SOCIALIZZAZIONE DEL POTERE E IL SUICIDIO DELL’EUROPA

Nel febbraio del 2022 ebbi il privilegio di intervistare Franco Ferrarotti. Passai un’oretta con lui nel suo studio di corso Trieste a Roma.

Per anni avevo contattato il professor Ferrarotti via mail, ma fino a quel momento non avevo mai avuto modo di incontrarlo di persona. Anche se quella fu la prima volta che mi vide, il professore mi accolse a braccia aperte e, con il suo sorriso sornione, mi invitò a sedermi accanto a lui.

Ricordo pile di libri ovunque, anche a terra. Gli chiesi di poter registrare la nostra conversazione, serenamente accettò. Iniziò a parlare senza che io gli facessi domande. Mi raccontò del suo rapporto con Adriano Olivetti e di come, secondo lui, si sarebbe dovuto organizzare un gruppo di lavoro «bisogna socializzare il potere», questa sua frase mi piacque molto; continuò poi dicendomi «Vede Bettozzi, bisogna in qualche modo concepire il potere non più come appannaggio ristretto, ma come servizio alla comunità, questo passaggio non è ancora stato compiuto da nessun paese oggi al mondo, cioè il passaggio del potere come appannaggio personale al potere come impersonale servizio alla comunità; conflitto e potere vanno ridefiniti ed è molto difficile…».

Ogni tanto si interrompeva e rimaneva assorto nei suoi pensieri. Era un piacere osservare quanto fosse coinvolto dai suoi ragionamenti. Ero emozionato. Mi sentivo un bambino in attesa che il suo maestro trovasse le parole giuste per descrivergli il mondo.

Gli esposi le mie perplessità sul futuro, perplessità derivanti dall’esasperato utilizzo della tecnologia e dal fatto che la società stava divenendo dominio esclusivo di tecnocrati e burocrati.

Dal canto suo Ferrarotti mi rispose manifestando i suoi dubbi sull’attuale modo di comunicare tra persone anche molto vicine tra loro «oggi, diciamo le cose come stanno, la comunicazione elettronica planetaria in tempo reale è autoreferenziale e quindi l’individuo è sempre più solitario, chiuso in se stesso, ma l’individualità, l’identità individuale è collegata correlata essenzialmente col concetto di alterità, nessuno si salva da solo. Oggi si dice che col Covid 19 le vittime sono i vecchi, no, le vere fragilità sono i giovani, che per svilupparsi hanno bisogno del rapporto… oggi la socialità è una socialità fredda, lontana. Quando non si risolvono questi problemi dei rapporti interpersonali, ma anche inter-nazionali c’è la guerra».

A questo punto manifestai apertamente la mia curiosità, gli feci un cenno come per dire che avrei avuto piacere approfondisse questo argomento (lo avevamo già concordato via mail). Ferrarotti ebbe prima un sussulto, poi sospirò e riprese a raccontare, stavolta però il suo tono di voce era cambiato radicalmente, da animato e battagliero che era quando parlava dei diritti dei lavoratori a melanconico, quasi rassegnato, ora che l’argomento erano i ricordi (in questo caso drammatici) della sua giovinezza: «Ho vissuto cinque guerre, questo è anche un regalo danaico, un regalo un po’ avvelenato della longevità… la prima guerra è stata la guerra d’Abissinia, 1935-36, con quelle famose sanzioni della Società delle Nazioni di Ginevra contro Mussolini, che non hanno avuto nessun effetto, anzi, quelle sanzioni hanno reso più coesa la volontà italiana e sono gli anni in cui le povere massaie italiane davano l’oro al fascismo, cioè le fedi nuziali; poi la guerra civile spagnola; e poi, nel ’39, il corridoio di Danzica, l’invasione della Polonia; la Seconda guerra mondiale che vuol dire tre guerre però: c’è la guerra guerra, poi c’è la guerra fratricida quando c’è la Repubblica Sociale Italiana e poi c’è la Resistenza, la guerriglia…per carità, sono vissuto troppo a lungo ma avrei fatto a meno di questa sesta esperienza bellica che è appena iniziata e non sappiamo dove ci porterà. La mia idea è che con le due guerre, la Prima e la Seconda guerra mondiale, vissute e combattute sul suo territorio, l’Europa si è suicidata».

Ferrarotti continuò poi il suo discorso analizzando lucidamente le criticità dell’Unione Europea. Le sue conclusioni furono che qualsiasi sarà l’esito di questa nuova guerra essa porterà al declino dell’Europa e che, venuta meno quest’ultima, resteranno tre centri planetari di potere: Russia, Cina e Stati Uniti. Di tutto questo il professore si mostrò visibilmente preoccupato e mi diede le sue motivazioni al riguardo affermando che «col venir meno dell’Europa verranno meno il logos greco, la gravitas (romana), e, lo dico io da miscredente, il grande messaggio cristiano contro l’immoralità del lavoro schiavile. Siamo in presenza di grandi rivolgimenti, occorrerebbe sviluppare, per le varie società degli organi che io chiamo di autoascolto, per cui le domande che vengono dal basso, che emergono, sono in tempo capite ecc… questa dovrebbe essere la Sociologia. Ma la Sociologia come tale resta, diciamo, un fatto specialistico e quindi attende dal mercato le sue commesse».

Il professore tornò infine sulle mie perplessità riguardo la tecnologia, tema a lui molto caro, esprimendo anche qui, in maniera sintetica ma esaustiva, il suo punto di vista sull’argomento:

«Altro grave errore è quello che vede nell’innovazione tecnologica il principio guida, per carità è importante ma è un valore puramente strumentale, non guida da nessuna parte, non sa dirci né da dove veniamo, né dove siamo, né dove andiamo, oggi invece le società sono mosse dall’innovazione tecnologica che nel caso migliore è una perfezione priva di scopo, che ha la capacità di controllare solo le proprie operazioni interne, e che risolve i problemi sulla base dell’applicazione corretta delle istruzioni per l’uso, ma che non può dirci nulla… I giovani di oggi hanno pochissimo interesse per l’antefatto, vivono nel presente, nell’immediato […] l’informazione elettronica così rapida da non consentire la pacata riflessione e poi essendo autoreferenziale non consente la partecipazione, cosa succede? Che noi abbiamo in effetti un pensiero unico, un appiattimento culturale, viene meno il pensare senza uno scopo prefissato, pensare, contemplare, e allora dov’è la via d’uscita? La poesia! La parola poetica è la parola dell’assoluto, se in un componimento poetico io cambio un aggettivo crolla tutto; il momento artistico, pittura, scultura… il momento direi proprio poetico nel senso di poietico è creativo in questo senso, forse ci salverà, saremo salvati dai poeti!».

Ho nutrito sempre profonda ammirazione per quest’uomo, sia per la sua smisurata cultura, sia per la sua umiltà, sia per la sua lungimiranza. Anche quando la sua capacità d’analisi lo portava a fare constatazioni per le quali essere ottimisti risultava difficile, riusciva a guardare al futuro con la fiducia e la serenità che solo i grandi maestri di vita sanno avere.


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