La primavera sta per arrivare (così ci si illude di solito in questo periodo, proprio quando spesso capitano dei colpi di freddo da distruggerti il terrazzo) e con lei i primi richiami pubblicitari a viaggi e vacanze: tutto facile, economico, veloce e tranquillo. Oggi.
Invece, secoli fa, ecco a cosa andava incontro uno sconsiderato come Montaigne, che aveva deciso di raccontare i suoi viaggi non in territori inesplorati, ma dalla Francia all’Italia, due paesi civili della civile Europa del tempo.
La durata: non ore o giorni, ma mesi, anni. I mezzi: a piedi, a cavallo, oppure, massimo del lusso, una carrozza, ma solo per brevi percorsi perché le strade erano poche e cattive. Il resto, sentieri. E si viaggiava solo di giorno: il mondo era buio, fuori e nelle case.
Oggi ci piacciono le cene a lume di candela che ci isolano in un cerchio magico, tutto intorno la penombra. Ma quello che funziona adesso per i momenti romantici, non era affatto comodo allora per la vita quotidiana delle famiglie. Si andava a dormire al tramonto e ci si alzava all’alba. L’unica luce era quella del camino. I pochi che leggevano col moccolo ci rimettevano gli occhi e la salute (vedi Leopardi).
In viaggio un gentiluomo, come appunto Montaigne, si portava dietro, oltre al proprio cavallo, un mulo per il bagaglio, un cameriere, un mulattiere e due lacchè a piedi. Più, molto spesso, materassi, biancheria e coperte, stoviglie e provviste. Perché le locande erano infami, gli osti imbroglioni, e non c’era da scegliere. Finestre senza vetri, piatti di legno o terracotta sporchi, tavolacci su cui era meglio dormire senza lenzuola, federe o pagliericcio, perché così si evitavano cimici e pulci.
Brevi tappe percorse ogni giorno, per di più calcolate in misure diverse da luogo a luogo: lega di Guascogna, lega di Francia, lega tedesca; miglio italiano (ce ne volevano 5 per farne uno tedesco), spanne, piedi, braccia, cubiti, lance, passi.
Si viaggiava con il contante in borsa, scambiandolo in una girandola di valute locali: scudi, fiorini, soldi, lire, talleri, reali, giuli, zecchini, paoli, grossi, denari, baiocchi. Niente assegni o carte di credito, quindi continui rischi di rapina.
E naturalmente ognuno degli innumerevoli staterelli da attraversare richiedeva passaporti, bollette di alloggio con il numero di signori, servitori e bestie in transito, senza le quali non si trovava da dormire e da mangiare. Qualche volta servivano anche le bollette di sanità, se si arrivava da dove c’era o si credeva che ci fosse qualche pestilenza. E nel bagaglio erano attentamente controllati e al caso sequestrati anche i libri, oggetti rari, costosi e all’epoca molto sospetti, soprattutto di eresia.
Una parola sull’igiene: “Nelle città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame e rifiuti, i cortili interni di urina e feci, le scale di legno marcio e sterco di topi, le cucine di cavolo andato a male e grasso rancido, le camere da letto di lenzuola bisunte e vasi da notte. La gente puzzava di sudore e di vestiti sporchi, le bocche di denti fradici e i corpi di pustole e scabbia; il contadino puzzava come il prete, puzzava tutta la nobiltà. Perfino il re puzzava come un animale e la regina come una vecchia capra, sia d’estate che d’inverno. Insomma, non c’era attività umana che non fosse accompagnata dalla puzza” (Süskind: “Il profumo”).
Ma poi, arrivato a Roma, Montaigne riferisce (con uno stupore che conferma essere i fatti precedentemente citati la normalità) di una cena al palazzo di un cardinale, in cui “tutti si sono lavati le mani prima del pasto!”
Chiudiamo con una sua segnalazione, tanto per sapere come regolarsi, della migliore locanda d’Italia, che è “La Posta” di Piacenza, e la peggiore: “Il Falcone” di Pavia, dove si paga a parte la legna per il camino, la biancheria e il materasso.
Forse, essendo passati diversi secoli, non sono più indicazioni tanto attendibili.
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